24/04/2017

Fede e (è) dubbio.doc


DUBBIO E FEDE: STORIA DI DUE GEMELLI


1. Giovanni: un vangelo da imparare a leggere

Prima di accingerci a commentare insieme il nostro passo di oggi, è necessario svolgere una premessa: l’evangelo giovanneo (chiamato anche quarto vangelo per il fatto di essere il più recente tra i cosiddetti vangeli canonici che sono entrati a far parte del Secondo Testamento) è un testo estremamente complesso in cui imparare ad orientarsi, poiché si tratta di uno scritto che fa ricorso ad un linguaggio ricco di simboli che è necessario imparare a riconoscere e a decodificare.

All’evangelo giovanneo è pertanto necessario accostarsi attraverso una serie di studi articolati ed approfonditi, che consentano di entrare progressivamente in confidenza con il ricco e complesso linguaggio utilizzato dal suo redattore. Oggi, naturalmente, non disponiamo del tempo necessario per compiere questo percorso: dovremo pertanto avventurarci all’interno di un breve brano dell’evangelo senza ancora disporre degli strumenti necessari ad effettuarne una lettura approfondita. Anche avventurarsi con audacia e consapevolezza dei propri limiti rappresenta, ad ogni modo, un percorso affascinante: inauguriamolo, dunque, incominciando dalla lettura del nostro brano, di cui offro qui di seguito la traduzione che ne ho svolta, cercando di mantenermi il più possibile fedele al testo nella sua forma originaria.


GIOVANNI 20:19-29

19 Giunta dunque la sera di quello stesso giorno, il primo della settimana, ed essendo chiuse le porte del luogo in cui i discepoli si trovavano per paura dei giudei, Gesù venne, si pose nel mezzo e dice loro: «Pace a voi» 20 E, dicendo questo, mostrò loro le mani ed il fianco. Si rallegrarono dunque i discepoli vedendo il Signore. 21 Disse dunque loro Gesù nuovamente: «Pace a voi. Come il Padre ha inviato me, anch’io mando voi». 22 E detto questo soffiò. E dice loro: «Ricevete lo Spirito Santo. 23 Coloro di cui abbiate condonato le mancanze, sono state condonate; coloro a cui le abbiate lasciate ferme, sono state lasciate ferme».

24 Ora, Tommaso, uno dei dodici, detto Didimo, non era con loro quando venne Gesù. 25 Gli dicevano pertanto gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!» Egli, però, disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco non crederò in alcun modo». 26 Trascorsi otto giorni, erano nuovamente dentro i suoi discepoli e Tommaso con loro. Viene Gesù mentre le porte erano chiuse, si pose nel mezzo e disse: «Pace a voi». 27 Poi dice a Tommaso: «Porta qui il tuo dito e vedi le mie mani e porta la tua mano e mettila nel mio fianco: e non essere diffidente ma fiducioso». 28 Rispose Tommaso e gli disse: «Signore mio e Dio mio!». 29 Gli dice Gesù: «Perché mi hai visto hai creduto? Felici coloro che, non avendo visto, hanno creduto»


2. Un primo incontro

Il nostro brano si suddivide in due scene, al contempo speculari e distinte. Nella prima di esse, veniamo informati del fatto che ci troviamo ancora «in quello stesso giorno», ovverosia nel giorno in cui Maria di Magdala, recandosi al sepolcro, torna presso i discepoli a recare l’annuncio che Gesù è stato ridestato, risollevato. Il testo ci dice anche che i discepoli versavano in uno stato di timore che li portava a restare chiusi nel loro luogo di riunione in Gerusalemme. A questo proposito, incominciando a familiarizzare con il linguaggio giovanneo, dobbiamo mettere in rilievo due aspetti.
  1. Il primo di essi riguarda il fatto che la descrizione fisica vuole in realtà essere espressione di uno stato d’animo: i discepoli sono rinchiusi in se stessi e, come dirà poco più avanti il nostro testo, hanno le porte sbarrate, anzitutto, alla speranza, che hanno lasciato fuori dai loro cuori afflitti e spaesati.
  2. Il secondo aspetto riguarda il significato, estremamente complesso e ambivalente, che il termine giudei riveste nel quarto vangelo: onde evitare, a tale proposito, fraintendimenti pericolosi ed inopportuni, dobbiamo effettuare una breve digressione.


«I GIUDEI» NELL’EVANGELO GIOVANNEO

Vi accadrà spesso, sfogliando le pagine del quarto vangelo, di imbattervi nell’espressione «i giudei» utilizzata dall’evangelista: sebbene essa non abbia sempre una valenza dispregiativa, sono diverse le occorrenze in cui questo termine viene utilizzato in maniera negativa o, quantomeno, polemica. Sebbene non sia questa la sede in cui sia possibile approfondire questa complessa questione, basti per ora accennare al fatto che quello giovanneo è, con ogni probabilità, uno scritto che si sviluppa in seno ad una comunità ebraica che, da un lato, si trova in conflitto con l’interpretazione delle Scritture propria della tradizione sacerdotale ed in opposizione con la lettura farisaica delle stesse e, dall’altro, è composta presumibilmente da donne e uomini che provengono dalla tradizione samaritana, che dal giudaismo tradizionale è stata sempre screditata. Cercheremo di approfondire questa intricata questione nel corso di studi futuri più specifici.


Nel trapelare di questo timore quasi palpabile, Gesù varca le soglie chiuse dei cuori dei discepoli invocando su di loro la pace: un sentimento, per l’appunto, che non alberga più negli animi ogniqualvolta essi siano invasi dallo sconcerto e dallo smarrimento. Nell’augurare ai suoi questa pace perduta, Gesù occupa la posizione che dovrebbe occupare nei cuori perché essi non siano in preda allo sconforto: dice infatti il nostro testo che Gesù pronuncia queste parole ponendosi in mezzo ai suoi; ovverosia, al centro dei loro pensieri e delle loro preoccupazioni, ma anche al centro di quella comunità che nel timore non è possibile edificare.

Dopodiché, come gesto teso a facilitare un riconoscimento pieno ed indubitabile, il risorto si mostra come il crocifisso: non si tratta di un’apparizione illusoria e fugace; colui che Dio ha risollevato è quello stesso che aveva patito la morte di croce. In Giovanni, questa coincidenza tra il crocifisso ed il resuscitato, sintetizzata nell’espressione «innalzato» riferita alla croce ma contenente al contempo una chiara allusione alla resurrezione, è sottolineata a più riprese. Persuasi da questo mostrare i segni della morte di croce, i discepoli che presenziano alla scena operano il riconoscimento sperato e, come conseguenza immediata e significativa, si rallegrano dinanzi a ciò che i loro occhi constatano. La loro gioia è conseguenza diretta di ciò che essi vedono e verificano.

Dopo questo momento di giubilo, Gesù torna significativamente ad augurare ai suoi la pace: segno inequivocabile del fatto che la gioia, come stato emotivo, rappresenta un momento estremamente fuggevole e vulnerabile, che può presto volgere in tristezza. La pace, al contrario, è uno stato che richiede equilibrio e continuità: ma, come ricorda Gesù attraverso questo augurio rinnovato, si tratta di una condizione che è necessario ricreare costantemente entro il perimetro perennemente inquieto dei nostri cuori.

Immediatamente dopo questo auspicio reiterato, Gesù rende esplicito lo scopo dell’essere discepoli: l’invio, che impedisce ad ogni comunità di comprendersi come il centro e la invita, invece, a dirigere verso l’esterno i propri passi ed il proprio annuncio di speranza. Centro della comunità sono i sentieri lungo i quali essa è chiamata ad andare incontro alle donne ed agli uomini per proclamare loro che l’ultima parola di Dio sulle nostre esistenze è una parola di vita e non di morte.
Una volta rivolto questo invito alle discepole e ai discepoli, Gesù soffia su di loro: gesto simbolico che allude alla presenza dello Spirito nei cuori di tutti e di ciascuna e nel cuore stesso della comunità. Al gesto, una volta ancora, si accompagnano le parole: questa volta sono riferite alle mancanze, che le discepole ed i discepoli hanno il dono ed il compito di fare in modo che non pesino sulle vite delle donne e degli uomini cui sono chiamati ad andare incontro, liberandole dal rimanere inchiodate a quella colpa che incatena e paralizza: i verbi usti, infatti, sono relativi al rimettere in libertà o, viceversa, al lasciare legati.


  1. L’assenza di Tommaso, la nostra assenza

Il brano successivo incomincia informandoci del fatto che Tommaso, uno dei dodici, era assente nel momento in cui Gesù era tornato in mezzo ai suoi. Ora, anche a questo proposito, è necessaria una breve digressione, prima di procedere nell’analisi e nella meditazione del nostro racconto.


«I DODICI» NELL’EVANGELO GIOVANNEO

I dodici, chiamati anche apostoli (dal verbo greco apostello, che significa inviare), sono presentati in modo critico e talvolta persino polemico nel quarto vangelo: ciò, con ogni probabilità, è dovuto al fatto che la comunità giovannea si sviluppò come comunità dissidente rispetto all’orientamento prevalente del cristianesimo primitivo, non riconoscendo l’autorità dei dodici. Il passo che ora ci apprestiamo ad approfondire ci fornirà, sia pure indirettamente, qualche indizio al riguardo. L’evangelo giovanneo, a motivo di tale dissidenza nei riguardi della linea prevalente in seno al cristianesimo delle origini, incontrerà molte difficoltà nell’entrare a far parte del canone della chiesa primitiva: sarà per questo che, dopo una prima conclusione (Gv 20:30-31, che segue immediatamente l’episodio di Tommaso), la comunità giovannea redigerà il capitolo 21, il cui scopo precipuo sarà proprio quello di riabilitare la figura di Pietro, rappresentante dei dodici, riconoscendone la centralità e l’autorità. Nell’arco dei primi venti capitoli dell’evangelo giovanneo, significativamente, il termine apostolo comparirà una sola volta, nell’episodio della lavanda dei piedi (Gv 13), e sarà menzionato allo scopo di chiarire che «l’inviato (ovvero proprio l’apostolo) non è più grande di colui che lo ha inviato» (Gv 13:16). Per il resto, il quarto vangelo ricorrerà sempre al termine mathetés (discepoli/e) per descrivere coloro che accompagnano Gesù nella sua vita e nella sua predicazione itinerante.


Tommaso, dunque, definito dal testo come «uno dei dodici», diviene nel nostro passo figura della incomprensione e della necessità di una verifica che corrobori una fede altrimenti non degna di credito. Lungi dal condannare l’apostolo per questo atteggiamento, dobbiamo piuttosto riconoscerlo quale fratello nel dubbio e nella necessità di comprendere secondo criteri di attendibilità concreti, che fanno appello alla constatazione empirica. Tommaso vuole verificare che colui che i suoi compagni e le sue compagne hanno visto fosse effettivamente il maestro morto sulla croce, strumento di morte che ha lasciato sull’amato segni indelebili che, ora, il seguace vuole vedere e toccare, al fine di fugare ogni (legittimo) dubbio sull’identità del risorto e sulla veridicità della resurrezione, circa la quale le incertezze e le riserve assalgono ancora oggi anche noi.

Otto giorni dopo, Gesù attraversa nuovamente lo spazio chiuso del luogo di riunione dei discepoli e dei loro cuori: evidentemente, il dubbio instillato da Tommaso ha sortito il suo effetto e contagiato quanti avevano vissuto l’esperienza dell’incontro con Gesù. Ciò a dimostrazione del fatto che il dubbio che la necessità dell’evidenza è capace di insinuare nelle menti e nei cuori ha una forza ed una capacità di persuasione che sovente si rivelano maggiori di quella di una fede che pare essere costretta a convivere con quella stessa incertezza a cui vorrebbe fornire una risposta.

L’auspicio di Gesù è nuovamente il medesimo e ha di mira quella pace che egli sente chiaramente non albergare ancora negli animi incerti dei discepoli. Tommaso, rappresentante dei dodici, viene invitato da Gesù a fugare i propri dubbi effettuando la verifica che intendeva svolgere. Dopodiché, viene esortato ad essere fiducioso e non diffidente. Questo, nuovamente, rappresenta un appello rivolto a tutti i discepoli e le discepole: dunque, anche a noi. Didimo, infatti, soprannome di Tommaso secondo quanto ci riferisce il nostro testo al v. 24, è termine che in lingua greca significa gemello: e Tommaso, difatti, è gemello di tutte e tutti noi a motivo della condizione che esprime e che è quella stessa che noi, ancora oggi, viviamo; la condizione di quante e quanti, non avendo potuto corroborare con la cogenza dell’esperienza diretta l’evento della resurrezione, sono portai a metterla in dubbio e, il più delle volte, a diffidarne.

Segue a questo invito rivolto e rivoltoci da Gesù una confessione di fede pronunciata da Tommaso, che rappresenta un unicum nei vangeli canonici: Gesù è difatti confessato come Signore (kyrios nell’originale greco) e Dio mio (theós nel testo originale). Si tratta della confessione di fede che significativamente e volutamente chiude il quarto vangelo, racchiudendone anche il senso sotto il profilo catechetico: a questa confessione deve difatti pervenire il discepolo negli scopi che il redattore dell’evangelo si è prefissati quando ha deciso di scriverlo, dirigendolo alla sua comunità. Tutta la successiva elaborazione della dottrina cristologica, sviluppatasi nell’arco dei primi «concilî ecumenici», prenderà le mosse da qui e condurrà alla definizione del dogma trinitario, escludendo dalla cristianità quanti confessavano Gesù come «messia e figlio di Dio», ma non come Dio.

Le parole finali di Gesù mettono in questione l’ipotesi secondo cui chi abbia sperimentato visivamente l’evento della resurrezione (in primis, naturalmente, gli apostoli, che su questo presunto beneficio fondano la loro rivendicazione di autorità) goda di una condizione, per così dire, «privilegiata» nell’ambito della fede. Rivolgendosi a Tommaso come rappresentante del gruppo dei dodici, Gesù afferma che l’autentico privilegio consiste nel non aver presenziato all’evento della resurrezione e, ciononostante, nel decidere di conferirgli realtà e credibilità. La fede/fiducia autentica riposa sull’impossibilità della verifica empirica e non sul suo «nulla osta»: fede è affidamento che non si appoggia se non sulla fragile bellezza della testimonianza, che non offre garanzie, ma invita a percorrere gli imprevedibili sentieri lungo i quali Dio ci viene incontro come la fonte della vita che, con la sua vulnerabilità, si rivela sorprendentemente capace di prevalere sulla presunta evidenza della morte.

Ad ogni modo, fede e dubbio convivono come gemelli nel nostro gemello Tommaso: non si tratta di mettere la prima (illusoriamente) al riparo dal secondo, che non costituisce una minaccia ma un incentivo nella direzione di un’indagine più profonda, che ricerca le motivazioni e non appena i motivi per cui credere. Lo stesso Gesù, nella sua ultima raccomandazione rivolta, al contempo, a Tommaso e a tutti e tutte noi, chiede di osare la comprensione (altro significato del termine greco pistis, che spesso traduciamo con «fede»): per essere credente e non credulo è necessario provare a comprendere. E il dubbio, in questo, è gemello della fede e non suo nemico.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE (Consultabile in lingua italiana)
  • BROWN, R.E. Giovanni. Commento al vangelo spirituale, Cittadella, Assisi, 1979
  • CULLMANN, O. Origine e ambiente dell'evangelo secondo Giovanni, Marietti, Casale Monferrato, 1976
  • DODD, C.H. La tradizione storica nel quarto vangelo, Paideia, Brescia, 1983
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