25/03/2017
Testo della predicazione tenuto ad Omegna dal Pastore Alessandro Esposito, Domenica 19 marzo, durante il suo insediamento nelle comunità di Omegna ed Intra
Il 71mo volto (Esodo 32, 1-4)
«Il popolo, vedendo che Mosè tardava a scendere dal monte, si affollò intorno ad Aronne e gli disse: “Facci un Dio che cammini alla nostra testa, perché a quel Mosè, l'uomo che ci ha fatti uscire dal Paese d'Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto”. Aronne rispose loro: “Togliete i pendenti d'oro che hanno agli orecchi le vostre mogli e le vostre figlie e portateli a me”. Tutto il popolo tolse i pendenti che ciascuno aveva agli orecchi e li portò ad Aronne. Egli li ricevette dalle loro mani, li fece fondere in una forma e ne ottenne un vitello di metallo fuso. Allora dissero: “Ecco il tuo dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dal Paese d'Egitto” »
(Esodo 32:1-4)
Vi sono episodi narrati dai testi biblici che vantano una fama che li precede: racconti di cui tutte e tutti, persino chi è estraneo a qualsiasi contesto religioso, abbiamo comunque almeno un lontano ricordo. Paradossalmente, però, sono proprio questi i testi che siamo invitate ed invitati a penetrare più in profondità, contro le presunte evidenze dei nostri ricordi vaghi e delle interpretazioni che solitamente ci hanno proposte. Rispetto ad un testo noto o ritenuto tale, la prima operazione da effettuare è quella di tralasciare per un momento tutta una serie di letture che ne abbiamo ascoltate: è necessario, prima di tutto, restituire verginità all'ascolto, darci una “lavata d'orecchi” che ci permetta di saper cogliere la novità dentro ciò che crediamo di conoscere già e che spesso giace sepolto dall'abitudine. Proviamo quindi per qualche istante a osservare meglio un paesaggio conosciuto per coglierne quei particolari che spesso ci sfuggono quando riteniamo che il luogo ci sia del tutto familiare. Esploriamo il già noto cercando di scoprirvi quell'ignoto che sempre vi si cela.
Israele sta vagando ormai da tempo in un deserto che è stato causa di lamentele, perplessità, malcontento. Ora anche quell'uomo che ha condotto il popolo fuori da una terra di schiavitù è improvvisamente scomparso: è salito su un monte e non ha più fatto ritorno. Era stato lui, quel Mosè, in fondo, a generare dubbi e mormorio: ora si è eclissato, è scomparso. Per cui l'occasione sembra quanto mai propizia.
Il popolo si rivolge quindi ad Aronne, fratello di Mosè, specialista, a quanto ci è dato di capire, di “questioni cultuali”. La richiesta è chiara ed estremamente significativa: “Facci un Dio”. Ovverosia: costruiscicelo, assemblalo, vedi un po' cosa puoi fare. Un Dio, infatti, lo si può edificare e una cultura qual è la nostra dovrebbe saperlo perfettamente. E Aronne, da buon sacerdote, mediatore del sacro, non si tira indietro di fronte alla proposta: al contrario, si presta al gioco e impartisce direttive concrete per mettere in atto una proposta che pare allettarlo. Dà così il via alla costruzione di ciò che più facilmente può essere confuso con Dio: l'idolo, vero e proprio Dio capovolto, tanto più ingannevole quanto più riesce ad assomigliare a Dio, o, per meglio dire, all'idea che ce ne siamo fatta e che, spesso, non è altro che la proiezione di un desiderio. Non è certo un caso che una delle espressioni latine per indicare l'avversario di Dio, colui che a Dio si contrappone, sia simia dei: ovvero, colui che è simile a Dio; letteralmente potremmo tradurlo: “la scimmia di Dio”, colui che lo scimmiotta, lo imita e che trae in inganno in virtù della sua somiglianza con Dio, non della sua differenza rispetto a Lui. Travestito da Dio fino al punto di far credere di essere Dio: un Dio a misura d'uomo e delle sue, delle nostre aspettative, un Dio manipolabile, a servizio di, conforme a.
Idolo, invece, è parola che proviene dal greco eidos, che, propriamente, significa “volto”, “aspetto”, “immagine”: insomma, “ciò che si vede” e che, una volta visto, permette l'identificazione. L'idolo è il volto inconfondibile di Dio, ciò che permette di dire: “Eccolo qua, è lui”. È identificazione piena, assoluta, senza riserve: è quel che si può vedere, niente di più, nulla al di là. È corrispondenza perfetta ad un'immagine, quella che ne ho io, solitamente: una sorta di documento d'identità rilasciato a Dio da chi presume di conoscerlo in un modo determinato e, si capisce, unico e adeguato. È la verità come assoluto, come evidenza. È la perenne tentazione dogmatica di definire Dio, di costringere l'altro, l'altra, a riconoscerlo nell'identikit che io ne fornisco. È il ribaltamento del racconto di Genesi: da un essere umano ad immagine di Dio ad un Dio ad immagine nostra, conforme alle nostre proiezioni e, quel che è peggio, ai nostri interessi. Il problema però non risiede tanto nel farsi un'immagine di Dio, cosa in parte inevitabile quando, in qualche modo, ne facciamo esperienza: il problema è, piuttosto, far coincidere Dio con quest'immagine, convincersi del fatto che anche l'altro, l'altra, che abbiano incontrato Dio, debbano conferirgli le stesse sembianze che noi gli abbiamo assegnate. Una tradizione rabbinica insegna che delle Scritture, che raccontano di Dio, è possibile individuare settanta sensi, numero che simboleggia quella completezza che è sempre figlia della pluralità, di una differenza positiva e insopprimibile. L'esortazione rabbinica, però, non è quella di esaurire questi settanta sensi, enumerandoli l'uno accanto all'altro: l'invito, piuttosto, è quello di esplorare ed aggiungere un “settantunesimo senso”, quello che ciascuno è chiamato a portare alla luce, quello che a Dio ancora manca.
Ho trovato assai belle le parole che il filosofo ebreo Emanuel Levinas propone alla nostra riflessione, commentando questa efficace immagine rabbinica del “settantunesimo senso”:
Tutto si svolge come se la molteplicità delle persone (...) fosse la condizione della pienezza della verità, come se ogni persona, con la sua unicità, assicurasse alla rivelazione un aspetto unico della verità: come se alcuni frammenti di questa verità non si sarebbero mai potuti rivelare nel caso in cui queste persone non fossero mai nate
(Tratto da: LEVINAS, E. La rivelazione nella tradizione ebraica, in: L'aldilà del versetto, Napoli, 1986)
Sfuggire all'idolatria significa rinunciare al possesso di Dio, che è l'eterna tentazione a cui ogni fede è inevitabilmente esposta: significa essere ancora capaci di lasciarci sorprendere da Dio, di scorgerlo laddove non immaginavamo di vederlo, là dove Lui, Lei, decide di lasciarsi incontrare.
Aronne, abbiamo visto, asseconda il desiderio del popolo di avere un'immagine di Dio chiara e disponibile, che poi è proprio quanto Dio aveva espressamente vietato al popolo nel primo dei dieci comandamenti. Proseguendo, il testo ci dice che quest'immagine è quella di un vitello. “Vitello”, in lingua ebraica, si dice 'egel. Mosso da curiosità, ho cercato di scavare nella direzione suggeritami da questa parola: non mi soddisfacevano, infatti, le spiegazioni tradizionali che si possono ricavare dalla maggior parte dei “commentari” al libro dell'Esodo.
Così, sono andato a cercare questo termine sul dizionario ebraico-italiano. Ora, in ebraico le uniche lettere di una parola che vengono scritte sono le consonanti: nel caso della nostra parola, 'egel, la g la l (più una lieve aspirazione ad inizio parola). Queste stesse consonanti, combinate con altre vocali, danno vita alla parola 'agol, che si scrive, dunque, allo stesso modo e che significa “cerchio, rotondo”. Ho trovato che si trattasse di una coincidenza interessante per due motivi.
Anzitutto il cerchio è rappresentazione di qualcosa di chiuso, di completo: immagine di perfezione, di qualcosa a cui non è possibile aggiungere nulla. L'idolo non è altro che Dio racchiuso nel cerchio di una determinata comprensione che si crede corretta ed esauriente. L'idolo scambiato con Dio sta dentro il cerchio e lì soltanto e l'ampiezza della sua circonferenza la stabilisce ciascuno attraverso le proprie convinzioni. Tutto ciò che non può esservi contenuto, circoscritto, resta fuori. L'idolo racchiude Dio in orizzonti di presunta certezza, in recinti dove sia possibile, in qualche modo, “addomesticarlo”. “Religione”, non a caso, viene da re-ligio: letteralmente “relegare”, confinare Dio entro i cortili del sacro, di modo da poterne, all’occasione, disporre. Questo è stato spesso l'obiettivo degli uomini e dei sistemi religiosi: imprigionare Dio dentro gli steccati di un sistema ritenuto non modificabile soltanto perché reso chiuso, impermeabile alle novità, alle scoperte a cui può portare l'incontro con Lui, con Lei. Quello che è possibile sperimentare nella relazione con Dio non è altro che uno dei Suoi volti che non è il volto, l’unico che Dio possegga, ma appena un frammento che Dio ha deciso di mostrare di Sé a quanti ne sono andati in cerca e che devono, ogni volta di nuovo, tornare a cercarlo.
Ma circolare, per tornare alla nostra parola ‘agol e provare a scavarne quel significato che trovo curioso ed interessante, è anche il cammino di chiunque si disponga a sostituire Dio con l'idolo: costui cammina in tondo, finisce per girare intorno a quel sé che è poi l'unico vero idolo per ciascuno. Seguire l'idolo, quindi, significa rimanere prigioniere e prigionieri di sé, edificare le mura della propria prigione, erigere le pareti che determinano, poi, la nostra insoddisfazione. Seguire l'idolo significa rimanere in quel deserto in cui lo si adora, senza che un cammino autentico sia in grado di portarcene fuori. Servire l'idolo, in definitiva, significa essere i carcerieri di noi stessi, non osare lo smarrimento, non avere il coraggio di sbandare dietro a Dio, per afferrarsi a una sicurezza che non tarderà a rivelarsi illusoria, ingannatrice.
Il Dio biblico, al contrario, ci propone il decentramento, la relazione come alternativa al cammino che finisce per farci avvitare su se noi stesse, su noi stessi. Si tratta dell’invito che ci viene rivolto a scoprire ogni giorno, di Dio, un volto nuovo, che è quello che può esserci rivelato dall'incontro e dall'ascolto dell'altra, dell'altro. In ebraico, volto si dice panim ed è, assai significativamente, un plurale; più precisamente, si tratta di una forma di plurale del tutto particolare che viene definito duale, perché viene utilizzato per quelle situazioni che coinvolgono due soli soggetti, due sole persone. Per avere un volto dunque, ci insegna l’ebraico, bisogna essere in due: ognuno possiede un volto, infatti, soltanto quando sta di fronte a un'altra, a un altro, che, letteralmente, gliene fa dono. Funziona così per tutti. Anche per Dio: che in ciascuna, in ciascuno di noi, desidera soltanto specchiare quel settantunesimo volto che, di Sé, ancora, non ha rivelato.
15/03/2017
Sermone di Domenica 12 Marzo 2017 tenuto ad Omegna sul testo biblico di Marco Capitolo 12, versetti da 1 a 12
Marco 12, 1-12 # Matteo 21, 33-46
Ad una conferenza distrettuale, un Pastore parlò che
vi era un tempo in cui, i cristiani evangelici, i protestanti in genere, erano
conosciuti per la loro conoscenza della Parola di Dio la Bibbia, il loro grande
senso del dovere verso gli altri e verso Dio, doveri che essi adempivano in
modo fedele ed esemplare, disse che aveva la fondata impressione che la
maggioranza dei cristiani che si professano evangelici oggigiorno, sia sempre
meno all’altezza della loro fama di gente che compie a fondo ogni loro dovere
verso Dio e verso gli altri, includendo anche se stesso. Se
quello che il Pastore suindicato ha detto, è vero, come io credo, noi non ci
rendiamo abbastanza conto di quanto possa essere pericolosa la nostra
posizione, soprattutto di fronte a ciò che il Signore Gesù diceva al popolo di
Dio della Sua generazione, parole che vengono ritrasmesse a noi in tutta la
loro inalterata importanza.
Nella Parabola dei malvagi vignaioli che è descritta,
al capitolo 12 versetti da 1 a 12 di Marco, abbiamo scoperto ancora una volta
che,
1. Gesù, quando parlava alla
gente, quello che diceva era sempre velato, ambiguo, esposto a diverse
interpretazioni,…era solo con i Suoi discepoli, quelli che Lo seguivano con
fiducia ed ubbidienza, che Gesù diceva le cose chiaramente. Con la gente in
generale Gesù usava delle storie, dei racconti, delle illustrazioni prese dalla
vita di tutti i giorni, intese a far riflettere su sé stessi, su Dio, sulle sue
opere e soprattutto sulla Sua Persona, questo è il motivo per cui le persone
che lo ascoltavano avrebbero dovuto capire il suo messaggio, come si dice, “fra
le righe”; Gesù inizia questa parabola parlando di una vigna, una vigna come ce
n’erano tante intorno a Gerusalemme, vigne rigogliose che producevano del buon
vino, piantate su buona terra e coltivate a regola d’arte. Sono circondate da
siepi di protezione, sono dotate di un luogo per pigiare l’uva e di una
torretta di guardia in un angolo per avere una prospettiva di controllo su
tutta la piantagione. Di solito queste vigne appartenevano ad un proprietario
terriero che le affittava a dei contadini che se ne prendevano cura. Il
pagamento dell’affitto di solito avveniva in natura. Il padrone della terra
aveva diritto ad una parte concordata della produzione.
2. Ecco però, in questo
racconto quei contadini, fittavoli, fanno una vera e propria “rivoluzione”. Si
ribellano al loro padrone, gli espropriano la vigna, rifiutano di consegnargli
la parte concordata della loro produzione, bastonano ed ammazzano i suoi
inviati, ed alla fine uccidono persino il figlio del padrone sicuri ormai di
essersi appropriati dell’”eredità”. ...se ne potrebbe trarre un film di questa
storia, e naturalmente per molti uomini/donne, gli “eroi” sarebbero i
contadini, non è vero? Giustizia, libertà, commercio equo... cose degne almeno
per una campagna di “Pane per i Fratelli”! Le cose però, nella parabola di
Gesù, non vanno in questo senso, perché il padrone arriva con le sue milizie
private, massacra quei contadini, e...dà la vigna ad altri!
3. In questa parabola, avremo notato come Gesù lascia intendere che non
parteggia per i contadini e che voglia parlare di “giustizia e libertà”
scandalizzandosi per la crudeltà dei padroni…anzi,
Gesù sembra avallare concetti come ordine, legalità, diritto inviolabile alla
proprietà privata! E’chiaro come Gesù metta qui in evidenza i diritti del
legittimo proprietario e che non si tratti affatto di un “Gesù socialista” come
qualcuno vorrebbe che fosse. Il punto è un altro: Gesù non sta parlando qui
della società umana, di classi sociali, di giustizia, di uguaglianza, di
libertà...queste cose eventualmente troveranno il loro spazio in altri
contesti. Qui Gesù - e chi lo ascoltava in quell’occasione lo aveva capito bene
- stava parlando dei diritti inviolabili di proprietà che Dio ha sul mondo e su
ciascuno di noi e che noi regolarmente disattendiamo, pretendendo di fare a
meno di Lui e godendo allegramente dei beni di questo mondo senza voler avere
nessuna responsabilità nei Suoi confronti.
4. Per essere più
chiari, nel contesto di questa parabola, Gesù stava dicendo che tutto questo
era da intendersi come una denuncia contro Israele, popolo eletto di Dio, il
quale non solo non serviva il Signore rendendogli la gloria che Gli è dovuta
con la fede, l’ubbidienza e con una testimonianza di vita ineccepibile, ma che
sarebbe giunto persino a respingere e ad uccidere lo stesso Figlio di Dio,
Signore e Salvatore. Che cosa avrebbe fatto il Signore Iddio di fronte a tutto
questo? Avrebbe condannato e respinto il Suo popolo, chiamando altri a farne
parte, che sarebbero stati più fedeli. Si, altri, proprio fra le genti pagane
di questo mondo, che molti allora fra gli ebrei disdegnavano. E Dio nella Sua
sovrana libertà lo poteva fare.
5. Tutto questo, è
sorprendentemente un discorso scomodo, in quanto il ribadire i precisi diritti
di sovranità di Dio ai presenti di allora dà molto fastidio. Come anche ai
nostri giorni Dio è Signore sulla nostra chiesa ed è nostro preciso dovere
darGli gloria con la nostra ubbidienza e servizio. Se non lo facciamo Dio la
condanna e la abbandona, prendendo altre persone, altre chiese, altri gruppi
che Gli siano più fedeli. E Dio fa prosperare oggi spiritualmente le chiese che
Gli sono fedeli, in quanto non abbiamo il diritto di gestirci la vita come ci
pare e piace per il semplice motivo che noi siamo sue creature e apparteniamo a
Lui come anche siamo stati creati per essere in stretta comunione con Lui per
servirlo, ed è quindi a causa di questo…che se pretendiamo di gestirci
autonomamente…senza ubbidire a Dio malgrado tutta la Sua pazienza e tutti i
suoi richiami che ci fa, in mille modi, credete che…chi persiste nella
ribellione a Dio…avrà una sorte migliore di quei malvagi vignaioli?
Nel nostro testo è significativa quella frase
pronunciata dal padrone della vigna, che dice: “Avranno almeno rispetto per mio
figlio!”. Evidentemente si illudeva, perché quei vignaioli diranno: “Costui
è l’erede, venite, uccidiamolo!”.
6. Gesù era cosciente di
essere venuto in un ambiente alquanto ostile. L’ostilità non era tanto verso di
Lui come persona, perché se avesse vissuto una vita “normale”, conformandosi
bene o male all’andazzo di questo mondo, Lo avrebbero certamente lasciato in
pace e magari sarebbe arrivato fino a tarda età...ma da li a pochi giorni sarà
messo a morte e con questa Parabola dei malvagi vignaioli vuole denunciare la
triste realtà di un’umanità fondamentalmente ostile e ribelle verso Dio, la cui
colpa fatale e dannosa è quella di dire di appartenere alla Sua Chiesa e a Gesù,
poi...lo respinge, lo ignora, lo trascura e molto spesso lo sottovaluta,
ebbene, questa è una condizione di irrimediabile perdizione anche se si
compiono delle “buone opere”, questo era il peccato dei Giudei che Gesù tramite
la parabola stava denunciando, e non si trattava solo di una “lamentela”, E’
come se Gesù dicesse, sempre in modo sfumato: “Non vi fate illusioni: la
ribellione umana alla legittima sovranità di Dio verrà punita”. I capi dei
sacerdoti, gli scribi e gli anziani, ai quali Gesù aveva rivolto questa
parabola, e che non sono stupidi, comprendono bene ciò che Gesù vuol dire. Il
testo dice: “Allora essi cercavano di prenderlo, perché avevano capito che egli
aveva detto quella parabola contro di loro” (12), in quel frangente,
come abbiamo letto, non riusciranno nell’intento di metterlo a morte, ma quando
vi riusciranno, questo omicidio avrebbe comportato loro una rovina momentanea
ed eterna a motivo del fatto che l’aver ucciso Gesù li ha condannati senza
assoluzione, così come, oggigiorno, respingere o ignorare Cristo Gesù è un
peccato mortale ed è uno degli scopi che questa parabola ci vuol far capire.
7. Dovrebbe essere logico, naturale, e anche normale
accogliere il Figlio di Dio con affetto e riconoscenza da creature come noi che abbiamo il disperato
bisogno di Lui e della Sua opera, ma quanti purtroppo sono ciechi! Con quanta
tristezza si osserva il fatto che il Signore e Salvatore Gesù Cristo sia dai
più ignorato, trascurato, disprezzato. Respingere Cristo è pazzesco, del tutto
incredibile agli occhi di coloro che hanno gustato quanto il Signore sia buono!
Gesù è il Salvatore di chi non ha più speranza, il
sollievo per chi non trova nelle medicine di questo mondo l’aiuto decisivo e
per chi è privo di soccorso.
Egli è il solo Sommo Sacerdote che possa offrire a Dio
un sacrificio davvero riparatore per tutti i nostri peccati. nostri peccati. Egli è il Re dell’universo che è stato investito di
ogni potere in cielo e sulla terra, sommamente degno di ogni onore e gloria.
Egli è Colui che ha manifestato con efficacia senza
pari l’amore di Dio Padre: come non vedere questo attraverso l’agonia e la
tortura di quella croce?
Egli è capace di salvare efficacemente e fino in fondo
tutti coloro che vanno a Dio attraverso di Lui. Egli è il sommo Profeta mandato
per rendere pubblica la volontà di Dio Padre, per rivelare le profondità di
Dio, e per mostrare il modo in cui peccatori colpevoli possono essere
riconciliati con Dio.
Egli è il Giudice supremo dei vivi e dei morti. Non sarebbe
forse ragionevole venire a patti con Lui prima che Lui emetta nei nostri
riguardi la Sua sentenza?
8. Dovrebbe quindi essere assolutamente ragionevole...che,
la suprema autorità di amore e misericordia, Gesù Cristo, riceva ubbidienza,
gratitudine e riverito da tutti coloro che ne hanno beneficiato.
9.Questo è il motivo per cui dobbiamo riflettere e
porci domande come queste: quale tipo di accoglienza
diamo a Gesù Cristo?
Quanto
spazio il Signore Gesù occupa nei nostri pensieri e nelle nostre priorità?
Gesù
Cristo è il soggetto favorito delle nostre conversazioni?
Il
Suo amore regna nel nostro cuore? Se professiamo di amarlo, dove sono gli
inseparabili frutti ed effetti del Suo amore nella nostra vita?
Abbiamo
imparato ad affidare la nostra anima nelle Sue mani, per essere salvati da Lui
interamente, nei Suoi termini?
Trascurando
Gesù Cristo, aggraviamo la nostra colpa come dice la Scrittura: “Come
scamperemo noi, se trascuriamo una così grande salvezza?” (Eb. 2:3).
Potremmo continuare ad essere così allegramente
negligenti quando la Scrittura chiaramente afferma ed illustra il destino di
coloro che pretendono di fare a meno del loro unico possibile Salvatore?
Domande importanti!
Alle quali ognuno di noi dovrebbe rispondere così: “ho capito che sto vivendo un momento decisivo della storia e della mia
storia personale. Chi mi sta davanti non è una persona qualunque, in Gesù si
determina il mio destino momentaneo ed eterno. Non posso far finta di niente,
altrimenti come mi presento di fronte a Lui?
Devo prendere una decisione, ora!”.
Conclusione
Abbiamo iniziato la nostra riflessione osservando come
“storicamente” i cristiani evangelici, i protestanti, fossero da sempre
conosciuti come persone molto serie e ligie ai loro doveri, sia verso Dio che
verso il prossimo. Siamo noi, sono io,
ancora all’altezza di questa fama? Viviamo forse una vita disordinata e
superficiale, priva di disciplina facendo il meno possibile di quanto è giusto
e, seguendo l’andazzo di questo mondo? Siamo coscienti di essere creature di
Dio “soggette a padrone”, con dei precisi doveri da adempiere verso di Lui e
verso gli altri? Se mi considero membro della chiesa cristiana, sono coerente
nella mia professione di fede servendo gli interessi di Colui che chiamo
Signore? Ho accolto Gesù Cristo degnamente come Egli presenta Sé stesso nella
Bibbia, cioè come il Solo nome che sia stato dato all’umanità per cui essa può
essere salvata? Dobbiamo essere per
altro coscienti di ciò che attende tutti coloro che Lo respingono disdegnando i
diritti del Signore Iddio sulla nostra vita. Di tutto questo la parabola che oggi abbiamo letto è assolutamente
esplicita. Decidiamo già da ora di accettare al nostro fianco il nostro Signore
se non vogliamo fare la fine dei malvagi vignaioli. Amen
11/03/2017
Predicazione del 26/02/2015 tenuta ad Omegna e Intra dal Pastore Alessandro Esposito
«E andò via di là Isacco e si accampò
presso il torrente Gherar e abitò là. E tornò Isacco e scavò pozzi d’acqua che
aveva scavato un tempo suo padre Abramo e che i filistei avevano chiuso dopo la
morte di Abramo e li chiamò con il nome con cui li aveva chiamati suo padre. E
scavarono poi i servi di Isacco nella valle e là trovarono un pozzo d’acqua
viva» (Gen 26:17-19)
L’inizio
della cosiddetta «storia dei Patriarchi», che costituisce il cuore del libro
che la tradizione cristiana ha denominato Genesi
e che l’ebraismo chiama In Principio,
è una storia costellata di pozzi: intorno ai pozzi, del resto, non può che
svolgersi la vita di una famiglia di allevatori come è quella di Abramo e della
sua discendenza. Chiaramente, però, il significato dell’episodio è allusivo,
simbolico: Isacco, infatti, torna a scavare là dove suo padre aveva scavato
prima di lui. Vorrei riflettere insieme con voi su questo particolare,
soffermandomi su due aspetti estremamente significativi. Anzitutto Isacco,
agendo in questo modo, porta avanti la tradizione paterna, con cui non intende
rompere: si pone nel solco tracciato da Abramo in maniera consapevole e decisa.
Scava là dove già suo padre, prima di lui, aveva scavato: questo gesto
rappresenta l’elemento di continuità con chi lo ha preceduto e, per ciò stesso,
gli ha trasmesso sapienza, fecondità, vita. Isacco non ha alcuna intenzione di
rinnegare tutto questo: ne riconosce il valore, è animato da gratitudine e
decide persino di mantenere i nomi che Abramo aveva dato ai pozzi. Nessuna
rottura con il passato, dunque, nessuna novità che calpesta la memoria:
soltanto un segno di fedeltà, braccia che tornano a scavare nel punto in cui i
padri avevano attinto l’acqua. Ma, insieme con questo, c’è un altro aspetto, in
un certo qual modo speculare rispetto al primo ed altrettanto essenziale: è
vero che Isacco riprende quanto fatto dal padre, ma è comunque compito suo
riportare alla luce quanto il tempo, seppur breve, ha già provveduto a
sotterrare. Questo è il pericolo costante che si corre ogniqualvolta si
sostituisce il rispetto per la tradizione con l’ossequio ad essa: si rischia di
recarsi presso pozzi che non dissetano più, perché attendono prima essere
dissotterrati. Questo è il lavoro che attende ogni generazione: riportare alla
luce l’eredità dei padri e delle madri tornando a scavare. Perché quello della
tradizione è un pozzo, non una sorgente: pertanto esso va liberato dai detriti
che, inevitabilmente, ogni sapere accumula e di cui, anche, deve imparare a
disfarsi, se vuole tornare ad attingere acqua che spenga la sete. Una volta
assolto questo compito di fedeltà creativa, non dobbiamo però credere che il
lavoro sia terminato. Ultimato il dissotterramento dei pozzi paterni, Isacco ed
i suoi cominciano a scavare altrove: anche questo è il compito che attende ogni
nuova generazione. Isacco scava anche in una direzione nuova: e qui si
imbatterà nell’inatteso. Narra infatti il nostro testo che, grazie al coraggio
di osare, Isacco scoprirà acqua di sorgente: una sorta di corso sotterraneo, che
fluisce e non ristagna. Il pozzo dei padri, infatti, in un certo qual modo è
acqua cheta: è fresca, limpida, ma anche ferma. Perché sia possibile attingere
alla fonte e non appena al pozzo dobbiamo azzardare la novità: scavare là dove
nessuno, ancora, aveva messo mano prima di noi.
Alessandro Esposito