«E andò via di là Isacco e si accampò
presso il torrente Gherar e abitò là. E tornò Isacco e scavò pozzi d’acqua che
aveva scavato un tempo suo padre Abramo e che i filistei avevano chiuso dopo la
morte di Abramo e li chiamò con il nome con cui li aveva chiamati suo padre. E
scavarono poi i servi di Isacco nella valle e là trovarono un pozzo d’acqua
viva» (Gen 26:17-19)
L’inizio
della cosiddetta «storia dei Patriarchi», che costituisce il cuore del libro
che la tradizione cristiana ha denominato Genesi
e che l’ebraismo chiama In Principio,
è una storia costellata di pozzi: intorno ai pozzi, del resto, non può che
svolgersi la vita di una famiglia di allevatori come è quella di Abramo e della
sua discendenza. Chiaramente, però, il significato dell’episodio è allusivo,
simbolico: Isacco, infatti, torna a scavare là dove suo padre aveva scavato
prima di lui. Vorrei riflettere insieme con voi su questo particolare,
soffermandomi su due aspetti estremamente significativi. Anzitutto Isacco,
agendo in questo modo, porta avanti la tradizione paterna, con cui non intende
rompere: si pone nel solco tracciato da Abramo in maniera consapevole e decisa.
Scava là dove già suo padre, prima di lui, aveva scavato: questo gesto
rappresenta l’elemento di continuità con chi lo ha preceduto e, per ciò stesso,
gli ha trasmesso sapienza, fecondità, vita. Isacco non ha alcuna intenzione di
rinnegare tutto questo: ne riconosce il valore, è animato da gratitudine e
decide persino di mantenere i nomi che Abramo aveva dato ai pozzi. Nessuna
rottura con il passato, dunque, nessuna novità che calpesta la memoria:
soltanto un segno di fedeltà, braccia che tornano a scavare nel punto in cui i
padri avevano attinto l’acqua. Ma, insieme con questo, c’è un altro aspetto, in
un certo qual modo speculare rispetto al primo ed altrettanto essenziale: è
vero che Isacco riprende quanto fatto dal padre, ma è comunque compito suo
riportare alla luce quanto il tempo, seppur breve, ha già provveduto a
sotterrare. Questo è il pericolo costante che si corre ogniqualvolta si
sostituisce il rispetto per la tradizione con l’ossequio ad essa: si rischia di
recarsi presso pozzi che non dissetano più, perché attendono prima essere
dissotterrati. Questo è il lavoro che attende ogni generazione: riportare alla
luce l’eredità dei padri e delle madri tornando a scavare. Perché quello della
tradizione è un pozzo, non una sorgente: pertanto esso va liberato dai detriti
che, inevitabilmente, ogni sapere accumula e di cui, anche, deve imparare a
disfarsi, se vuole tornare ad attingere acqua che spenga la sete. Una volta
assolto questo compito di fedeltà creativa, non dobbiamo però credere che il
lavoro sia terminato. Ultimato il dissotterramento dei pozzi paterni, Isacco ed
i suoi cominciano a scavare altrove: anche questo è il compito che attende ogni
nuova generazione. Isacco scava anche in una direzione nuova: e qui si
imbatterà nell’inatteso. Narra infatti il nostro testo che, grazie al coraggio
di osare, Isacco scoprirà acqua di sorgente: una sorta di corso sotterraneo, che
fluisce e non ristagna. Il pozzo dei padri, infatti, in un certo qual modo è
acqua cheta: è fresca, limpida, ma anche ferma. Perché sia possibile attingere
alla fonte e non appena al pozzo dobbiamo azzardare la novità: scavare là dove
nessuno, ancora, aveva messo mano prima di noi.
Alessandro Esposito
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