24/04/2017

Sermone sul testo biblico di Giovanni 21,1-14 tenuto nella Chiesa Evangelica Metodista di Omegna


1 Più tardi, Gesù apparve di nuovo ai discepoli nei pressi del lago di Galilea. Ecco come accadde.
2 Un gruppo di noi era là: Simon Pietro, Tommaso, «il Gemello», Natanaele (di Cana in Galilea), mio fratello Giacomo ed io, oltre ad altri due discepoli. 3 Simon Pietro disse: «Vado a pescare». «Veniamo anche noi», rispondemmo tutti. Così andammo, ma non prendemmo niente per tutta la notte. 4 All'alba scorgemmo un uomo sulla spiaggia, ma non riuscivamo a capire chi fosse.
5 «Ragazzi, non avete niente da mangiare?» chiese. «No», rispondemmo.
6 Allora Gesù disse: «Gettate la rete alla destra della barca e troverete del pesce!» Calammo la rete e, un attimo dopo, non riuscivamo a tirarla su, tanto era carica di pesce!
7 Il discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «Ma è il Signore!» A queste parole, Simon Pietro indossò la tunica, perché era nudo, e si tuffò in acqua. 8 Noi altri, invece, rimanemmo sulla barca a tirare la rete piena di pesce; eravamo circa a 100 metri dalla riva. 9 Quando giungemmo alla spiaggia, trovammo un fuoco acceso su cui arrostiva del pesce, e c'era anche del pane.
10 «Portate qui un po' di quel pesce, che avete appena preso!» disse Gesù. 11 Allora Simon Pietro salì sulla barca e tirò in secca la rete. C'erano centocinquantatré grossi pesci e, benché fossero tanti, la rete non si era strappata.
12 «Ora venite a mangiare!» ci invitò Gesù; e nessuno di noi ebbe il coraggio di chiedergli se era proprio lui, perché, ormai, ne eravamo certi. 13 Allora Gesù ci diede il pane e i pesci.
14 Era la terza volta, dalla sua risurrezione, che Gesù c'era apparso.

Care sorelle, cari fratelli, care amiche ed amici, analizzeremo insieme gli avvenimenti successivi alla resurrezione di Cristo Gesù. Se ricordate, Gesù aveva comandato di aspettarlo in Galilea, dove sarebbe riapparso a loro.
Ad un certo punto del brano, abbiamo letto che Pietro dice: “vado a pescare”, Giovanni e altri 5 discepoli si aggregano a lui, molto probabilmente i discepoli erano ritornati a fare il loro mestiere per mantenersi economicamente dopo la morte di Gesù
Questi sette uomini pescarono tutta la notte. Il metodo utilizzato era quello di stendere la grande rete, lasciarla affondare, e poi tirarla dentro la barca. Dovevano ripetere la procedura volta dopo volta, una notte di lavoro molto faticosa, diventata ancora più pesante e lunga per il fatto che, non presero nulla. Dopo una notte così, possiamo immaginare come si sentissero i discepoli, stanchi morti, affamati, e molto scoraggiati.
Quando ascoltiamo o leggiamo un brano, come quello di oggi, spesso non consideriamo tutti i particolari della vicenda e veniamo colpiti dai fatti che a prima vista possono sembrarci negativi, come l’episodio dei discepoli pescatori, che umanamente parlando, ci farebbe schierare dalla loro parte a motivo del fatto che ci sembra ingiusto che abbiano pescato tutta la notte senza prendere nulla prima che intervenisse con un miracolo Gesù, se ci schieriamo dalla parte dei discepoli è forse per il fatto che, noi, valutiamo i fatti e le circostanze che accadono nella vita di qualcuno o nella nostra in base ad un beneficio momentaneo e materiale, per esempio, se fosse stato per noi, Gesù avrebbe dovuto presentarsi ai discepoli già all’inizio della notte di lavoro e far si che prima dell’alba avessero già preso dei pesci senza farli lavorare inutilmente per parecchie ore per niente, analizzando il brano senza farci cogliere dal sentimentalismo, capiremmo che Gesù aspettò la mattina a causa di quello che voleva compiere nelle menti dei discepoli, ed il fatto che non abbiano preso pesci quella notte non era per caso, era tutto organizzato da Dio… era importante che i discepoli non prendessero nulla, perché questo avrebbe reso più evidente il miracolo di Gesù, … potessero conoscere meglio la personalità sovrana di Gesù e cosa voleva insegnare loro.
La parola greca originale del brano indica che erano le primissime ore del mattino e i discepoli erano a circa 100 metri dalla riva, quindi, non essendoci ancora una buona luce non riconobbero Gesù.
Gesù, vedendoli, domanda “non avete del pesce?”, questa domanda non serviva a Gesù per capire la situazione dei discepoli, bensì era importante che i discepoli si rendessero conto della loro situazione, comprendessero meglio il loro bisogno e capissero che Gesù può agire in ogni cosa. Durante il suo ministero, Gesù, fece delle domande per aiutare le persone a rendersi conto del loro bisogno, e della loro incapacità di curare se stessi; a questo punto del nostro brano, Gesù era pronto a fare un miracolo per aiutarli a capire che solo lui ha il controllo su tutte le cose, perciò era necessaria questa lunga notte infruttuosa, …doveva servire per fortificare la loro fede in Lui e mettere in evidenza la loro incapacità di prendere pesci tramite le proprie forze.
Un avvenimento simile a questo, è descritto in Luca 5, 4-11, avvenuto circa 3 anni prima, quando Gesù aveva chiesto a loro di gettare la rete, prima di ubbidire, Pietro aveva detto che a lui sembrava inutile, come descritto al versetto 5: “Maestro, tutta la notte ci siamo affaticati, e non abbiamo preso nulla; però, secondo la tua parola, getterò le reti”.
Questa volta i discepoli ubbidiscono senza dire niente e gettano la rete dalla parte destra.
Sarebbe importante tenere in mente la situazione. I discepoli erano circa a 100 metri dalla riva. Quest’uomo ordinò loro di gettare dalla parte destra la rete. Questo dopo una notte intera in cui avevano gettato la rete tante di quelle volte senza mai prendere nulla e oltretutto quest’uomo promette dei buoni risultati (Gettate la rete alla destra della barca e troverete del pesce!). Sarebbe stato tanto facile per loro rispondere a quell’uomo che non era possibile per lui da lontano dire a loro dove gettare la rete. Però, ormai i discepoli erano cambiati. Erano diventati veramente umili. Capivano il loro bisogno. Erano pronti ad ascoltare questa voce autorevole, anche se non capivano come avrebbe potuto sapere dove c’erano dei pesci.
O Gesù sapeva che c’era un enorme banco di pesci proprio alla destra della barca, oppure, ed è più probabile così, Gesù miracolosamente guidava tutti quegli enormi pesci proprio in quel punto e in quel momento. Comunque sia, la quantità di pesci che presero era miracolosa, tanto che 7 uomini forti, abituati ai lavori manuali non erano in grado di tirare su la rete, tanto era piena.
Era evidente a tutti che questo era un grande miracolo.
Qui vediamo qualcosa del carattere di Giovanni e del carattere di Pietro.
Solitamente Giovanni era colui che capiva le cose prima di Pietro, Giovanni fu il primo a rendersi conto che quell’uomo era Gesù e lo disse a Pietro (v.7), Pietro invece era sempre il primo ad agire, in effetti per la gioia di vedere Gesù, Pietro non poteva aspettare che la barca arrivasse a terra e il suo carattere impulsivo lo spinse a gettarsi nel mare per arrivare prima alla riva.
Dopo una lunga notte di così duro lavoro, i discepoli erano di sicuro stanchi e affamati. Appena scesero a terra videro che Gesù aveva già preparato un fuoco, stava cucinando del pesce e aveva anche del pane pronto. Gesù aveva preparato tutto, provvedendo al loro bisogno, così scoprirono un altro miracolo di Gesù    (v 9)   
Gesù stava provvedendo il cibo che serviva a loro, come anche il fuoco per asciugarsi e riscaldarsi, in quell’occasione, Gesù fece capire in modo evidente, senza lasciare dubbi, che era stato lui a provvedere ai loro bisogni.
Gesù non solo provvede ai loro bisogni, ma comanda loro di portare alcuni dei pesci che avevano preso. Per stare in comunione con Gesù è necessario ascoltare e ubbidire ai suoi comandamenti. Non è possibile essere vicini a Gesù senza essere pronti ad ubbidirgli. Egli è il SIGNORE e deve essere rispettato e ubbidito come il Sovrano che è.
Appena Gesù dà l’ordine di tirare su i pesci, Pietro è il 1° ad agire e si mette subito all’opera, gli altri molto probabilmente lo hanno aiutato stando sulla riva per trascinare la rete a terra.   Giovanni fu talmente colpito dal gran numero di pesci che dopo tanti anni, quando scrisse questo vangelo, ricordò il numero preciso: “153 grossi pesci”.
Il fatto stesso che la rete non si era strappata era un altro miracolo. Quando Gesù all’inizio del ministero, aveva provveduto una grande quantità di pesci per i discepoli, la rete si era rotta dal peso (Luca 5, 6b). Questa volta, però, nel piano di Dio la rete non si doveva rompere. Giovanni, fu colpito anche da questo particolare, riconoscendolo come un’opera di Cristo, e dopo anni lo scrisse nel vangelo. Quando camminiamo in ubbidienza, Dio ci dà successo nelle cose che ci chiede di compiere in quanto controlla la situazione.
A questo punto, Gesù comanda loro di venire a fare colazione.
Quanto è immenso il privilegio di mangiare insieme a Gesù! Nella Bibbia mangiare insieme al Signore è un meraviglioso privilegio, come descritto in Apocalisse 3, 20, quindi, l’invito ai discepoli di fare colazione con lui non solo è un modo per provvedere al loro bisogno di cibo, ma è anche un invito ad avere comunione con lui, il Signore. Questo invito è valido anche per noi oggi. (Santa Cena)
Gesù dando loro del pane e del pesce, dava una chiara lezione ai discepoli, e anche a noi, Gesù è colui che provvede ai bisogni di ciascuna persona. Molto spesso, provvede con mezzi naturali, anche se la sua mano non è visibile, è sempre Lui che sta provvedendo, è molto chiaro che quello che riceviamo viene da Gesù. Quindi, dobbiamo ricordare che Gesù è la fonte di tutto quello che abbiamo.
Gesù, per ben 3 volte, dopo la sua resurrezione dai morti si manifestò ai discepoli, questo suo manifestarsi doveva servire loro per togliere ogni possibile dubbio circa la realtà della sua resurrezione, fortificando così la fede in loro, in vista delle dure prove che avrebbero dovuto sostenere in tutto il mondo come testimoni della sua morte e della sua resurrezione. In altre parole, dovevano navigare nel Mare del mondo, per essere pescatori di uomini. Umanamente parlando, era un’impresa impossibile per un piccolo gruppo di uomini come loro. Come potevano sperare di avere successo dovendo affrontare i Giudei e l’Impero Romano? Come potevano essere pescatori di uomini?
I miracoli che Gesù compì, dovevano costituire per i discepoli un chiaro ricordo circa il fatto che sarebbe stato Gesù a dare successo alla loro missione di pescatori di uomini e sarebbe stato sempre lui a far sì che la rete non si rompesse quando avrebbero pescato una gran quantità di uomini e donne, se ricordate, poche settimane dopo il giorno della Pentecoste, quando Gesù mandò lo Spirito Santo sui discepoli, Pietro e gli altri predicarono a Gerusalemme e 3000 persone furono salvate.
Gli avvenimenti di questo brano ci ricordano che i discepoli hanno avuto il privilegio di vedere Gesù con i loro occhi, noi…abbiamo il privilegio di avere in mano la Parola di Dio e lo Spirito Santo che ci apre gli occhi e ci prepara sempre per le prove che dobbiamo affrontare nella nostra vita e che Gesù è colui che provvede a tutti i nostri bisogni e che qualunque successo che abbiamo nel portare avanti l’opera di far conoscere al mondo la sua morte e la sua resurrezione è dovuto all’opera di Gesù in noi. Noi possiamo seminare e annaffiare, ma la crescita viene sempre da Dio.
Quindi, …ogni volta che studiamo un brano, …è importante capire le verità contenute in quel brano. Però, …se ci fermiamo là, questo non ci porta beneficio, quello che ci serve è applicare quelle verità alla nostra vita dopo averle comprese.                                                                 
Per esempio, …il brano di oggi ha chiaramente fatto capire che Gesù ha provveduto ai bisogni dei discepoli, …se non arrivo a capire…che Egli provvederà anche ai miei bisogni, il mio studio mi aiuta poco. Bisogna sempre cercare di capire un brano correttamente e poi bisogna arrivare ad applicare quelle verità nella nostra vita.
Allora, consideriamo come le verità di questo brano possono aiutare noi.
Abbiamo visto che era necessario per i discepoli trascorrere tutta la notte senza prendere nulla, quando invece, Gesù, avrebbe potuto far prendere loro la stessa quantità di pesci durante la notte, questo perchè ai discepoli serviva una situazione difficile per poter riconoscere meglio l’opera e la potenza di Dio, anche noi abbiamo bisogno di problemi e difficoltà per poter riconoscere meglio l’opera di Dio e la sua potenza all’opera in noi, molto spesso, Dio si serve dei problemi proprio per compiere le opere più grandi in noi, anche quando siamo colpiti da difficoltà, ingiustizie e problemi che non riusciamo a risolvere, ricordiamo che Dio ha ogni cosa sotto controllo. Se Dio non ha scelto di farci evitare i problemi che possono capitarci, …è perché questi problemi sono proprio lo strumento con cui Dio si serve per fortificare e purificare la nostra fede a motivo del fatto che, lo fa per aiutarci a riconoscere che è sempre LUI che provvede a noi.  
Sorelle, Fratelli, amiche e amici, non dobbiamo scoraggiarci quando dal nostro punto di vista le cose vanno male. In realtà, ricordiamoci che Dio controlla ogni situazione, così da riconoscere che quello che noi chiamiamo un male, in realtà fa parte dell’opera di Dio in noi. Per dei pescatori, che dipendono dalla pesca per avere i soldi per vivere, trascorrere la notte intera senza prendere nulla sembra un male, oggi abbiamo visto che, serviva proprio quella situazione per aiutare i discepoli a riconoscere meglio la potenza di Cristo, quindi,…in realtà…era un bene, tutto questo deve servirci da lezione per il fatto che, a prima vista avrebbe potuto non sembrare logico gettare ancora la rete, eppure, abbiamo visto che i discepoli erano pronti ad ubbidire all'ordine di Gesù che diceva loro dove gettare la rete. Anche noi dobbiamo essere pronti ad ubbidire ad ogni suo comandamento, anche se, un comandamento del tipo: “date a Cesare quel che è di Cesare”, cioè pagare le tasse, può sembrare, … per chi ha problemi finanziari, … un obbligo che porta grossi problemi; … invece, dobbiamo imparare a fidarci di Dio, non perché ne comprendiamo ogni aspetto, ma perché Dio è il nostro Creatore e sa cosa è bene per noi. 
La lezione che possiamo trarre da questo brano può essere la seguente, Dio a volte permette che possono capitarci delle situazioni drastiche, non lo fa per cattiveria nei nostri confronti, ma lo fa per farci capire che è lui che provvede per noi. Anziché scoraggiarci, dobbiamo chiedere a Dio di aiutarci a trarre il massimo beneficio dalla prova. Infatti, anziché chiedere a Dio di togliere le prove, dovremmo chiedergli di darci la pace e la fede necessaria per superare i problemi di cui siamo o potremmo essere tormentati, a motivo del fatto che Dio controlla tutti gli avvenimenti della nostra vita, infatti, Dio ha sempre uno scopo per quello che compie in noi, uno di questi è quello di darci dei benefici spirituali ed eterni.
Lodiamo sempre il nostro Signore perché Egli è il Sovrano Dio su tutto. Questa è una verità che ogni credente deve imparare.

AMEN
P.L. Giampaolo Castelletti - Domenica 23 Aprile 2017

Fede e (è) dubbio.doc


DUBBIO E FEDE: STORIA DI DUE GEMELLI


1. Giovanni: un vangelo da imparare a leggere

Prima di accingerci a commentare insieme il nostro passo di oggi, è necessario svolgere una premessa: l’evangelo giovanneo (chiamato anche quarto vangelo per il fatto di essere il più recente tra i cosiddetti vangeli canonici che sono entrati a far parte del Secondo Testamento) è un testo estremamente complesso in cui imparare ad orientarsi, poiché si tratta di uno scritto che fa ricorso ad un linguaggio ricco di simboli che è necessario imparare a riconoscere e a decodificare.

All’evangelo giovanneo è pertanto necessario accostarsi attraverso una serie di studi articolati ed approfonditi, che consentano di entrare progressivamente in confidenza con il ricco e complesso linguaggio utilizzato dal suo redattore. Oggi, naturalmente, non disponiamo del tempo necessario per compiere questo percorso: dovremo pertanto avventurarci all’interno di un breve brano dell’evangelo senza ancora disporre degli strumenti necessari ad effettuarne una lettura approfondita. Anche avventurarsi con audacia e consapevolezza dei propri limiti rappresenta, ad ogni modo, un percorso affascinante: inauguriamolo, dunque, incominciando dalla lettura del nostro brano, di cui offro qui di seguito la traduzione che ne ho svolta, cercando di mantenermi il più possibile fedele al testo nella sua forma originaria.


GIOVANNI 20:19-29

19 Giunta dunque la sera di quello stesso giorno, il primo della settimana, ed essendo chiuse le porte del luogo in cui i discepoli si trovavano per paura dei giudei, Gesù venne, si pose nel mezzo e dice loro: «Pace a voi» 20 E, dicendo questo, mostrò loro le mani ed il fianco. Si rallegrarono dunque i discepoli vedendo il Signore. 21 Disse dunque loro Gesù nuovamente: «Pace a voi. Come il Padre ha inviato me, anch’io mando voi». 22 E detto questo soffiò. E dice loro: «Ricevete lo Spirito Santo. 23 Coloro di cui abbiate condonato le mancanze, sono state condonate; coloro a cui le abbiate lasciate ferme, sono state lasciate ferme».

24 Ora, Tommaso, uno dei dodici, detto Didimo, non era con loro quando venne Gesù. 25 Gli dicevano pertanto gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!» Egli, però, disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco non crederò in alcun modo». 26 Trascorsi otto giorni, erano nuovamente dentro i suoi discepoli e Tommaso con loro. Viene Gesù mentre le porte erano chiuse, si pose nel mezzo e disse: «Pace a voi». 27 Poi dice a Tommaso: «Porta qui il tuo dito e vedi le mie mani e porta la tua mano e mettila nel mio fianco: e non essere diffidente ma fiducioso». 28 Rispose Tommaso e gli disse: «Signore mio e Dio mio!». 29 Gli dice Gesù: «Perché mi hai visto hai creduto? Felici coloro che, non avendo visto, hanno creduto»


2. Un primo incontro

Il nostro brano si suddivide in due scene, al contempo speculari e distinte. Nella prima di esse, veniamo informati del fatto che ci troviamo ancora «in quello stesso giorno», ovverosia nel giorno in cui Maria di Magdala, recandosi al sepolcro, torna presso i discepoli a recare l’annuncio che Gesù è stato ridestato, risollevato. Il testo ci dice anche che i discepoli versavano in uno stato di timore che li portava a restare chiusi nel loro luogo di riunione in Gerusalemme. A questo proposito, incominciando a familiarizzare con il linguaggio giovanneo, dobbiamo mettere in rilievo due aspetti.
  1. Il primo di essi riguarda il fatto che la descrizione fisica vuole in realtà essere espressione di uno stato d’animo: i discepoli sono rinchiusi in se stessi e, come dirà poco più avanti il nostro testo, hanno le porte sbarrate, anzitutto, alla speranza, che hanno lasciato fuori dai loro cuori afflitti e spaesati.
  2. Il secondo aspetto riguarda il significato, estremamente complesso e ambivalente, che il termine giudei riveste nel quarto vangelo: onde evitare, a tale proposito, fraintendimenti pericolosi ed inopportuni, dobbiamo effettuare una breve digressione.


«I GIUDEI» NELL’EVANGELO GIOVANNEO

Vi accadrà spesso, sfogliando le pagine del quarto vangelo, di imbattervi nell’espressione «i giudei» utilizzata dall’evangelista: sebbene essa non abbia sempre una valenza dispregiativa, sono diverse le occorrenze in cui questo termine viene utilizzato in maniera negativa o, quantomeno, polemica. Sebbene non sia questa la sede in cui sia possibile approfondire questa complessa questione, basti per ora accennare al fatto che quello giovanneo è, con ogni probabilità, uno scritto che si sviluppa in seno ad una comunità ebraica che, da un lato, si trova in conflitto con l’interpretazione delle Scritture propria della tradizione sacerdotale ed in opposizione con la lettura farisaica delle stesse e, dall’altro, è composta presumibilmente da donne e uomini che provengono dalla tradizione samaritana, che dal giudaismo tradizionale è stata sempre screditata. Cercheremo di approfondire questa intricata questione nel corso di studi futuri più specifici.


Nel trapelare di questo timore quasi palpabile, Gesù varca le soglie chiuse dei cuori dei discepoli invocando su di loro la pace: un sentimento, per l’appunto, che non alberga più negli animi ogniqualvolta essi siano invasi dallo sconcerto e dallo smarrimento. Nell’augurare ai suoi questa pace perduta, Gesù occupa la posizione che dovrebbe occupare nei cuori perché essi non siano in preda allo sconforto: dice infatti il nostro testo che Gesù pronuncia queste parole ponendosi in mezzo ai suoi; ovverosia, al centro dei loro pensieri e delle loro preoccupazioni, ma anche al centro di quella comunità che nel timore non è possibile edificare.

Dopodiché, come gesto teso a facilitare un riconoscimento pieno ed indubitabile, il risorto si mostra come il crocifisso: non si tratta di un’apparizione illusoria e fugace; colui che Dio ha risollevato è quello stesso che aveva patito la morte di croce. In Giovanni, questa coincidenza tra il crocifisso ed il resuscitato, sintetizzata nell’espressione «innalzato» riferita alla croce ma contenente al contempo una chiara allusione alla resurrezione, è sottolineata a più riprese. Persuasi da questo mostrare i segni della morte di croce, i discepoli che presenziano alla scena operano il riconoscimento sperato e, come conseguenza immediata e significativa, si rallegrano dinanzi a ciò che i loro occhi constatano. La loro gioia è conseguenza diretta di ciò che essi vedono e verificano.

Dopo questo momento di giubilo, Gesù torna significativamente ad augurare ai suoi la pace: segno inequivocabile del fatto che la gioia, come stato emotivo, rappresenta un momento estremamente fuggevole e vulnerabile, che può presto volgere in tristezza. La pace, al contrario, è uno stato che richiede equilibrio e continuità: ma, come ricorda Gesù attraverso questo augurio rinnovato, si tratta di una condizione che è necessario ricreare costantemente entro il perimetro perennemente inquieto dei nostri cuori.

Immediatamente dopo questo auspicio reiterato, Gesù rende esplicito lo scopo dell’essere discepoli: l’invio, che impedisce ad ogni comunità di comprendersi come il centro e la invita, invece, a dirigere verso l’esterno i propri passi ed il proprio annuncio di speranza. Centro della comunità sono i sentieri lungo i quali essa è chiamata ad andare incontro alle donne ed agli uomini per proclamare loro che l’ultima parola di Dio sulle nostre esistenze è una parola di vita e non di morte.
Una volta rivolto questo invito alle discepole e ai discepoli, Gesù soffia su di loro: gesto simbolico che allude alla presenza dello Spirito nei cuori di tutti e di ciascuna e nel cuore stesso della comunità. Al gesto, una volta ancora, si accompagnano le parole: questa volta sono riferite alle mancanze, che le discepole ed i discepoli hanno il dono ed il compito di fare in modo che non pesino sulle vite delle donne e degli uomini cui sono chiamati ad andare incontro, liberandole dal rimanere inchiodate a quella colpa che incatena e paralizza: i verbi usti, infatti, sono relativi al rimettere in libertà o, viceversa, al lasciare legati.


  1. L’assenza di Tommaso, la nostra assenza

Il brano successivo incomincia informandoci del fatto che Tommaso, uno dei dodici, era assente nel momento in cui Gesù era tornato in mezzo ai suoi. Ora, anche a questo proposito, è necessaria una breve digressione, prima di procedere nell’analisi e nella meditazione del nostro racconto.


«I DODICI» NELL’EVANGELO GIOVANNEO

I dodici, chiamati anche apostoli (dal verbo greco apostello, che significa inviare), sono presentati in modo critico e talvolta persino polemico nel quarto vangelo: ciò, con ogni probabilità, è dovuto al fatto che la comunità giovannea si sviluppò come comunità dissidente rispetto all’orientamento prevalente del cristianesimo primitivo, non riconoscendo l’autorità dei dodici. Il passo che ora ci apprestiamo ad approfondire ci fornirà, sia pure indirettamente, qualche indizio al riguardo. L’evangelo giovanneo, a motivo di tale dissidenza nei riguardi della linea prevalente in seno al cristianesimo delle origini, incontrerà molte difficoltà nell’entrare a far parte del canone della chiesa primitiva: sarà per questo che, dopo una prima conclusione (Gv 20:30-31, che segue immediatamente l’episodio di Tommaso), la comunità giovannea redigerà il capitolo 21, il cui scopo precipuo sarà proprio quello di riabilitare la figura di Pietro, rappresentante dei dodici, riconoscendone la centralità e l’autorità. Nell’arco dei primi venti capitoli dell’evangelo giovanneo, significativamente, il termine apostolo comparirà una sola volta, nell’episodio della lavanda dei piedi (Gv 13), e sarà menzionato allo scopo di chiarire che «l’inviato (ovvero proprio l’apostolo) non è più grande di colui che lo ha inviato» (Gv 13:16). Per il resto, il quarto vangelo ricorrerà sempre al termine mathetés (discepoli/e) per descrivere coloro che accompagnano Gesù nella sua vita e nella sua predicazione itinerante.


Tommaso, dunque, definito dal testo come «uno dei dodici», diviene nel nostro passo figura della incomprensione e della necessità di una verifica che corrobori una fede altrimenti non degna di credito. Lungi dal condannare l’apostolo per questo atteggiamento, dobbiamo piuttosto riconoscerlo quale fratello nel dubbio e nella necessità di comprendere secondo criteri di attendibilità concreti, che fanno appello alla constatazione empirica. Tommaso vuole verificare che colui che i suoi compagni e le sue compagne hanno visto fosse effettivamente il maestro morto sulla croce, strumento di morte che ha lasciato sull’amato segni indelebili che, ora, il seguace vuole vedere e toccare, al fine di fugare ogni (legittimo) dubbio sull’identità del risorto e sulla veridicità della resurrezione, circa la quale le incertezze e le riserve assalgono ancora oggi anche noi.

Otto giorni dopo, Gesù attraversa nuovamente lo spazio chiuso del luogo di riunione dei discepoli e dei loro cuori: evidentemente, il dubbio instillato da Tommaso ha sortito il suo effetto e contagiato quanti avevano vissuto l’esperienza dell’incontro con Gesù. Ciò a dimostrazione del fatto che il dubbio che la necessità dell’evidenza è capace di insinuare nelle menti e nei cuori ha una forza ed una capacità di persuasione che sovente si rivelano maggiori di quella di una fede che pare essere costretta a convivere con quella stessa incertezza a cui vorrebbe fornire una risposta.

L’auspicio di Gesù è nuovamente il medesimo e ha di mira quella pace che egli sente chiaramente non albergare ancora negli animi incerti dei discepoli. Tommaso, rappresentante dei dodici, viene invitato da Gesù a fugare i propri dubbi effettuando la verifica che intendeva svolgere. Dopodiché, viene esortato ad essere fiducioso e non diffidente. Questo, nuovamente, rappresenta un appello rivolto a tutti i discepoli e le discepole: dunque, anche a noi. Didimo, infatti, soprannome di Tommaso secondo quanto ci riferisce il nostro testo al v. 24, è termine che in lingua greca significa gemello: e Tommaso, difatti, è gemello di tutte e tutti noi a motivo della condizione che esprime e che è quella stessa che noi, ancora oggi, viviamo; la condizione di quante e quanti, non avendo potuto corroborare con la cogenza dell’esperienza diretta l’evento della resurrezione, sono portai a metterla in dubbio e, il più delle volte, a diffidarne.

Segue a questo invito rivolto e rivoltoci da Gesù una confessione di fede pronunciata da Tommaso, che rappresenta un unicum nei vangeli canonici: Gesù è difatti confessato come Signore (kyrios nell’originale greco) e Dio mio (theós nel testo originale). Si tratta della confessione di fede che significativamente e volutamente chiude il quarto vangelo, racchiudendone anche il senso sotto il profilo catechetico: a questa confessione deve difatti pervenire il discepolo negli scopi che il redattore dell’evangelo si è prefissati quando ha deciso di scriverlo, dirigendolo alla sua comunità. Tutta la successiva elaborazione della dottrina cristologica, sviluppatasi nell’arco dei primi «concilî ecumenici», prenderà le mosse da qui e condurrà alla definizione del dogma trinitario, escludendo dalla cristianità quanti confessavano Gesù come «messia e figlio di Dio», ma non come Dio.

Le parole finali di Gesù mettono in questione l’ipotesi secondo cui chi abbia sperimentato visivamente l’evento della resurrezione (in primis, naturalmente, gli apostoli, che su questo presunto beneficio fondano la loro rivendicazione di autorità) goda di una condizione, per così dire, «privilegiata» nell’ambito della fede. Rivolgendosi a Tommaso come rappresentante del gruppo dei dodici, Gesù afferma che l’autentico privilegio consiste nel non aver presenziato all’evento della resurrezione e, ciononostante, nel decidere di conferirgli realtà e credibilità. La fede/fiducia autentica riposa sull’impossibilità della verifica empirica e non sul suo «nulla osta»: fede è affidamento che non si appoggia se non sulla fragile bellezza della testimonianza, che non offre garanzie, ma invita a percorrere gli imprevedibili sentieri lungo i quali Dio ci viene incontro come la fonte della vita che, con la sua vulnerabilità, si rivela sorprendentemente capace di prevalere sulla presunta evidenza della morte.

Ad ogni modo, fede e dubbio convivono come gemelli nel nostro gemello Tommaso: non si tratta di mettere la prima (illusoriamente) al riparo dal secondo, che non costituisce una minaccia ma un incentivo nella direzione di un’indagine più profonda, che ricerca le motivazioni e non appena i motivi per cui credere. Lo stesso Gesù, nella sua ultima raccomandazione rivolta, al contempo, a Tommaso e a tutti e tutte noi, chiede di osare la comprensione (altro significato del termine greco pistis, che spesso traduciamo con «fede»): per essere credente e non credulo è necessario provare a comprendere. E il dubbio, in questo, è gemello della fede e non suo nemico.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE (Consultabile in lingua italiana)
  • BROWN, R.E. Giovanni. Commento al vangelo spirituale, Cittadella, Assisi, 1979
  • CULLMANN, O. Origine e ambiente dell'evangelo secondo Giovanni, Marietti, Casale Monferrato, 1976
  • DODD, C.H. La tradizione storica nel quarto vangelo, Paideia, Brescia, 1983
  • LEON-DUFOUR, X. Lettura dell'evangelo secondo Giovanni, 4 voll., San Paolo, Cinisello Balsamo, 1998
  • MANNUCCI, V. Giovanni, il vangelo narrante, Dehoniane, Bologna, 1993
  • SCHNACKENBURG, R. Il vangelo di Giovanni, 4 voll., Paideia, Brescia, 1973-1987
  • WENGST, K. Il vangelo di Giovanni, Queriniana, Brescia, 2005


Pesah-Passaggio (Mc 16,1-8).doc


«Essendo trascorso il sabato, Maria di Magdala, Maria di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare ad ungerlo. E molto presto, il primo [giorno] dopo il sabato, si recano al sepolcro al levar del sole. E dicevano fra loro: “Chi rotolerà per noi la pietra dall’ingresso del sepolcro?”. E, levato in su lo sguardo, vedono che era stata rotolata via la pietra, sebbene fosse molto grande. Ed essendo entrate nel sepolcro, videro un giovane seduto sulla destra, rivestito di una veste bianca; e si spaventarono. Egli allo radice loro: “Non spaventatevi. Cercate Gesù il Nazareno, il crocifisso: è stato resuscitato, non è qui. Ecco il luogo dove l’hanno posto. Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che vi precede in Galilea: là lo vedrete, come ebbe a dirvi”. Ed essendo uscite fuggirono dal sepolcro, prese da tremore e stupore. E non dissero nulla a nessuno: infatti, avevano paura» (Marco 16:1-8)

Un giorno intero era trascorso da quando i loro occhi avevano accompagnato, in un silenzio colmo di sconforto, il corpo inerte di Gesù sino a vederlo scomparire nel buio del sepolcro. Ora tre delle donne che lo avevano amato e seguito, seguito perché amato, dopo aver atteso che il sabato scorresse lento e triste, mentre tutt’intorno Gerusalemme era in festa, ora queste donne, con il cuore ancora segnato da una ferita aperta e profonda, si mettono in cammino. Lo fanno quando l’ora è ancora incerta, come il loro spirito, quando la notte, invano, si ostina a contrastare l’alba, per poi lasciarsene vincere poco a poco e tornare a ritirarsi dietro l’orizzonte che prende a tingersi d’arancio. Recano in mano degli unguenti con i quali intendono accarezzare, un’ultima volta, il corpo dell’amato: è una sapienza tattile quella femminile, fatta di gesti che avvolgono.
È una sorta di congedo che si consuma sulla punta delle dita, che sfiorano e non afferrano, indugiano su un corpo senza poterlo in alcun modo riportare in vita. È il tempo dell’addio, della separazione che, racchiusa nei cuori, fuoriesce dalle mani che dispensano carezze per dire, in questo modo, l’amore che non si può dire ma soltanto riversare su chi, già, non può più sentirlo, né ricambiarlo. L’amore tradotto nel gesto disperato e tenero di mani che stringono senza riuscire a trattenere.

Nelle menti colme di questi pensieri, d’improvviso ne emerge uno, sempre tattile, che affiora sulle labbra di una delle tre: «Come rotoleremo la pietra dall’ingresso del sepolcro?». Ma più grosso ancora è il macigno che pesa sui loro cuori, bloccandone l’entrata: spazio alcuno può trovarvi la speranza, che viene lasciata sull’uscio; né può entrarvi la fede, perché il masso non lascia penetrare nemmeno la luce più flebile nell’oscuro perimetro della rassegnazione. Gesù, l’amato, è morto: l’hanno deriso, offeso, straziato. Questa è l’unica verità, corroborata dalla prova inconfutabile dell’esperienza: le donne l’hanno visto, sia pure da lontano. Era scomparso, appena un giorno addietro, ingoiato da quel buio che sempre accompagna la morte e i suoi luoghi e che, ora, fatica a diradarsi dai loro animi, là dove la luce dell’aurora non rischiara pensieri e sentimenti. Gesù è morto: non tornerà a sorgere il mattino sul loro sconforto, né verrà più l’alba a spargere la luce sul loro dolore muto.

Poi, d’improvviso, un movimento: per la prima volta gli occhi si staccano dal sentiero sul quale sembravano essere rimasti inchiodati, e guardano in su, verso l’ingresso del sepolcro.
Sepolcro che in greco è mnemeion, luogo della memoria, alla quale sempre la morte rimanda: ma che qui, invece, si fa sguardo rivolto al futuro, sin da questo momento in cui gli occhi si protendono, al contempo, in avanti e verso l’alto, a cogliere quell’inatteso in cui Dio e la vita abitano e si rivelano. Tra sorpresa e sconcerto, volti increduli scorgono la risposta alla domanda appena risuonata in quell’ora sospesa e in quei cuori esitanti: la pietra non occludeva più l’ingresso del sepolcro. E un raggio di luce, d’improvviso, sembra penetrare anche nello spazio sino a prima sigillato della loro disperazione; non sanno ancora che cosa sperare, non sanno nemmeno se sperare qualcosa: ma la tenebra non è più così fitta nel cuore, là dove, d’improvviso, avvertono come un fremito ed un accenno di tepore. Grande era la pietra, come il dolore che sentivano: e se la prima era stata scostata, chissà che anche il secondo non potesse essere lenito.

Si fanno coraggio ed entrano: ed ecco, scorgono un giovane, segno della vita che ritorna, che prevale. Se ne sta seduto in disparte, sembra quasi che le stesse attendendo: ha indosso una veste bianca, limpida come lo sguardo che gli attraversa il volto. Eppure - non sanno nemmeno bene come, né perché - sono prese da paura. Ma alla tenerezza dello sguardo si accompagna, nel giovane, la dolcezza della voce; il ragazzo coglie nei loro occhi e nel muto spazio del loro silenzio il timore di quelle donne e le rassicura. Venute per accarezzare un corpo, si ritrovano accarezzate nell’anima da chi dice loro, in un sussurro: «Non spaventatevi». E come la brezza del mattino scaccia le nuvole lasciando limpido l’orizzonte, così quelle parole, per un istante, allontanano la paura e si fanno spazio da sole sotto la pelle, facendo sussultare le donne.
   Parole che riecheggiano nell’oscurità di quella tomba e che, in qualche modo, la rischiarano. «Cercate Gesù il nazareno, il crocifisso»: due aggettivi scarni a definirlo, il luogo della nascita ed il destino a cui, consapevole, era andato incontro. E, insieme, una conferma data alle donne: «Non avete sbagliato, non ricordano male i vostri occhi che l’hanno seguito da lontano, vedendolo entrare qui, portato da Giuseppe d’Arimatea: questo, proprio questo è il luogo in cui è stato messo il suo corpo». Eppure l’invito non è a fermarsi, a restare lì, inchiodate all’evento e al dolore; non è neppure quello di celebrare l’inatteso, di genuflettersi di fronte al miracolo. No: l’invito è a rimettersi in moto, come spesso chiede di fare il Dio biblico, ripercorrendo a ritroso la il cammino compiuto per recarsi sino a quello che avevano creduto essere un luogo di morte e che, invece, è luogo di scoperta, di meraviglia e di vita. Si tratta di ripartire, di recarsi nuovamente in quella Galilea da cui le donne e gli altri con loro avevano seguito Gesù pieni di speranza: per comprendere che quella stessa speranza non era naufragata; soltanto, non si era realizzata nei termini di quell’evidenza in cui, spesso, cerchiamo conforto e rassicurazione. Annuncia loro il giovane: «È stato resuscitato». Propriamente, rialzato, risollevato: questa volta non da mani d’uomo, che l’avevano accompagnato, privo di vita, sin dentro il sepolcro; ma dal soffio leggero e vigoroso di Dio, che lo ha preso tra le Sue di braccia, restituendogli quella vita che a Dio soltanto appartiene poiché da Lui, da Lei, solamente, proviene. «È stato risollevato»: usa il passivo, il giovane; a testimonianza del fatto che quel Dio che era sembrato assente, tanto da provocare il grido lacerante di Gesù sulla croce, era in verità il Dio silenzioso e presente, il Dio che rialza l’amato, dopo essere stato accanto a lui, muto, sulla croce.
Sceso insieme all’amato nell’abisso del dolore e della sua mancanza di senso, ora Dio ne emerge portandolo tra le braccia, dicendo a chi ha il cuore abbattuto che la morte non possiede l’ultima parola sulla vita, perché la vita è custodita nel seno di Dio come in un solco da cui può tornare a fiorire, come la primavera che con la Pasqua ha inizio.

Eppure le donne fuggono con l’inverno ancora nel cuore, invase da un misto di timore e stupore; ma il germoglio, in loro, attende soltanto il disgelo e non tarderà a sbocciare. La paura alberga per un tempo nel cuore delle donne, ma non le vince: fuggono dal luogo ma non dall’esperienza dell’inatteso che le ha investite, tramutando la morte in speranza assurda ma credibile ed il dolore in palpito d’incompresa gioia. Ritroveranno il coraggio le donne e saranno testimoni della resurrezione: come l’evento che annunceranno, anch’esse saranno ritenute poco degne di credito per i loro contemporanei e persino agli occhi degli stessi discepoli. Dio, invece, affiderà loro la follia di un messaggio di speranza che non si colloca al di là della morte ma nel suo stesso cuore, dentro cui noi e Dio ci caliamo insieme per poi, insieme, riemergerne. Di questa Pasqua, di questo «passaggio», narra la vicenda di Gesù resuscitato: un varco che Dio ha potuto scavare nei nostri cuori grazie a voci e vite di donne che, attraversato il timore, nell’assurdo hanno saputo riporre speranza e fiducia. Donne capaci di riconoscere in sé la paura e, soltanto così, anche di affrontarla e di superarla: donne che al timore come alla croce non restano inchiodate, ma che si mettono, sia pure dopo qualche indugio, sui folli sentieri di Dio: quel Dio che, così come loro, vince la morte generando la vita. (Pastore Alessandro Esposito - Domenica 16 Aprile 2017 - Pasqua di Resurrezione)