Culti

Omegna - Via F.lli Di Dio 64
Nel Tempio di Omegna, il Culto si tiene tutte le domeniche alle ore 9; Mercoledì 25 Dicembre, Natale, il Culto si terrà alle ore 9

Intra - C.so Mameli 19
Nel Tempio di Intra, il Culto si tiene tutte le domeniche alle ore 11; Mercoledì 25 Dicembre, Natale, il Culto si terrà alle ore 11

19/12/2009

Il messaggio cristiano di Natale

"E la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi"
(Giovanni 1:14a).

Oggi, il Natale è spesso vissuto con un certo senso di abitudine che allontana dall’attualità del suo messaggio.
Prendendo carne e venendo al mondo nella stalla di Betlemme, Dio si è avvicinato all'umanità.
Dio s’interessa di noi al punto di venire a raggiungerci perfino negli angoli più bui, più dolorosi della nostra esistenza.
Da quando Gesù è nato a Betlemme, Dio non ci ha più lasciati e, nemmeno la morte è riuscita a separarLo da noi.
Nella nostra società sempre più egoista, preferiamo i visitatori occasionali a quelli che si stabiliscono per sempre.
Da quando Gesù è nato a Betlemme, non c'è più cielo, lassù, dove Dio regna, e quaggiù la terra che gli esseri umani gestiscono come vogliono, ma il cielo è qui al centro della terra. Oggi, si preferisce che le due cose siano ben separate l’una dall’altra. Si cerca sempre di cacciare Dio dalla terra per confinarLo in cielo.
Da quando Gesù è nato a Betlemme, non è più questione di elevarci dalla terra verso il cielo, ma di stabilirci nel mondo, sì, anche nelle sue stalle dove Dio si lascia incontrare.
Lo Spirituale e il materiale non possono più essere separati poiché il Verbo si fece carne. L’uno feconda l’altro e l’uno incarna l’altro. Se così non è, tutti e due ne perdono la loro anima.
Così, il culto e il servizio (diaconia), l'impegno e la preghiera, la liturgia e le offerte sono intimamente connessi.
Oggi, purtroppo, la vita agitata e stressata che viviamo ci fa dimenticare il legame tra lo spirituale e il materiale. Preferiamo elevarci al cielo lasciando agli altri la cura della terra. Ma, il Natale ci ricorda che è sulla terra ch’Egli è venuto a prendere la sua dimora.
BUON NATALE!
Past. Jean-Félix Kamba Nzolo
***
Signore, insegnaci ad amare il cielo,
perché ci rimanga la terra.
Insegnaci a conservarli entrambi,
a mettere altrettanta forza nella nostra fede,
come nella nostra intelligenza,
ad impegnarci altrettanto nella preghiera,
come nella nostra azione.
Signore, permettici di vedere questa terra
nella tua prospettiva,
di riconoscere la fragilità della nostra vita
e di tutto quello che ci sembra importante.
Accordaci di apprezzare i gesti di amore
e di fraternità spesso nascosti.
Dacci la forza di denunciare le parole vuote
e le promesse menzognere e di essere solidali
con coloro che soffrono per l'ingiustizia.
Signore, apri i nostri occhi
affinché abbiano il tuo sguardo,
non solo per fotografare ciò che esiste,
ma per scoprire ciò che è possibile,
non solo per guardare,
ma per mettere in movimento,
non soltanto per seguire gli avvenimenti,
ma per vederli arrivare.
Signore insegnaci ad amare il cielo,
perché ci rimanga la terra,
ed insegnaci a guardarli insieme. Amen.
(Jo Ludwig)

11/12/2009

Tempo di Avvento

Le quatro settimane che precedenti il giorno di Natale corrispondono al tempo liturgico di Avvento. Avvento, dal latino adventus significa venuta o arrivo. I cristiani hanno usato questo termine classico per indicare la venuta di Gesù Cristo tra gli uomini. Comincia con la quarta domenica precedente il Natale e segna l'inizio dell'anno liturgico delle chiese cristiane storiche (protestantesimo, cattolicesimo, ortodossia, ecc...).
Testi biblici per la predicazione durante il Tempo di Avvento indicati dal lezionario "Un giorno una parola" :
I° domenica 29 novembre 2009: Romani 13: 8-14;
II° domenica 06 dicembre: Giacomo 5: 7-8;
III° domenica 13 dicembre: I Corinzi 4:1-5;
IV° domenica 20 dicembre: Filippesi 4,4-7.

17/11/2009

Crocifisso: quello che gli evangelici non sono riusciti a dire

di Paolo Naso, valdese e docente di Scienza politica

Un coro pressoché unanime di scandalo e sconcerto ha accolto la sentenza della Corte europea per i diritti umani di Strasburgo secondo cui l'esposizione del crocifisso nelle aule della scuola pubblica costituisce “una violazione della libertà dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni e della libertà di religione degli alunni”.
Che la sentenza avrebbe fatto discutere era nell'ordine delle cose: quello che stupisce e preoccupa, però, sono stati i toni esasperati e radicalizzati che hanno impedito a chi invece ha apprezzato la sentenza di spiegare le ragioni e il senso della sua opinione. Con un linguaggio molto vigoroso e diretto le gerarchie cattoliche hanno invocato una “reazione generalizzata” (cardinale Bertone) ad una sentenza “surreale” figlia della cultura “laicista” dilagante in Europa (cardinale Bagnasco); sino all'appello diretto ai “credenti” a “non dormire e ad alzare la voce” lanciato da un personalità solitamente moderata come il cardinale Kasper.
In questa occasione, insomma, le gerarchie cattoliche hanno rinunciato ai loro toni classicamente felpati per adottare il linguaggio popolare ed estremo di certa cultura politica che in generale criticano.
Quanto ai politici il quadro è ancora più preoccupante perché sarebbe a loro – a tutti loro, sia di quelli schierati a destra che di quelli schierati a sinistra – che corre l'obbligo di rispettare le istituzioni nazionali ed europee e di promuovere una coscienza civica attenta al principio di laicità ed ai diritti inderogabili delle minoranze. Attesa delusa: con qualche prevedibile eccezione dal PD del neoeletto Bersani alla Nuova Destra dell'ex governatore del Lazio Storace è stato un unico peana celebrativo del crocifisso come simbolo dell'unità nazionale, delle italiche tradizioni e quindi – paradossalmente - del valore della mitezza e del dono di sé.
Prudenti anche gli ebrei (“Da un punto di vista teorico ritengo che gli edifici pubblici come casa di tutti non debbano avere simboli di una fede specifica; tuttavia mi rendo conto che l'applicazione rigorosa di questo principio in Italia potrebbe offendere sensibilità e storie radicate” ha affermato il rabbino capo di Roma, Di Segni) e molto perplessi i musulmani preoccupati di trovarsi impelagati in una “guerra al crocefisso”. Dal Parlamento europeo, in evidente imbarazzo, giunge oggi la proposta di aggiungere altri simboli al crocifisso: suggestione creativa ma più tesa a legittimare il crocifisso senza troppi clamori che ad aggiungere la mezzaluna o menorah sulle pareti scolastiche.
Gli evangelici si sono così ritrovati pressoché soli ad apprezzare la sentenza, non di rado accomunati e intenzionalmente confusi con gli atei, i razionalisti, i relativisti, insomma con quanti attenterebbero all'identità cristiana dell'Italia e dell'Europa.
Personalmente non vedo nulla di male che talvolta, e su alcuni temi, alcuni credenti ed alcuni atei si ritrovino a dire la stessa cosa: fondamentali principi costituzionali e importanti battaglie per i diritti civili si sono affermati proprio grazie all'incontro tra culture diverse. Ma questa volta gli evangelici – più uniti e univoci che su altri temi – hanno cercato di dire qualcosa di diverso proprio a partire dalla loro fede. Sostanzialmente hanno provato ad affermare tre idee.
La prima: la croce di Cristo è un simbolo fondamentale della fede cristiana e non è una bandiera dell'identità occidentale, della democrazia o dell'Unione europea. Da cristiani, in altre parole, hanno affermato che il posto naturale della croce è nelle nostre coscienze e non sulle pareti delle aule; ridurla a simbolo di una religione civile, oltre che paradossale, annulla e ridicolizza il suo significato teologico.

La seconda: come cittadini hanno ribadito che gli spazi pubblici siano appunto “pubblici”, che cioè debbano esprimere l'idea di una comunità civile che non discrimina e non esclude sulla base dell'appartenenza etnica, del genere o della religione.

La terza: come cittadini e come credenti hanno rivendicato il valore del pluralismo di diverse tradizioni culturali e spirituali che hanno tutte il diritto di esprimersi nello spazio pubblico. Non sono cristiani delle catacombe e anche loro vogliono, invece, “gridare dai tetti” la Verità di cui sono testimoni. Ma proprio perché amano la libertà sanno di dover rispettare e tutelare anche quella degli altri. Non è relativismo, è coscienza del valore e della ricchezza del pluralismo proprio di ogni democrazia.
Questo è quello che hanno cercato di dire. E che evidentemente non sono riusciti a comunicare.
(NEV-notizie evangeliche 45/09)

10/11/2009

Sentenza della Corte europea sull'espozione del crocifisso nelle scuole italiane

EUROPEAN COURT OF HUMAN RIGHTS

COUR EUROPÉENNE DES DROITS DE L'HOMME

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

SECONDA SEZIONE

CAUSA LAUTSI contro ITALIA

(Richiesta n° 30814/06)

SENTENZA
STRASBURGO, 3 novembre 2009

Questa sentenza diverrà definitiva alle condizioni definite all'articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire ritocchi di forma.

Nella causa Lautsi contro Italia,
la Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione) si riunisce in camera di consiglio composta da: Françoise Tulkens, presidente, Ireneu Cabral Barreto, Vladimiro Zagrebelsky, Danutė Jočienė,Dragoljub Popović,András Sajó,Işıl Karakaş, giudici, e di Sally Dollé, cancelliera di sezione,dopo averne deliberato in camera di consiglio il 13 ottobre 2009, rende nota questa sentenza, adottata a questa data:
PROCEDURA

1. All’origine del procedimento c’è una richiesta (n° 30814/06) diretta contro la Repubblica italiana da una cittadina di questo Stato, la Sig.ra Soile Lautsi (“la ricorrente”) che ha investito la Corte il 27 luglio 2006 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (“la Convenzione”). Agisce nel suo nome e in nome dei suoi due bambini, Dataico e Sami Albertin.2. La ricorrente è rappresentata da N. Paoletti, avvocato a Roma. Il governo italiano (“il Governo”) è rappresentato da E. Spatafora e dal suo assistente N. Lettieri.3. La ricorrente adduceva che l’esposizione del crocefisso nell’aula della scuola pubblica frequentata dai suoi bambini era un’ingerenza incompatibile con la libertà di pensiero e di religione e con il diritto a un’istruzione e a un insegnamento conformi alle sue convinzioni religiose e filosofiche.4. Il 1° luglio 2008 la Corte ha deciso di comunicare la richiesta al Governo. Facendo valere le disposizioni dell’articolo 29 § 3 della Convenzione, ha deciso che sarebbero esaminati allo stesso tempo ammissibilità e fondamento del procedimento.5. Tanto la ricorrente quanto il Governo hanno depositato osservazioni scritte sul procedimento (articolo 59 § 1 del regolamento).

IN FATTO

I. LE CIRCOSTANZE

6. La ricorrente risiede a Abano Terme e ha due bambini, Dataico e Sami Albertin. Questi ultimi, rispettivamente all’epoca di undici e tredici anni, frequentavano nel 2001-2002 la scuola pubblica “Istituto comprensivo Statale Vittorino da Feltre”, ad Abano Terme.7. Le classi avevano tutte un crocifisso, ciò che la ricorrente riteneva contrario al principio di laicità secondo il quale desiderava istruire i suoi bambini. Sollevava questa questione nel corso di una riunione organizzata 22 aprile 2002 a scuola e faceva presente il principio (stabilito dalla Corte di cassazione italiana, sentenza n. 4273 del 1° marzo 2000) per cui la presenza di un crocifisso nelle classi quando queste diventano urne per le elezioni politiche era stato già giudicato contrario al principio di laicità dello Stato.8. Il 27 maggio 2002 la direzione della scuola decideva tuttavia di lasciare i crocifissi nelle classi.9. Il 23 luglio 2002 la ricorrente impugnava questa decisione davanti al Tribunale amministrativo della regione Veneto. Basandosi sugli articoli 3 e 19 della Costituzione italiana e sull’articolo 9 della Convenzione, ella adduceva la violazione del principio di laicità. Inoltre, denunciava una violazione del principio d’imparzialità dell’amministrazione pubblica (articolo 97 della Costituzione). Così chiedeva al tribunale di investire la Corte Costituzionale della questione di costituzionalità.10. Il 3 ottobre 2007 il ministero della Pubblica istruzione, che ha emanato la direttiva n. 2666 che raccomanda ai direttori delle scuole di esporre il crocifisso, si costituiva quindi parte nella procedura sostenendo che la decisione in questione si basava sull’articolo 118 del regio decreto n. 965 del 30 aprile 1924 e sull’articolo 119 del regio decreto n. 1297 del 26 aprile 1928 (disposizioni precedenti alla Costituzione italiana e agli accordi tra l’Italia e Santa Sede).11. Il 14 gennaio 2004 il tribunale amministrativo del Veneto riteneva, tenuto conto del principio di laicità (articoli 2,3,7,8,9,19 e 20 della Costituzione) che la questione di costituzionalità non era palesemente infondata e di conseguenza investiva della questione la Corte costituzionale. Inoltre vista la libertà d’insegnamento e visto l’obbligo scolastico, la presenza del crocifisso era imposta agli allievi, ai genitori degli allievi e ai professori e favorivano la religione cristiana a detrimento di altre religioni. La ricorrente si costituiva quindi parte nella procedura dinanzi alla Corte costituzionale. Il governo sosteneva che la presenza del crocifisso nelle classi era «un fatto naturale» in quanto il crocifisso non era soltanto un simbolo religioso ma anche «il simbolo della Chiesa Cattolica», che è la sola Chiesa nominata nella Costituzione (articolo 7). Occorreva dunque dedurne che il crocifisso era indirettamente un simbolo dello Stato italiano.12. Con un’ordinanza del 15 dicembre 2004 n. 389, la Corte Costituzionale si definiva incompetente, dato che le disposizioni nella controversia in essere non erano leggi dello Stato, ma regolamenti che non avevano forza di legge (vedi paragrafo 26).13. La procedura dinanzi al tribunale amministrativo quindi riprendeva. Con una sentenza del 17 marzo 2005 n° 1110, il tribunale amministrativo respinse il ricorso della ricorrente. Riteneva che il crocifisso fosse allo stesso tempo il simbolo della storia e della cultura italiane, e quindi dell’identità italiana, e il simbolo dei principi di uguaglianza, di libertà e di tolleranza come pure della laicità dello Stato.14. La ricorrente faceva ricorso dinanzi al Consiglio di Stato.15. Con una sentenza del 13 febbraio 2006, il Consiglio di Stato respingeva il ricorso, poiché riteneva che il crocifisso era diventato uno dei valori laici della Costituzione italiana e rappresentava i valori della vita civile.

II. IL DIRITTO E LA PRATICA NAZIONALE PERTINENTE

16. L’obbligo di esporre il crocifisso nelle aule risale a un’epoca precedente all’unità d’Italia. Infatti, l’articolo 140 del regio decreto n. 4336 del 15 settembre 1860 del Regno di Piemonte e Sardegna stabiliva che «ogni scuola dovrà senza difetto essere fornita (…) di un crocifisso».
17. Nel 1861, anno di nascita dello Stato italiano, lo Statuto del Regno di Piemonte-Sardegna diventava lo Statuto italiano. Enunciava che «la religione cattolica apostolica e romana (era) la sola religione di Stato. Gli altri culti esistenti (erano) tollerati in conformità con la legge».
18. La presa di Roma da parte dell’esercito italiano, il 20 settembre 1870, a seguito della quale Roma fu proclamata capitale del nuovo Regno d’Italia, causò una crisi delle relazioni tra lo Stato e la Chiesa cattolica. Con la legge n. 214 del 13 maggio 1871, lo Stato italiano regolamentò unilateralmente le relazioni con la Chiesa ed accordò al Papa un certo numero di privilegi per lo svolgimento regolare dell’attività religiosa.
19. All’avvento del fascismo lo Stato adottò una serie di circolari miranti a fare rispettare l’obbligo di esporre il crocifisso nelle aule.La circolare del ministero della Pubblica istruzione n. 68 del 22 novembre il 1922 recitava: «In questi ultimi anni, in molte scuole primarie del Regno l’immagine di Cristo ed il ritratto del Re sono stati tolti. Ciò costituisce una violazione manifesta e non tollerabile e soprattutto un danno alla religione dominante dello Stato così come all’unità della nazione. Intimiamo allora a tutte le amministrazioni comunali del Regno l’ordine di ristabilire nelle scuole che ne sono sprovviste i due simboli sacri della fede e del sentimento nazionale». La circolare del ministero della Pubblica Istruzione n. 2134-1867 del 26 maggio 1926 affermava: «Il simbolo della nostra religione, sacro per la fede quanto per il sentimento nazionale, esorta e ispira la gioventù studiosa che nelle università e negli altri istituti superiori affina il suo spirito e la sua intelligenza in previsione delle alte cariche alle quali è destinata».
20. L’articolo 118 del regio decreto n. 965 del 30 aprile 1924 (regolamento interno degli istituti d’istruzione secondari del Regno) recitava: «Ogni scuola deve avere la bandiera nazionale, ogni aula il crocifisso e il ritratto del re». L’articolo 119 del regio decreto n. 1297 del 26 aprile 1928 (approvazione di regolamento generale dei servizi d’insegnamento elementare) stabiliva che il crocifisso era fra «le attrezzature e materiali necessari alle aule delle scuole». Le giurisdizioni nazionali hanno considerato che queste due disposizioni erano sempre in vigore ed applicabili al caso in specie.
21. I Patti Lateranensi, firmati l’11 febbraio 1929, segnarono la "Conciliazione" tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica. Il cattolicesimo fu confermato come la religione ufficiale dello Stato italiano. L’articolo 1 del Trattato era così formulato: «L’Italia riconosce e ribadisce il principio stabilito dall’articolo 1 dello Statuto Albertino del 4 marzo 1848, secondo il quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione di Stato».
22. Nel 1948 lo Stato italiano adottava la Costituzione repubblicana. L’articolo 7 di questa riconosceva esplicitamente che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel suo ordine, indipendenti e sovrani. Le relazioni tra lo Stato e la Chiesa cattolica è regolata dai Patti Lateranensi e le modifiche di questi accettate dalle due parti non esigono procedura di revisione costituzionale. L’articolo 8 enunciava che le confessioni religiose diverse da quella cattolica «hanno il diritto di organizzarsi secondo i loro statuti, fintanto che non si oppongono all’ordinamento giuridico italiano». Le relazioni tra lo Stato e queste altre confessioni «sono stabilite dalla legge sulla base di intese con il loro rispettivi rappresentanti».
23. La religione cattolica ha cambiato statuto in seguito alla ratifica, con la legge n. 121 del 25 marzo 1985, della prima disposizione del protocollo addizionale al nuovo Concordato con il Vaticano del 18 febbraio 1984, modificanti i Patti Lateranensi del 1929. Il principio, proclamato nei Patti Lateranensi secondo cui la religione cattolica era la sola religione dello Stato italiano era considerato come non più in vigore.
24. La Corte costituzionale italiana nella sua sentenza n. 508 del 20 novembre 2000 ha riassunto la sua giurisprudenza affermando che principi fondamentali di uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione (articolo 3 della Costituzione) e di eguale libertà di tutte le religioni dinanzi alla legge (articolo 8) stabilisce che l’atteggiamento dello Stato deve essere segnato da equidistanza e imparzialità, indipendentemente dal numero di membri di una religione o di un’altra (vedere sentenze n. 925/88; 440/95; 329/97) né dall’ampiezza delle reazioni sociali alla violazione di diritti dell’una o dell’ altra (vedere sentenza n. 329/97). La protezione uguale della coscienza di ogni persona che aderisce a una religione è indipendente dalla religione scelta (vedere sentenza n. 440/95), cosa che non è in contraddizione con la possibilità di una diversa regolamentazione delle relazioni tra lo Stato e le varie religioni ai sensi degli articoli 7 e 8 della Costituzione. Una tale posizione di equidistanza e di imparzialità è il riflesso del principio di laicità che per la Corte costituzionale ha natura di «principio supremo» (vedere sentenza n. 203/89; 259/90; 195/93; 329/97) e che caratterizza lo Stato in senso pluralista. Le credenze, culture e tradizioni diverse devono vivere insieme nell’uguaglianza e nella libertà (vedere sentenza n. 440/95).
25. Nella sua sentenza n. 203 del 1989, la Corte costituzionale ha esaminato la questione del carattere non obbligatorio dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche. In questa occasione, ha affermato che la Costituzione conteneva il principio di laicità (articoli 2,3,7,8,9,19 e 20) e che il carattere confessionale dello Stato era stato esplicitamente abbandonato nel 1985, ai sensi del protocollo addizionale ai nuovi accordi con la Santa Sede.
26. La Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sull’obbligo di esporre il crocifisso nelle scuole pubbliche, ha risposto con l’’ordinanza del 15 dicembre 2004 n. 389 (vedi sopra). Senza deliberare sul merito, ha dichiarato palesemente inammissibile la questione sollevata poiché essa aveva per oggetto delle disposizioni regolamentari, sprovviste di forza di legge, che quindi sfuggivano alla sua giurisdizione.

IN DIRITTO
I. SULLA VIOLAZIONE ALLEGATA DELL'ARTICOLO 2 DEL PROTOCOLLO N° 1 ESAMINATO CONGIUNTAMENTE ALL'ARTICOLO 9 DELLA CONVENZIONE

27. La ricorrente sostiene, nel suo nome e in nome dei suoi bambini, che l’esposizione del crocifisso nella scuola pubblica frequentata da questi ha costituito un’ingerenza incompatibile con il suo diritto di garantire loro un’istruzione e un insegnamento conformi alle sue convinzioni religiose e filosofiche ai sensi dell’articolo 2 del Protocollo n. 1, disposizione che è formulata come segue:

«Nessuno può vedersi rifiutare il diritto all’istruzione. Lo Stato, nell’ esercizio delle funzioni nel settore dell’istruzione e dell’insegnamento, rispetterà il diritto dei genitori a veder garantiti l’istruzione e l’insegnamento conformemente alle loro convinzioni religiose e filosofiche».

Inoltre la ricorrente adduce che l’esposizione del crocifisso va contro anche la sua libertà di pensiero e di religione stabilita dall’articolo 9 della Convenzione, che enuncia:

«1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; questo diritto implica la libertà di cambiare religione o convinzione, come pure la libertà di manifestare la sua religione o la sua convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o privato, con il culto, l’insegnamento, le pratiche e il compimento dei riti.

2. La libertà di manifestare la sua religione o le sue convinzioni non può essere oggetto di altre restrizioni rispetto a quelle che, previste dalla legge, costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubbliche, o alla protezione dei diritti e libertà degli altri».

28. Il Governo contesta questa tesi.

A. Sulla ricevibilità

29. La Corte constata che le obiezioni formulate dalla ricorrente non sono palesemente infondate ai sensi dell’articolo 35 § 3 della Convenzione. Nota inoltre che dette obiezioni non hanno alcun formale motivo di irrecevibilità. Occorre dunque dichiararli ammissibili.

B. Sul fondo

1. Argomenti delle parti

a) La ricorrente

30. La ricorrente ha fornito la cronistoria delle disposizioni pertinenti. Ella osserva che l’esposizione del crocifisso si fonda, secondo la giurisdizione nazionale italiana, su disposizioni del 1924 e del 1928 che sono sempre in vigore, benché precedenti sia la Costituzione italiana sia gli accordi del 1984 con la Santa Sede e al protocollo addizionale a questi. Ma le disposizioni controverse sono sfuggite al controllo di costituzionalità, poiché la Corte costituzionale non avrebbe potuto pronunciarsi sulla loro compatibilità con i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano a causa della loro natura di regolamenti e non di leggi dello Stato. Le disposizioni in causa sono l’eredità di una concezione confessionale dello Stato che si scontra oggi con il dovere di laicità di quest’ultimo e viola i diritti protetti dalla convenzione. Esiste una “questione religiosa” in Italia, poiché, facendo obbligo di esporre il crocifisso nelle aule, lo Stato accorda alla religione cattolica una posizione privilegiata che si traduce in un’ingerenza dello Stato nel diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione della ricorrente e dei suoi bambini e nel diritto della ricorrente a istruire i suoi bambini conformemente alle sue convinzioni morali e religiose, come pure con una forma di discriminazione verso i non cattolici.

31. Secondo la ricorrente, il crocifisso ha in realtà soprattutto una connotazione religiosa. Il fatto che il crocifisso abbia altre “chiavi di lettura” non comporta la perdita della sua principale connotazione, che è religiosa.Privilegiare una religione attraverso l’esposizione di un simbolo dà la sensazione agli allievi delle scuole pubbliche – e in questo caso ai figli della ricorrente – che lo Stato aderisce a una specifica fede religiosa. Mentre in uno Stato di diritto nessuno dovrebbe percepire lo Stato come più vicino a una confessione religiosa che a un’altra, e soprattutto non le persone che sono più influenzabili a causa della loro giovane età.

32. Per la ricorrente, questa situazione ha tra l’altro alcune ripercussioni come una pressione incontestabile sui minori e dà la sensazione che lo Stato sia più lontano da quelli che non si riconoscono in questa confessione. La nozione di laicità significa che lo Stato deve essere neutrale e dare prova di equidistanza rispetto a tutte le religioni, poiché non dovrebbe essere percepito come più vicino ad alcuni cittadini che ad altri.Lo Stato dovrebbe garantire a tutti i cittadini la libertà di coscienza, incominciando con un’istruzione pubblica atta a forgiare l’autonomia e libertà di pensiero della persona, nel rispetto dei diritti garantiti da Convenzione.

33. Quanto al punto di sapere se un insegnante sarebbe libero di esporre altri simboli religiosi in una sala di classe, la risposta sarebbe negativa, visto l’assenza di disposizioni che lo permettono.

b) Il Governo

34. Il governo sostiene che il problema sollevato dalla presente richiesta esce dal quadro propriamente giuridico per tracimare nel terreno della filosofia. Infatti si tratta di determinare se la presenza di un simbolo che ha un’origine e un significato religiosi è in sé una circostanza tale da influire sulle libertà individuali in modo incompatibile con la Convenzione.

35. Se il crocifisso è certamente un simbolo religioso, riveste tuttavia anche altri significati. Avrebbe anche un significato etico, comprensibile ed apprezzabile indipendentemente dall’adesione alla tradizione religiosa o storica poiché evoca principi che possono essere condivisi anche da quanti non professano la fede cristiana (non violenza, uguale dignità di tutti gli esseri umani, giustizia, primato dell’individuo sul gruppo, amore per il prossimo e perdono dei nemici). Certo, i valori che fondano oggi le società democratiche hanno la loro origine anche nel pensiero di autori non credenti e addirittura opposti al cristianesimo. Tuttavia, il pensiero di questi autori sarebbe intriso di filosofia cristiana, a causa della loro istruzione e dell’ambiente nel quale sono stati formati. In conclusione, i valori democratici oggi affonderebbero le loro radici in un passato più lontano, quello del messaggio evangelico. Il messaggio del crocifisso sarebbe dunque un messaggio umanista, che può essere letto in modo indipendente della sua dimensione religiosa, costituito da un insieme di principi ed di valori che formano la base delle nostre democrazie. Il crocifisso, rinviando a questo messaggio, sarebbe perfettamente compatibile con la laicità e accettabile anche dai non cristiani e dai non credenti, che possono accettarlo nella misura in cui evoca l’origine di questi principi e di questi valori. In conclusione, potendo il simbolo del crocifisso essere percepito come sprovvisto di significato religioso, la sua esposizione in un luogo pubblico non costituirebbe in sé un danno ai diritti e alla libertà garantiti dalla Convenzione.

36. Secondo il governo, questa conclusione sarebbe consolidata dall’analisi della giurisprudenza della Corte che esige un’ingerenza molto più attiva della semplice esposizione di un simbolo per constatare un limite ai diritti e alla libertà. Così, secondo il governo, c’è ad esempio un’ingerenza attiva che ha comportato la violazione dell’articolo 2 del Protocollo n° 1 nel procedimento Folgerø (Folgerø ed altri c. Norvegia, (GC), n° 15472/02, CEDU 2007-VIII). In questo caso invece non è indiscussione la libertà di aderire o meno a una religione, poiché in Italia questa libertà è interamente garantita.Non si tratta neppure della libertà di praticare una religione o di non praticarne nessuna: il crocifisso infatti è sì esposto nelle aule ma non viene in alcun modo chiesto agli insegnanti o agli allievi di fare il segno della croce, né di omaggiarlo in alcun modo, né tantomeno di recitare preghiere in classe. Infine non è neppure richiesto loro di prestare alcuna attenzione al crocifisso.Infine, la libertà di istruire i bambini conformemente alle convinzioni dei genitori secondo il governo non è in causa: l’insegnamento in Italia è completamente laico e pluralistico, i programmi scolastici non contengono alcuna vicinanza a una religione particolare e l’istruzione religiosa è facoltativa.

37. Riferendosi alla sentenza Kjeldsen, Busk Madsen e Pedersen, (7 dicembre 1976, serie A n. 23), nella quale la Corte non ha constatato una violazione, il governo sostiene che, quale che sia la sua forza evocatrice, un’immagine non è paragonabile all’impatto di un comportamento attivo, quotidiano e prolungato nel tempo come l’insegnamento. Inoltre chiunque ha la possibilità di fare istruire i suoi bambini in una scuola privata o in casa, da parte di precettori.

38. Le autorità nazionali usufruiscono di un grande margine di valutazione per questioni così complesse e delicate, strettamente legate alla cultura e alla storia. L’esposizione di un simbolo religioso in luoghi pubblici non eccederebbe questo margine di valutazione lasciato agli Stati.

39. Ciò sarebbe tanto vero in quanto in Europa esiste una varietà di atteggiamenti in materia. A titolo d’esempio, in Grecia tutte le cerimonie civili e militari prevedono la presenza e la partecipazione attiva di un ministro del culto ortodosso; inoltre, il Venerdì santo, il lutto nazionale sarebbe proclamato e tutti gli uffici e i negozi sarebbero chiusi, come avviene in Alsazia.40. Secondo il governo, l’esposizione del crocifisso non mette in causa la laicità dello Stato, principio che è iscritto nella Costituzione e negli accordi con la Santa Sede. Non sarebbe neppure il segno di una preferenza per una religione, perché ricorderebbe solo una tradizione culturale e dei valori umanisti condivisi da altre persone rispetto ai cristiani. In conclusione, l’esposizione del crocifisso non va contro il dovere di imparzialità e di neutralità dello Stato.

41. D’altra parte, nota il governo, non esistono criteri europei stabiliti sul modo d’interpretare concretamente la nozione di laicità, e quindi gli Stati hanno un ampio margine discrezionale in materia. Più precisamente, se esiste un criterio europeo sul principio della laicità dello Stato, non ce ne sono invece sulle sue implicazioni concrete e sulla sua attuazione. Il governo chiede alla Corte di dare prova di prudenza e di astenersi quindi dal dare un contenuto preciso che va a proibire la semplice esposizione di simboli. Altrimenti, darebbe un contenuto materiale predeterminato al principio di laicità, cosa che andrebbe contro la diversità legittima degli approcci nazionali e condurrebbe a conseguenze imprevedibili.

42. Il governo non sostiene quindi che sia necessario, opportuno o auspicabile mantenere il crocifisso nelle sale di classe, ma semplicemente sostiene che la scelta di mantenerlo o no dipende dalla politica e risponde dunque a criteri di opportunità, e non di legalità. Nell’evoluzione storica del diritto nazionale descritta dalla ricorrente, che il governo non contesta, occorre tuttavia capire che la Repubblica italiana, benché laica, ha deciso liberamente di conservare il crocifisso nelle aule per varie ragioni, fra cui la necessità di trovare un compromesso con le componenti di ispirazione cristiana che rappresentano una parte essenziale della popolazione e con il sentimento religioso di questa.
43. Quanto a sapere se un insegnante sarebbe libero di esporre altri simboli religiosi in un’aula nessuna disposizione la proibirebbe.

44. In conclusione, il governo chiede alla Corte di respingere la richiesta.c) Il terzo intervenuto

45. Il Greek Helsinki Monitor (“GHM”) contesta le tesi del governo. La croce, e più ancora il crocifisso, secondo il GHM non può che essere percepito come simbolo religioso. Il GHM contesta così la dichiarazione secondo la quale occorre vedere nel crocifisso un simbolo diverso da quello religioso e in particolare un emblema condiviso di valori umanisti; ritiene anzi che simile posizione sia offensiva per la Chiesa. Inoltre, il governo italiano non ha indicato un solo non-cristiano che sarebbe d’accordo con questa teoria. Infine, tutte le altre religioni vedono nel crocifisso niente altro che un simbolo religioso.

46. Se si segue l’argomentazione del governo secondo la quale l’esposizione del crocifisso non richiede né alcun omaggio né alcuna attenzione, sostiene il GHM, occorrerebbe chiedersi allora perché il crocifisso viene esposto. L’esposizione di tale simbolo potrebbe essere percepito come una venerazione istituzionale di quest’ultimo. A tale riguardo, il GHM osserva che, secondo i principi direttivi di Toledo sull’insegnamento relativo alle religioni e convinzioni nelle scuole pubbliche (Consiglio di esperti sulla libertà di religione e di pensiero dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa – “OSCE”), la presenza di tale simbolo in una scuola pubblica può costituire una forma d’insegnamento implicito di una religione, ad esempio dando l’impressione che questa religione particolare è favorita rispetto alle altre. Se la Corte, nel procedimento Folgerø, ha affermato che la partecipazione ad attività religiose può esercitare un’influenza sui bambini, allora, secondo il GHM, l’esposizione di simboli religiosi può anch’essa averne una. Occorre anche pensare a situazioni dove i bambini o i loro genitori potrebbero avere timore di ritorsioni nel caso decidessero di protestare.

3. Valutazioni della Corte

d) Princìpi generali

47. Per quanto riguarda l’interpretazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 1, nell’esercizio delle funzioni che lo Stato assume nel settore dell’istruzione e dell’insegnamento, la Corte ha individuato nella sua giurisprudenza i principi ricordati sotto che sono pertinenti nel presente procedimento (vedere, in particolare, Kjeldsen, Busk Madsen e Pedersen c. Danimarca, sentenza del 7 dicembre 1976, serie A n° 23, pp 24-28, §§ 50-54, Campbell e Cosans c. Regno Unito, sentenza del 25 febbraio 1982, serie A n. 48, pp 16-18, §§ 36-37, Valsamis c. Grecia, sentenza del 18 dicembre 1996, Raccolta delle sentenze e decisioni 1996-VI, pp 2323-2324, §§ 25-28, e Folgerø ed altri c. Norvegia [GC], 15472/02, CEDH 2007-VIII, § 84). (a) Occorre leggere le due frasi dell’articolo 2 del Protocollo n. 1 alla luce non soltanto l’una dell’altra, ma anche, in particolare, degli articoli 8, 9 e 10 della Convenzione.(b) Sul diritto fondamentale all’istruzione si innesta infatti il diritto dei genitori al rispetto delle loro convinzioni religiose e filosofiche e la prima frase non distingue più della seconda tra l’insegnamento pubblico e l’insegnamento privato. La seconda frase dell’articolo 2 del Protocollo n. 1 mira a salvaguardare la possibilità di un pluralismo educativo, essenziale alla preservazione della "società democratica" così come la concepisce la Convenzione. A causa dei poteri di uno Stato moderno, è soprattutto l’istruzione pubblica che deve realizzare quest’obiettivo.(c) Il rispetto delle convinzioni dei genitori deve essere reso possibile nel quadro di un’istruzione capace di garantire un ambiente scolastico aperto e favorendo l’inclusione piuttosto che l’esclusione, indipendentemente dall’origine sociale degli allievi, delle loro credenze religiose o dalla loro origine etnica. La scuola non dovrebbe essere il teatro di attività di proselitismo o predicazione; dovrebbe essere un luogo di unione e confronto di varie religioni e convinzioni filosofiche, dove gli allievi possono acquisire conoscenze sui loro pensieri e rispettive tradizioni.(d) La seconda frase dell’articolo 2 del Protocollo n. 1 implica che lo Stato, date le sue funzioni in materia d’istruzione e d’insegnamento, vigila affinché le informazioni o le conoscenze che appaiono nei programmi siano diffuse in modo oggettivo, critico e pluralistico. L’articolo proibisce agli Stati di perseguire un obiettivo di indottrinamento, anche non rispettando le convinzioni religiose e filosofiche dei genitori. Questo è un limite da non superare.(e) Il rispetto delle convinzioni religiose dei genitori e dei bambini implicano il diritto di credere in una religione o di non credere in alcuna religione. La libertà di credere e la libertà non di credere sono entrambe protette dall’articolo 9 della Convenzione (vedere l'articolo 11, Young, James e Webster c. Regno Unito, 13 agosto 1981, §§ 52-57, serie A n° 44). Il dovere di neutralità e di imparzialità dello Stato è incompatibile con un potere qualunque di valutazione da parte di quest’ultimo sulla legittimità delle convinzioni religiose o delle modalità di espressione di queste. Nel contesto dell’insegnamento, la neutralità dovrebbe garantire il pluralismo (Folgerø, cit., § 84). Applicazione di questi princìpi48. Per la Corte, queste considerazioni conducono all’obbligo per lo Stato di astenersi dall’imporre, anche indirettamente, credenze nei luoghi dove le persone sono dipendenti dallo Stato o anche nei posti in cui le persone possono essere particolarmente vulnerabili. L’istruzione dei bambini rappresenta un settore particolarmente sensibile poiché, in questo caso, il potere dello Stato è imposto verso coscienze che mancano ancora (secondo il livello di maturità del bambino) della capacità critica che permette di prendere distanza rispetto al messaggio che deriva da una scelta preferenziale manifestata dallo Stato in materia religiosa.

49. Applicando i principi qui sopra al presente procedimento, la Corte deve esaminare la questione intesa ad accertare se lo Stato, imponendo l’esposizione del crocifisso nelle aule, ha vegliato o meno nell’esercizio delle sue funzioni di istruzione e di insegnamento affinché le conoscenze siano diffuse in modo oggettivo, critico e pluralistico e quindi se ha o no rispettato le convinzioni religiose e filosofiche dei genitori, secondo l’ articolo 2 del protocollo n. 1.50. Per esaminare la questione, la Corte considererà in particolare la natura del simbolo religioso e il suo impatto su allievi di una giovane età, in questo caso i figli della ricorrente. Infatti, nei paesi in cui la grande maggioranza della popolazione aderisce a una religione precisa, la manifestazione dei riti e dei simboli di questa religione, senza restrizione di luogo e di forma, può costituire una pressione sugli allievi che non praticano la suddetta religione o su quelli che aderiscono a un’altra religione (Karaduman c. Turchia, decisione della Commissione del 3 maggio 1993).

51. Il governo giustifica l’obbligo (o il fatto) di esporre il crocifisso riferendosi al messaggio morale positivo della fede cristiana, che trascende i valori costituzionali laici, al ruolo della religione nella storia italiana così come al radicamento di essa nella tradizione del paese. Attribuisce quindi al crocifisso un significato neutrale e laico in riferimento alla storia e alla tradizione italiane, strettamente legate al cristianesimo. Il governo sostiene che il crocifisso è un simbolo religioso ma può anche rappresentare altri valori (vedere Tar del Veneto, n. 1110 del 17 marzo 2005,
§ 16, paragrafo 13 sopra).Secondo la Corte il simbolo del crocifisso ha una pluralità di significati, fra i quali il significato religioso è tuttavia predominante.

52. La Corte considera che la presenza del crocifisso nelle aule va al di là del semplice impiego di simboli in contesti storici specifici. La Corte ha ritenuto in passato che il carattere tradizionale, nel senso sociale e storico, di un testo utilizzato dai parlamentari per prestare giuramento non privava il giuramento della sua natura religiosa (Buscarini ed altri c. San Marino [GC], n. 24645/94, CEDU 1999-I). 53. La ricorrente adduce che il simbolo urta le sue convinzioni e viola il diritto dei suoi bambini di non professare la religione cattolica. Il suo convincimento ha un grado di serietà e di coerenza sufficiente perché la presenza obbligatoria del crocifisso possa essere ragionevolmente rienuta in conflitto con questo. La ricorrente vede nell’esposizione del crocifisso il segno che lo Stato favorisce la religione cattolica. Tale è anche il significato ufficialmente preso in considerazione nella Chiesa cattolica, che attribuisce al crocifisso un messaggio fondamentale. Di conseguenza, l’apprensione della ricorrente non è arbitraria.
54. Le convinzioni della signora Lautsi riguardano così l’impatto dell’esposizione del crocifisso sui suoi bambini (paragrafo 32 sopra), all’epoca di undici e tredici anni. La Corte riconosce che, per come viene esposto, è impossibile non osservare il crocifisso nelle aule. Nel contesto dell’istruzione pubblica, questo è necessariamente percepito come parte integrante dell’ambiente scolastico e può di conseguenza essere considerato come “un segno esterno forte” (Dahlab c. Svizzera (dic.), n. 42393/98, CEDU 2001-V).

55. La presenza del crocifisso può facilmente essere considerata da allievi di qualsiasi età un segno religioso e questi si sentiranno quindi istruiti in un ambiente scolastico influenzato da una religione specifica. Ciò che può essere gradito da alcuni allievi religiosi, può essere sconvolgente emotivamente per allievi di altre religioni o per coloro che non professano nessuna religione. Questo rischio è particolarmente presente negli allievi che appartengono a minoranze religiose. La libertà negativa non è limitata all’assenza di servizi religiosi o di insegnamenti religiosi. Essa si estende alle pratiche e ai simboli che esprimono, in particolare o in generale, una credenza, una religione o l'ateismo. Questo diritto negativo merita una protezione particolare se è lo Stato che esprime una credenza e se la persona è messa in una situazione di cui non può liberarsi o soltanto con degli sforzi e con un sacrificio sproporzionati.

56. L’esposizione di uno o più simboli religiosi non può giustificarsi né con la richiesta di altri genitori che desiderano un’istruzione religiosa conforme alle loro convinzioni, né, come il governo sostiene, con la necessità di un compromesso necessario con le componenti di ispirazione cristiana. Il rispetto delle convinzioni di ogni genitore in materia di istruzione deve tenere conto del rispetto delle convinzioni degli altri genitori. Lo Stato è tenuto alla neutralità confessionale nel quadro dell’istruzione pubblica obbligatoria dove la presenza ai corsi è richiesta senza considerazione di religione e che deve cercare di insegnare agli allievi un pensiero critico. La Corte non vede come l’esposizione nelle aule di scuole pubbliche di un simbolo che è ragionevole associare al cattolicesimo (la religione maggioritaria in Italia) potrebbe servire al pluralismo educativo che è essenziale alla preservazione d’una "società democratica" come la concepisce la Convenzione, e alla preservazione del pluralismo che è stato riconosciuto dalla Corte costituzionale nel diritto nazionale (vedi paragrafo 24).

57. La Corte ritiene che l’esposizione obbligatoria di un simbolo confessionale nell’esercizio del settore pubblico relativamente a situazioni specifiche che dipendono dal controllo governativo, in particolare nelle aule, viola il diritto dei genitori di istruire i loro bambini secondo le loro convinzioni e il diritto dei bambini scolarizzati di credere o non di credere. La Corte considera che questa misura violi questi diritti poiché le restrizioni sono incompatibili con il dovere che spetta allo Stato di rispettare la neutralità nell’esercizio del settore pubblico, in particolare nel settore dell’ istruzione.

58. Perciò la Corte stabilisce che in questo caso c’è stata violazione dell’articolo 2 del protocollo n. 1 e dell’ articolo 9 della Convenzione.

II. SULLA VIOLAZIONE DELL'ARTICOLO 14 DELLA CONVENZIONE

59. La ricorrente sostiene che l’ingerenza viola anche il principio di non discriminazione, secondo l’articolo 14 della convenzione.La richiedente sostiene che l'ingerenza che ha denunciato sotto il profilo dell'articolo 9 della Convenzione e dell'articolo 2 del Protocollo n° 1 viola anche il principio di non discriminazione, consacrato dall'articolo 14 della Convenzione.

60. Il governo contrasta questa tesi.61. La Corte constata che quest’obiezione non è palesemente infondata ai sensi dell’articolo 35 § 3 della Convenzione. Nota inoltre che non si presenta alcuna altra ragione d’irrecevibilità. Occorre dunque dichiararla ammissibile.

62. Tuttavia, in considerazione delle circostanze del presente procedimento e del ragionamento che l’ha condotta a constatare una violazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 1 combinato con l’articolo 9 della Convenzione, la Corte ritiene che non vi sia motivo di esaminare la questione anche per quanto riguarda l’articolo 14, preso isolatamente o combinato con le disposizioni sopra.

III. SULL'APPLICAZIONE DELL'ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE

63. Alla fine dell’articolo 41 della Convenzione, «Se la Corte dichiara che c’è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli, e se il diritto nazionale dell’alta parte contraente non permette di cancellare le conseguenze di questa violazione, la Corte accorda alla parte danneggiata una soddisfazione equa».A. Danno.
64. La ricorrente sollecita il pagamento di una somma di almeno 10.000 EUR per pregiudizio morale.
65. Il governo ritiene che una constatazione di violazione sarebbe sufficiente. In secondo luogo il governo sostiene che la somma richiesta è eccessiva e ne richiede il rifiuto o la riduzione secondo equità.
66. Dato che il governo italiano non ha dichiarato di essere pronto a rivedere le disposizioni che disciplinano la presenza del crocifisso nelle aule, la Corte ritiene che a differenza di ciò che fu il caso Folgerø ed altri (sentenza summenzionata, § 109), la constatazione di violazione non può bastare in questa fattispecie. Di conseguenza, deliberando secondo equità, accorda 5.000 EUR a titolo del pregiudizio morale.
B. Spesa e costi
67. La ricorrente chiede inoltre 5.000 EUR per le spese e i costi impegnati nella procedura a Strasburgo.
68. Il governo osserva che la ricorrente non ha sostenuto la sua domanda e suggerisce il rifiuto di questa.
69. Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente non può ottenere il rimborso delle sue spese e dei suoi costi se non nella misura in cui si trovano stabiliti la loro realtà, la loro necessità e il carattere ragionevole del loro tasso. Nella fattispecie, la ricorrente non ha prodotto nessun documento giustificativo in appoggio della sua domanda di rimborso. La Corte decide quindi di respingere questa richiesta.C. Interessi moratori
70. La Corte giudica adeguato calcolare il tasso degli interessi moratori sul tasso d’interesse sulla facilità di prestito marginale della Banca centrale europea aumentato di tre punti percentuali.

PER QUESTE RAGIONI, LA CORTE ALL’ UNANIMITÀ,

1. Dichiara la richiesta ammissibile.2. Stabilisce che c’è stata violazione dell’articolo 2 del protocollo n° 1 esaminato con l’articolo 9 della Convenzione.
3. Stabilisce che non abbia luogo l’esame dell’obiezione riferita all’ articolo 14 preso isolatamente o combinato con l’articolo 9 della Convenzione e l’articolo 2 di Protocollo n° 1;4.
Stabilisce
a) che lo Stato italiano deve versare alla ricorrente, entro tre mesi a contare dal giorno in cui la sentenza sarà diventata definitiva, in base all’articolo 44 § 2 della Convenzione, 5.000 EUR (cinquemila euro), per danno morale, più ogni importo che può essere dovuto a titolo d’imposta; b) che a partire dalla scadenza del suddetto termine e fino al pagamento, questo importo sarà da aumentare in base a un interesse semplice pari a un tasso uguale a quello di facilità di prestito marginale della Banca centrale europea applicabile per questo periodo, aumentato di tre punti percentuali.5. Respinge la domanda di soddisfazione equa per l’eccedenza.Sentenza redatta in francese, quindi comunicata per iscritto il 3 novembre 2009, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.

Sally Dollé, Cancelliere Françoise Tulkens, Presidente

Traduzione in italiano di Laura Morandi e Bruno Moretti Turri

Luino (VA): 5° centenario della nascita di Giovanni Calvino (1509-2009)

La Chiesa Evangelica Metodista di Luino

invita

alla visione del video dal titolo: "Vita e opere di Giovanni Calvino"
Venerdì 13 novembre ore 21 presso la Sala di Culto in Via del Carmine 30.
Seguirà il dibatito

Entrata libera

06/11/2009

Positive le reazioni del mondo protestante alla sentenza della Corte Europea

All'indomani della sentenza sul crocefisso a scuola del Tribunale per i diritti umani di Strasburgo, si conferma e si rafforza il giudizio favorevole dei protestanti italiani. Sul sito web dell'Unione delle chiese metodiste e valdesi, la moderatora della Tavola valdese, pastora Maria Bonafede, ha dichiarato: "È una sentenza che tutela i diritti di chi crede, di chi crede diversamente dalla maggioranza e di chi non crede. Ancora una volta emerge la fragilità, logica prima e giuridica dopo, della tesi secondo cui il crocefisso imposto nelle aule italiane non è un simbolo religioso ma sarebbe l'espressione della cultura nazionale. La sfida oggi è invece quella del pluralismo delle culture e della convivenza tra chi crede e chi non crede nel quadro del valore costituzionale della laicità".
Sulla stessa linea la presidente dell'Unione cristiana evangelica battista d'Italia (UCEBI), la pastora Anna Maffei, che si dice non affatto offesa da tale sentenza: “Ridurre Cristo crocifisso in un segno di appartenenza che marca il territorio di uno Stato e difenderlo come simbolo nazionale significa aver completamente travisato la fede cristiana. Cristo si affidò ad una parola nuda da annunciare, non a simboli nazionali da preservare. I cristiani dovrebbero farsi portatori disarmati di questa parola e non pretendere niente".
Il pastore Holger Milkau, decano della Chiesa evangelica luterana in Italia (CELI), invitando al confronto sereno e dialogico, sostiene che "lo spazio pubblico non è il luogo dove esprimere prepotenze. Ovviamente la croce e il crocifisso sono simboli fondamentali del cristianesimo, ma non devono diventare motivo per oppressioni o liti".
Positivo anche il giudizio del teologo valdese Paolo Ricca citato da "Il Manifesto" di oggi: “Ritengo la sentenza della Corte Europea un provvedimento giusto. In una situazione di pluralismo religioso mi sembra che tale decisione debba essere adottata anche negli uffici pubblici, come le aule dei tribunali, e non solo in quelle scolastiche”.
Anche l'Alleanza evangelica Italiana (AEI) con un comunicato diffuso oggi valuta "molto positivamente" la sentenza della Corte Europea.
L'"Associazione 31 Ottobre per una scuola laica e pluralista degli evangelici italiani" ritiene che questa sentenza sia un'opportunità per il nostro paese di "sprovincializzarsi". Il suo presidente, Nicola Pantaleo, ha dichiarato: "Sostenere che il crocifisso costituisce un dato culturale e storico più che religioso, connaturato all’italianità, è dire il falso e forzare l’evidenza dei fatti. Si dimentica che esso è stato imposto dal fascismo assieme al ritratto del Duce e alla dichiarazione del cattolicesimo come religione di Stato con tutte le perniciose conseguenze che ne sono derivate per la libertà del nostro paese. Si dimentica altresì che la revisione del Concordato del 1984 ha modificato sensibilmente la situazione, cancellando la religione di Stato e rendendo facoltativo l’insegnamento della religione cattolica. Sappiamo che molto difficilmente vedremo i crocifissi rimossi dalle aule nel prossimo futuro ma resta intatto il riconoscimento di un principio sacrosanto in una società moderna e multiculturale, quello per cui nozioni, simboli e riti di una determinata fede religiosa non possono abitare nei luoghi aperti a tutti, che siano scuole, ospedali, uffici o tribunali".
Da Notizie Evangeliche (NEV) 4 novembre 2009

03/11/2009

Incontro "Fine settimana" : "Ero forestiero e mi avete ospitato"

Sabato 7 novembre 2009, a partire dalle ore 15.00, nella sede del Centro Familiare “Madonna delle Grazie” presso la Chiesa di Madonna di Campagna in Verbania Pallanza, prenderà avvio il ciclo di incontri dei “Fine Settimana”, che quest’anno avranno come tema"Ero forestiero e mi avete ospitato".
L’iniziativa si aprirà con le relazioni di Chiara Colombo e di Giovanni Mari, giovani studiosi da tempo impegnati sul fronte dell'immigrazione, ai quali abbiamo chiesto di presentarci alcune chiavi di lettura del fenomeno migratorio, del nuovo volto assunto dal nostro paese sempre più multietnico e multiculturale.
Per più informazioni consultare il sito: www.finesettimana.org

27/10/2009

Quale riforma con il papa?

di Giorgio Tourn

Ogni anno le chiese protestanti ricordano quel 31 ottobre 1517 quando Lutero affisse le sue 95 tesi a Wittemberg, aprendo il dibattito sulle indulgenze e poi sulla riforma della chiesa. Che la chiesa debba sempre rinnovarsi per esser fedele al Vangelo di Cristo è fuori di dubbio ma di che natura è questo rinnovamento? Si tratta di un riformismo formale, di una nuova forma di vita (ri-forma), di una restaurazione della forma originaria? E in secondo luogo che posto occupa il papa in questo processo?

Il problema della riforma è antico come la chiesa stessa ed è sempre stato sempre presente, in modi più o meno espliciti, nella cristianità. La proposta più radicale e innovativa di riforma è quella che nel XVI secolo seguì la predicazione di Lutero, anche se il monaco agostiniano, nell’affiggere le sue tesi sul tema delle indulgenze e della penitenza, non pensava minimamente ad un progetto di riforma. Poneva solo un interrogativo ai teologi e agli ecclesiastici del suo tempo ma, pur non essendone pienamente consapevole (lo capì dopo), il suo era un interrogativo di fondo: quale è il potere che ha la chiesa nel comunicare la salvezza divina? E’ questa la lettura che si dà del suo gesto e le opinioni che hanno a lungo circolato su di lui: uomo immorale, interessato, fanatico ribelle, sono abbandonate dai più e anche i cattolici riconoscono che si trattò di un pensatore di grande spiritualità e fede.
E’ altresì chiaro ormai che la sua protesta contro le devianze e gli errori della chiesa non era di natura morale ma teologica. L’immoralità e l’ignoranza del clero era al tempo suo un fatto evidente e suscitava l’indignazione e le proteste di tutti i credenti, laici e chierici. Non erano però le amanti di papa Borgia a preoccupare Lutero ma il potere delle chiavi, che la chiesa rivendicava per sé, in particolare al magistero. Chi apre e chiude le porte del Regno, condanna e assolve, la parola del Vangelo o il clero? La questione delle indulgenze non si poneva solo sotto il profilo veniale di un mercato delle realtà spirituali, ma sotto quello teologico di una gestione illegittima del sacro. Con la lucidità e l’intuizione che lo caratterizzano Lutero aveva di conseguenza individuato il problema: non si tratta di purificare e moralizzare la chiesa, e forse neppure di riformarla, ma di restaurarla nella sua forma primitiva, quella che aveva in origine, quando le chiavi le aveva in mano Cristo.
Non si rese conto subito, ma gli divenne chiaro molto presto, che questo significava togliere le chiavi dalle mani dei sedicenti successori di Pietro e riportare la chiesa a prima del papato. Dal tempo della Riforma è trascorso molto tempo e la realtà del papato non è più oggi quella che era allora; Lorenzo Valla ha dimostrato la falsità della Donazione di Costantino e l’infondatezza della pretesa clericale al governo dell’Occidente, i bersaglieri italiani hanno posto fine allo Stato della Chiesa aprendo la breccia nelle mura di Roma. Immutata resta però la struttura di fondo del pensiero romano, e la bandiera pontificia, con le chiavi, continua a sventolare sul Vaticano e sulle nunziature nel mondo.
Ma dall’epoca di Lutero sono stati compiuti passi decisivi in una direzione che egli non prevedeva: sul cammino di una identificazione della chiesa con il papa. Il primo è stato compiuto al (molto più che dal) concilio di Trento, con la definitiva eliminazione dalla cattolicità di ogni ipotesi di ecclesiologia conciliare. Il tormentato cammino dei lavori di quell’assemblea, le tensioni interne, i conflitti hanno visto il progressivo accentuarsi delle decisioni nelle mani dei legati pontifici, e con umorismo si diceva che lo Spirito Santo viaggiava da Roma a Trento. Questo ha significato la trasformazione dei vescovi da pastori delle diocesi e del popolo dei credenti in funzionari di curia. Si può discutere oggi se la dottrina tridentina della giustificazione sia conciliabile o meno con le posizioni luterane, esercizio di pura retorica teologica. ma questo non intacca la rivoluzione giuridica dell’episcopato. Ma dopo Trento Roma ha proseguito il suo cammino in quella direzione e, come gli studi di Paolo Prodi hanno mostrato in modo esemplare, la Chiesa ha realizzato paradossalmente il primo Stato dell’Assolutismo moderno. Il papa re non è un’immagine retorica della polemica anticlericale, non l’ha inventata "l’Asino", il caustico giornale ottocentesco, è un dato di fatto storico. Ma il cammino della teologia papale si conclude nel Vaticano I con il dogma dell’infallibilità. Pur avendone fatto uso, e in modo molto soft, solo nel caso della proclamazione del dogma dell’Assunzione di Maria, il principio permane, affermato in termini espliciti.
In questa luce la chiesa romana del XX secolo ha assunto, rispetto a quella dei secoli precedenti, una identità molto caratteristica: si va identificando in modo sempre più forte con il pontefice. Questo non significa che abbia più potere, sia più autorità (Gregorio VII, Innocenzo III, Pio V restano fuori della norma!) ma la sua personalità diventa sempre più marcata, carismatica, senza confronto con quella dei papi che hanno preceduto Pio IX. Da Pio XII a Benedetto XVI gli uomini che siedono sul seggio di Pietro sono più e altro che l’espressione del papato, ministri che esercitano un mandato, assolvono una funzione; sono personaggi: il diplomatico e il pastore, l’artista e il professore che maneggiano le chiavi di Pietro secondo la loro visione della fede e con questa visione si identifica la chiesa del loro pontificato. E’ un caso che tutti siano in via di santificazione, anzi già santi nella coscienza popolare laddove, se non andiamo errati, bisogna risalire a metà del Cinquecento per trovare san Pio V? Come Maria è l’icona della Chiesa il papa ne è la voce, la presenza visiva, una sorta di epifania. Del tutto inutile e banale perciò cercare di inquadrarli nelle categorie di conservatore-progressista, conciliare-reazionario; da questo punto di vista il Vaticano II più che segnare il cammino della Chiesa definisce un pontificato. La generazione di Lutero e di Calvino avevano usato espressioni estremamente forti a questo riguardo, parlando del papato come dell’Anticristo, e i riformati da parte loro usavano definire i cattolici dei "papisti". Nel linguaggio oecumenical correct non si possono usare, ma è lecito chiedersi se si trattava solo di espressioni poco rispettose dell’identità romana o se piuttosto veniva individuato con questi termini il nodo fondamentale della Riforma, possibile solo con la fine del papato.
Pubblicato il 26 ottobre 2009 sul sito: http://www.chiesavaldese.org/

22/10/2009

"No" degli evangelici al moltiplicarsi delle ore di religione confessionali

Così non si favorisce l'integrazione scolastica e culturale

Roma (NEV), 21 ottobre 2009 - Sono numerose le reazioni degli evangelici alla proposta lanciata la scorsa settimana dall'on. Adolfo Urso in merito all'introduzione nella scuola pubblica di un'ora di religione islamica. Contro l'eventualità che si possano disgregare intere classi secondo le diverse appartenenze religiose degli alunni, tra le fila del mondo protestante si è alzato un coro di "no".
Contraria ad un'altra ora “confessionale” la pastora Maria Bonafede, moderatora della Tavola valdese: “Valdesi e metodisti – ha affermato - non chiedono e non chiederanno un’ora di religione ‘protestante’. Non lo faranno perché convinti che il tema della formazione religiosa confessionale sia di specifica spettanza delle famiglie e delle comunità di fede. E questo, dal nostro punto di vista, dovrebbe valere per i cattolici, per i musulmani, per i buddisti e così via. Ma se siamo e restiamo contrari a ogni forma di insegnamento confessionale nella scuola pubblica, questo non vuol dire che la scuola debba ignorare quella dimensione religiosa che costituisce un tratto rilevante di ogni società multietnica e multiculturale. Anche in Italia – persino nell’Italia cattolica e secolarizzata, ci viene da dire – iniziamo ad avere una certa familiarità con il Ramadan islamico, lo Yom Kippur ebraico, il Vesak buddista, con il libro di Mormon o i Veda della tradizione induista. Educare alla realtà del pluralismo religioso dovrebbe diventare quindi un obiettivo fondamentale di ogni percorso scolastico teso a formare persone e cittadini consapevoli e partecipi della complessa realtà che li circonda”.
Nicola Pantaleo, presidente dell’Associazione "31 Ottobre, per una scuola laica e pluralista, promossa dagli evangelici italiani", ritiene che "la mossa del sottosegretario Urso, ancorché animata dalle migliori intenzioni, contrasta con il principio della laicità delle istituzioni che presuppone l’assenza di un insegnamento confessionale nella scuola pubblica". Per Pantaleo non è certamente "moltiplicando l’offerta religiosa che si ottempera a quel principio irrinunciabile o si favorisce l’integrazione scolastica e culturale. Di fatto la proliferazione di 'ghetti' confessionali può solo esasperare le incomprensioni e le gelosie identitarie. E’ una strada sbagliata". E intanto l'Associazione "31 ottobre", ribadisce la necessità di adottare un insegnamento di "religioni nella storia" che sia libero da ipoteche confessionali e fornisca agli studenti una conoscenza del fatto religioso ad ampio raggio.
La soluzione ipotizzata è la “risposta sbagliata ad un problema reale" è il parere dell'Alleanza evangelica italiana (AEI), che con un comunicato stampa diffuso ieri ribadisce la sua opposizione all'insegnamento della religione cattolica (IRC) nella scuola pubblica ritenuto "privilegio iniquo in uno stato laico". Con l'ipotetica aggiunta di un altro insegnamento religioso invece di risolvere "il vizio di fondo dell'IRC", lo estende e lo amplifica ulteriormente. AEI propone quindi l'abolizione dell'IRC e l'introduzione di una legge per la libertà religiosa che "finalmente introduca nel nostro paese una legislazione rispettosa di tutte le componenti religiose in un quadro di laicità ed uguaglianza. Solo così ci potrà essere integrazione, anche della minoranza islamica".

17/10/2009

Presentazione dell'Ottava Giornata del dialogo cristianoislamico del 27 ottobre 2009

Di Jean-Félix Kamba Nzolo, pastore valdese

La Giornata del dialogo cristiano islamico giunge alla ottava edizione. Un’iniziativa nata all’indomani di ciò che ormai viene identificato con la data dell’ 11 settembre 2001, ovvero l’ attentato terroristico di New York e Washington, quando, in un clima di sconcerto e di paura, fu fatto circolare un appello “per il dialogo” sottoscritto da centinaia di personalità del mondo cattolico, protestante ed ortodosso italiano.
La Giornata del dialogo cristiano-islamico è stata istituita con lo scopo di contrastare il clima di incomprensione e talvolta di contrapposizione che si era determinato tra le due comunità. Da allora ogni anno, il 27 ottobre si sono realizzati centinaia di eventi in tutta Italia, ciascuno organizzato secondo specifiche modalità locali. La Giornata del 2007 cade in un periodo particolarmente difficile, talvolta caratterizzato da un clima di tensione e paure che la presenza dei musulmani sul territorio italiano suscita tra l’opinione pubblica, a maggioranza cristiana. I promotori della Giornata invitarono istituzioni politiche e religiose, società civile e cittadini ad impegnarsi affinché la logica e la pratica del dialogo prevalgano sullo scontro tra le culture.
Non si tratta di un’iniziativa nata dall’alto delle istituzioni religiose, ma di un’iniziativa nata dal basso, perché ideata da persone appartenenti a diverse confessioni cristiane e che fino allora erano impegnate nel dialogo interreligioso con l’islam, per lo meno coi musulmani italiani e che avevano sentito il bisogno di pronunciarsi all’indomani di quella strage dell’11 settembre con una proposta seria in grado di impegnare le chiese cristiane. Quest’ultime sono sollecitate a non limitarsi alle buone intenzioni ma ad attuare un autentico dialogo con l’Islam basato sulla conoscenza e rispetto reciproci nello spirito del documento conciliare cattolico "Nostra Aetate ", della "Charta Oecumenica ", firmata dalla Conferenza delle Chiese europee (KEK), un organo che raggruppa la maggior parte delle chiese ortodosse, riformate, anglicane, libere e vecchio cattoliche d’Europa e dal Consiglio delle Conferenze episcopali europee (CCEE) nel quale sono incluse le Conferenze episcopali d’Europa.In un certo senso, si è passato dal dialogo fra le istituzioni al dialogo fra le persone: questo è il filo rosso della Giornata di dialogo cristiano-islamico. Ogni anno viene lanciato l’appello per una nuova edizione della Giornata al quale aderiscono associazioni, gruppi, singoli, ecc… che promuovono nelle loro città iniziative di dialogo con l’Islam.

15/10/2009

Appello contro il razzismo

"Un gruppo di intellettuali ha sottoscritto un appello contro il razzismo rivolto a tutte le forze sociali e politiche e a tutti i cittadini che credono nella giustizia e nell'eguaglianza, per la piu' vasta partecipazione alla manifestazione di sabato 17 a Roma contro il razzismo".
L'introduzione del reato di immigrazione clandestina, il prolungamento della detenzione amministrativa e l'ulteriore limitazione della possibilita' per i migranti di accedere a servizi fondamentali accentuano in maniera drammatica la curvatura proibizionista e repressiva delle politiche migratorie del nostro Paese. Ad essere travolti sono i principi fondamentali di eguaglianzae di solidarieta' che costituiscono il cuore della nostra carta costituzionale. Punendo la condizione di irregolarita' in quanto tale – e senza prevedere vie praticabili di uscita da tale situazione - si crea nelsentire collettivo l'immagine del migrante come nemico nei cui confronti tutto e' lecito e possibile, anche la delega della sicurezza pubblica ai privati, organizzati in ronde e organizzazioni consimili. Cosi' si apre la strada - come molti fatti di questi giorni dimostrano - a una societa' razzista, dominata dall'intolleranza e dall'odio. Il nostro Paese ha gia' vissuto la vergogna delle leggi razziali: non possiamo e non dobbiamo dimenticarlo. E' lo stesso sistema democratico nato dalla Resistenza contro il fascismo e scritto nella Costituzione ad essere in pericolo.A fronte di cio' e' necessaria una reazione forte e consapevole che coinvolga le coscienze individuali e collettive, i cittadini e le organizzazioni democratiche nella loro pluralita' e differenza. Occorre dare visibilita' a chi crede nella giustizia, nella uguaglianza, nella pari dignita' di tutti. Occorre impedire che il razzismo dilaghi alimentando, per di piu', il senso di insicurezza e di paura. Occorre che i migranti, venuti in Italia per costruire il loro futuro e quello dei loro figli trovino nel nostro Paese valori di giustizia, di accoglienza e di solidarieta'.Per questo ci auguriamo che la manifestazione nazionale antirazzista, promossa per il 17 ottobre a Roma da un larghissimo schieramento di forze sociali e politiche, sia animata da una grande, plurale e unitaria partecipazione.Fermare il razzismo, modificare la disciplina dell'immigrazione, assicurare la possibilita' di soggiorno e il godimento dei diritti sociali, civili e politici alle lavoratrici e ai lavoratori stranieri rappresentano una priorita' per salvare la nostra democrazia.

Simonetta Agnello Hornby, Stefano Benni, Giorgio Bocca, Andrea Camilleri,Luigi Ciotti, Cristina Comencini, Erri De Luca, Carlo Feltrinelli, IngeFeltrinelli, Luigi Ferrajoli, Dario Fo, Marco Tullio Giordana, MargheritaHack, Gad Lerner, Fiorella Mannoia, Guido Neppi Modona, Moni Ovadia, LivioPepino, Franca Rame, Stefano Rodota', Igiaba Scego, Antonio Tabucchi.14 ottobre 2009

Ottava Giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico

27 ottbre 2009
La gioia del raccontarsi la vita

"Siamo tutti migranti"

Ci incontreremo martedì 27 ottobre 2009 alle 21 presso il Centro di Incontro S.Anna di Verbania Pallanza per un incontro di letture dei testi biblici e coranici, riflessioni, preghiere e invocazioni.

Promuovono: Le Parrocchie Cattoliche di Verbania, La Chiesa Evangelica Metodista (Unione delle Chiese Evangeliche Valdesi e Metodiste), Parrocchia Ortodossa rumena di Verbania, La Comunità musulmana del verbano

Appello per la Ottava Giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico del 27 ottobre 2009

La gioia del raccontarsi la vita

Siamo tutti migranti. Non c’è essere umano che non abbia affrontato per lo meno una volta nella sua vita una migrazione da un luogo ad un altro, con tutte le difficoltà che questo comporta.
La moderna tecnologia ci pone anzi in continuo movimento ed a continuo contatto, sia reale che virtuale, con persone dalle diversissime origini, culture, religioni. La globalizzazione ci pone di fronte, molto più che nel passato, alla necessità della convivenza con persone provenienti dalle più disparate parti del nostro pianeta, l’unico che abbiamo, ognuno con il proprio carico di tradizioni, cultura, religioni, storie da raccontare.
La paura dei migranti, ed in particolare di quelli di religione islamica, che è stata instillata nella coscienza degli italiani da una campagna mediatica martellante e perversa, è quindi del tutto ingiustificata perché ci mette fuori dalla realtà del mondo attuale. Realtà con cui peraltro le moderne società dell’occidente si stanno confrontando, nonostante le ovvie fatiche, in modo positivo. L’islamofobia e l’odio razziale, così come si stanno verificando nel nostro paese, sono infatti uniche nel panorama politico e sociale europeo, dove le politiche di integrazione e di dialogo fra le persone provenienti da paesi diversi sono una pratica costante.
Ed è partendo da tali considerazioni ed in vista della prossima edizione della Giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico del 27 ottobre 2009, che proponiamo a tutte le associazioni, alle riviste culturali, alle comunità religiose cristiane e musulmane che dal 2001 stanno conducendo con noi questa esperienza, anch’essa unica nel panorama europeo, di assumere come slogan della giornata quello de “La gioia del raccontarsi la vita”.
Abbiamo bisogno di riscoprire il valore dell’incontro con gli altri, la capacità di raccontarsi e di scoprire le comuni esperienze di vita e le particolarità culturali, religiose, sociale di ogni persona. Dobbiamo superare la logica dell’homo homini lupus, che vede un pericolo in ogni persona che non appartenga al proprio “clan”, e riscoprire il prendersi cura vicendevolmente gli uni degli altri che è scritta nei libri sacri di cristiani e musulmani.
Possiamo anzi fare della ottava giornata del dialogo cristiano islamico un momento per riscoprire la dimensione del racconto che è riscontrabile in modo chiaro sia nella Bibbia sia nel Corano, libri che sono stati alimentati dallo spirito di Dio, che è passato e continua a passare di bocca in bocca, di cuore in cuore, di generazione in generazione e che solo dopo un lungo processo di trasmissione orale è stato messo su carta.
Sì, spetta ora a noi riscoprire la dimensione del racconto della propria fede. Spetta ora a noi riscoprire la gioia del raccontarci la vita, la propria cultura, le proprie tradizioni, la propria fede, i propri sogni, le proprie speranze di pace e di un mondo migliore!
Con un fraterno augurio di pace, shalom, salaam
Il Comitato organizzatore
Roma, 2 luglio 2009

06/10/2009

Ladri difesi a colpi di scudo

In Italia l’evasione fiscale è sì un reato ma alla fine è condonabile e anche premiata con il pacco dono della depenalizzazione del falso in bilancio: peggio di così!
Giovanni Arcidiacono


«Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva… Il sistema tributario è informato a criteri di progressività» (art. 53 Costituzione Italiana). Questo principio costituzionale ha formato e informato la coscienza di generazioni di docenti e professionisti che hanno operato e ancora oggi operano nei settori economici più disparati e che hanno creduto, soprattutto dopo la riforma fiscale del 1972, alla possibilità
di una significativa e duratura inversione di tendenza nel rapporto fiduciario tra cittadini e lo Stato, convinti che si potesse restituire alle generazioni future il principio della responsabilità del cittadino contribuente di fronte allo Stato nell’ambito del rapporto costi-benefici: la partita del Dare rappresentata dalle imposte prelevate dallo Stato in ragione della capacità contributiva di ciascuno e la partita dell’Avere, rappresentata dalla quantità e qualità di servizi erogati dallo Stato per il benessere della collettività.
Si è trattato di una lunga e lenta azione pedagogica e professionale orientata al superamento di una cultura fiscale che, formatasi nei secoli passati, ed essenzialmente fondata sul rapporto di sottomissione del subditus nei confronti dello Stato, aveva favorito il diffondersi di un agire illegale noto come «evasione fiscale», aggravando il bilancio dello Stato con evidenti squilibri sociali sul piano della equità fiscale e della distribuzione dei redditi.
Il primo atto di clemenza tributaria fu avviato proprio all’indomani della riforma tributaria dall’allora ministro Colombo, che avvertì la necessità di introdurre nella legislazione fiscale il concetto di «condono» nella convinzione che fosse il primo e l’ultimo, in quanto in costanza del nuovo regime tributario le entrate dello Stato sarebbero state accertate con maggior rigore al fine di garantire, migliorandolo, lo stato sociale per la collettività. Così non fu: negli anni successivi si sono susseguiti condoni e «scudi fiscali» che hanno nei fatti ostacolato significativamente l’azione di chi testardamente ha difeso, nelle varie sedi professionali, l’esigenza di una giustizia sociale equitativa.
In particolare, l’istituto dello Scudo fiscale reca in sé non solo una cultura premiante chi ha esportato capitali all’estero e/o nei cosiddetti paradisi fiscali, proteggendo patrimoni e ricchezze di provenienza spesso illegale e criminale dalla scure del fisco, ma anche una percezione culturale secondo cui l’evasione fiscale è sì un reato, ma alla fine condonabile, e, sul piano etico soprattutto, è un furto.
È difficile oggi convincere gli imprenditori, nel rapporto fiduciario professionale, che l’evasione fiscale è riconducibile a tutti gli effetti alla fattispecie del «furto», perché si concretizza la «sottrazione» di risorse allo Stato, creando una sperequazione tra le categorie sociali di sempre più vaste dimensioni, in particolare tra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi: i primi tassati alla fonte e i secondi solo su quanto dichiarato, salvo accertamenti.
Con la recente introduzione dello Scudo fiscale ter non solo si prevede l’istituzione di una minima imposta straordinaria sulle attività finanziarie e patrimoniali (5%), ma anche l’anonimato, l’assoluta certezza che nessun accertamento sarà applicato da parte dello Stato e un pacchetto «dono» composto da varie depenalizzazioni a partire dal reato di falso in bilancio. Con lo Scudo fiscale ter prende corpo e sostanza la dichiarazione dell’attuale presidente del Consiglio fatta nel 2004 secondo cui «L’evasione fiscale per chi paga il 50% di tasse è un diritto naturale che è nel cuore degli uomini e non ti fa sentire moralmente colpevole» (Berlusconi).
Oggi non è il tempo della lotta all’evasione fiscale, ma è il tempo in cui si riducono la quantità e la qualità dei servizi sociali, a partire dalla scuola: le ragioni del Dare (entrate) prevalgono sulle ragioni dell’Avere (servizi). La partita doppia di questa contabilità presenta un saldo negativo pesantissimo da sopportare per le giovani generazioni. L’abbassamento del livello complessivo del sistema scuola in Italia grida vendetta e il richiamo, per citare lo scomparso Ralf Dahrendorf, recentemente fatto dal presidente della Repubblica Napolitano è più che opportuno: «La principale ragione per istruire i cittadini non è il fatto che ciò comporta evidenti vantaggi economici per il paese, ma il principio secondo cui “ogni essere umano, dovunque sia nato e di chiunque sia figlio, deve avere l’opportunità di sviluppare i propri talenti”». È quello che dice d’altronde l’articolo 2 della nostra Costituzione, quella «legge delle leggi» che è oggetto di specifico insegnamento nelle scuole: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana», dice la nostra Carta. E tra questi ostacoli il maggiore è forse proprio quello di un insufficiente livello di istruzione».
In qualità di commissario agli esami di Stato, ho toccato con mano la gravità dell’insufficienza del sistema scolastico che premia studenti di scuole private che non studiano, non frequentano le lezioni, ma pagano profumatamente il loro «diritto all’istruzione». E allora v’è da sottolineare una saldatura tra l’evasione fiscale e l’evasione scolastica dalla scuola pubblica a favore della scuola privata: si può rubare anche il titolo di Ragioniere!
E le chiese in tutto questo processo di disgregazione sociale che ruolo hanno in Italia? Quale parola possono annunciare? E qual è la parola che non annunciano? A mio giudizio va preso sul serio il comandamento «Non rubare». Ci si deve chiedere se si può continuare a servire le istituzioni, a esempio quelle finanziarie, che sempre più sono implicate in processi di globalizzazione crescente e che partecipano a sistemi di scambio sempre più violenti e immorali. Non rubare significa anche impegnarsi nella lotta contro l’evasione fiscale perché attiene nelle democrazie avanzate alla lotta contro la povertà e alla realizzazione di una giusta distribuzione della ricchezza. Scudo fiscale e «Scudo Istruzione» sono i segni della prevalenza del criterio del rubare.
Che fare? Ci rimane quanto ci suggerisce Eric Fuchs: «la possibilità di trasgredire la falsa sacralità del denaro attraverso la rivendicazione perseverante all’onestà e alla generosità»
* docente di Economia aziendale e dottore commercialista a Bari

09/09/2009

LUINO: Mostra e conferenza su Giovanni Calvino



Mostra “Un progetto di società”

Nella ricorrenza del 500° anniversario della nascita di Giovanni Calvino (1509-1564) la Chiesa
Evangelica Metodista di Luino con il patrocinio dell’Assessorato alla cultura, espone nella Biblioteca civica di Luino una mostra preparata dal Centro Culturale di Torre Pellice dal titolo “Un progetto di società”.
La mostra è visitabile negli orari di apertura della biblioteca dal 22 settembre al 10 ottobre, ed è composta da 11 pannelli che raccontano la vita e l’opera del Riformatore di Ginevra. La mostra ha un carattere didattico perché si rivolge a soggetti esterni all’ambiente ecclesiastico e cerca di raccontare Calvino a chi non lo conosce. Si basa su un impianto storico-biografico cercando di far capire il perché ha ancora senso accostarsi oggi a questo personaggio. Le sue tematiche invitano il visitatore ad una riflessione successiva sulle realtà sociali e politiche di oggi.

Conferenza

A 500 anni dalla sua nascita fermiamoci a parlare di Calvino con coloro che ancora non lo conoscono, in modo capace di interrogarci per verificare se le sue tesi possono essere ancora valide per noi oggi oppure rivisitate. Su questa linea sarà la serata di venerdì 2 ottobre ore 21 nella Biblioteca civica di Luino con tema: “il riformatore, la sua eredità, l’attualità del suo messaggio”. Relatore: Paolo Tognina, teologo e giornalista. Riprenderemo il pensiero di Calvino sull’utilizzo del denaro, sulla predestinazione, sull’identità cristiana, sull’etica, sul lavoro, sulla overtà, e su altri temi a lui cari. La Chiesa Evangelica Metodista (Unione delle Chiese metodiste e valdesi) invita la cittadinanza a questo confronto in cui cercheremo di capire chi è questo laico, giurista ed umanista, e quanto abbia inciso nella vita religiosa, pubblica e culturale dell’epoca.