di Giorgio Tourn
Ogni anno le chiese protestanti ricordano quel 31 ottobre 1517 quando Lutero affisse le sue 95 tesi a Wittemberg, aprendo il dibattito sulle indulgenze e poi sulla riforma della chiesa. Che la chiesa debba sempre rinnovarsi per esser fedele al Vangelo di Cristo è fuori di dubbio ma di che natura è questo rinnovamento? Si tratta di un riformismo formale, di una nuova forma di vita (ri-forma), di una restaurazione della forma originaria? E in secondo luogo che posto occupa il papa in questo processo?
Il problema della riforma è antico come la chiesa stessa ed è sempre stato sempre presente, in modi più o meno espliciti, nella cristianità. La proposta più radicale e innovativa di riforma è quella che nel XVI secolo seguì la predicazione di Lutero, anche se il monaco agostiniano, nell’affiggere le sue tesi sul tema delle indulgenze e della penitenza, non pensava minimamente ad un progetto di riforma. Poneva solo un interrogativo ai teologi e agli ecclesiastici del suo tempo ma, pur non essendone pienamente consapevole (lo capì dopo), il suo era un interrogativo di fondo: quale è il potere che ha la chiesa nel comunicare la salvezza divina? E’ questa la lettura che si dà del suo gesto e le opinioni che hanno a lungo circolato su di lui: uomo immorale, interessato, fanatico ribelle, sono abbandonate dai più e anche i cattolici riconoscono che si trattò di un pensatore di grande spiritualità e fede.
E’ altresì chiaro ormai che la sua protesta contro le devianze e gli errori della chiesa non era di natura morale ma teologica. L’immoralità e l’ignoranza del clero era al tempo suo un fatto evidente e suscitava l’indignazione e le proteste di tutti i credenti, laici e chierici. Non erano però le amanti di papa Borgia a preoccupare Lutero ma il potere delle chiavi, che la chiesa rivendicava per sé, in particolare al magistero. Chi apre e chiude le porte del Regno, condanna e assolve, la parola del Vangelo o il clero? La questione delle indulgenze non si poneva solo sotto il profilo veniale di un mercato delle realtà spirituali, ma sotto quello teologico di una gestione illegittima del sacro. Con la lucidità e l’intuizione che lo caratterizzano Lutero aveva di conseguenza individuato il problema: non si tratta di purificare e moralizzare la chiesa, e forse neppure di riformarla, ma di restaurarla nella sua forma primitiva, quella che aveva in origine, quando le chiavi le aveva in mano Cristo.
Non si rese conto subito, ma gli divenne chiaro molto presto, che questo significava togliere le chiavi dalle mani dei sedicenti successori di Pietro e riportare la chiesa a prima del papato. Dal tempo della Riforma è trascorso molto tempo e la realtà del papato non è più oggi quella che era allora; Lorenzo Valla ha dimostrato la falsità della Donazione di Costantino e l’infondatezza della pretesa clericale al governo dell’Occidente, i bersaglieri italiani hanno posto fine allo Stato della Chiesa aprendo la breccia nelle mura di Roma. Immutata resta però la struttura di fondo del pensiero romano, e la bandiera pontificia, con le chiavi, continua a sventolare sul Vaticano e sulle nunziature nel mondo.
Ma dall’epoca di Lutero sono stati compiuti passi decisivi in una direzione che egli non prevedeva: sul cammino di una identificazione della chiesa con il papa. Il primo è stato compiuto al (molto più che dal) concilio di Trento, con la definitiva eliminazione dalla cattolicità di ogni ipotesi di ecclesiologia conciliare. Il tormentato cammino dei lavori di quell’assemblea, le tensioni interne, i conflitti hanno visto il progressivo accentuarsi delle decisioni nelle mani dei legati pontifici, e con umorismo si diceva che lo Spirito Santo viaggiava da Roma a Trento. Questo ha significato la trasformazione dei vescovi da pastori delle diocesi e del popolo dei credenti in funzionari di curia. Si può discutere oggi se la dottrina tridentina della giustificazione sia conciliabile o meno con le posizioni luterane, esercizio di pura retorica teologica. ma questo non intacca la rivoluzione giuridica dell’episcopato. Ma dopo Trento Roma ha proseguito il suo cammino in quella direzione e, come gli studi di Paolo Prodi hanno mostrato in modo esemplare, la Chiesa ha realizzato paradossalmente il primo Stato dell’Assolutismo moderno. Il papa re non è un’immagine retorica della polemica anticlericale, non l’ha inventata "l’Asino", il caustico giornale ottocentesco, è un dato di fatto storico. Ma il cammino della teologia papale si conclude nel Vaticano I con il dogma dell’infallibilità. Pur avendone fatto uso, e in modo molto soft, solo nel caso della proclamazione del dogma dell’Assunzione di Maria, il principio permane, affermato in termini espliciti.
In questa luce la chiesa romana del XX secolo ha assunto, rispetto a quella dei secoli precedenti, una identità molto caratteristica: si va identificando in modo sempre più forte con il pontefice. Questo non significa che abbia più potere, sia più autorità (Gregorio VII, Innocenzo III, Pio V restano fuori della norma!) ma la sua personalità diventa sempre più marcata, carismatica, senza confronto con quella dei papi che hanno preceduto Pio IX. Da Pio XII a Benedetto XVI gli uomini che siedono sul seggio di Pietro sono più e altro che l’espressione del papato, ministri che esercitano un mandato, assolvono una funzione; sono personaggi: il diplomatico e il pastore, l’artista e il professore che maneggiano le chiavi di Pietro secondo la loro visione della fede e con questa visione si identifica la chiesa del loro pontificato. E’ un caso che tutti siano in via di santificazione, anzi già santi nella coscienza popolare laddove, se non andiamo errati, bisogna risalire a metà del Cinquecento per trovare san Pio V? Come Maria è l’icona della Chiesa il papa ne è la voce, la presenza visiva, una sorta di epifania. Del tutto inutile e banale perciò cercare di inquadrarli nelle categorie di conservatore-progressista, conciliare-reazionario; da questo punto di vista il Vaticano II più che segnare il cammino della Chiesa definisce un pontificato. La generazione di Lutero e di Calvino avevano usato espressioni estremamente forti a questo riguardo, parlando del papato come dell’Anticristo, e i riformati da parte loro usavano definire i cattolici dei "papisti". Nel linguaggio oecumenical correct non si possono usare, ma è lecito chiedersi se si trattava solo di espressioni poco rispettose dell’identità romana o se piuttosto veniva individuato con questi termini il nodo fondamentale della Riforma, possibile solo con la fine del papato.
Pubblicato il 26 ottobre 2009 sul sito: http://www.chiesavaldese.org/
E’ altresì chiaro ormai che la sua protesta contro le devianze e gli errori della chiesa non era di natura morale ma teologica. L’immoralità e l’ignoranza del clero era al tempo suo un fatto evidente e suscitava l’indignazione e le proteste di tutti i credenti, laici e chierici. Non erano però le amanti di papa Borgia a preoccupare Lutero ma il potere delle chiavi, che la chiesa rivendicava per sé, in particolare al magistero. Chi apre e chiude le porte del Regno, condanna e assolve, la parola del Vangelo o il clero? La questione delle indulgenze non si poneva solo sotto il profilo veniale di un mercato delle realtà spirituali, ma sotto quello teologico di una gestione illegittima del sacro. Con la lucidità e l’intuizione che lo caratterizzano Lutero aveva di conseguenza individuato il problema: non si tratta di purificare e moralizzare la chiesa, e forse neppure di riformarla, ma di restaurarla nella sua forma primitiva, quella che aveva in origine, quando le chiavi le aveva in mano Cristo.
Non si rese conto subito, ma gli divenne chiaro molto presto, che questo significava togliere le chiavi dalle mani dei sedicenti successori di Pietro e riportare la chiesa a prima del papato. Dal tempo della Riforma è trascorso molto tempo e la realtà del papato non è più oggi quella che era allora; Lorenzo Valla ha dimostrato la falsità della Donazione di Costantino e l’infondatezza della pretesa clericale al governo dell’Occidente, i bersaglieri italiani hanno posto fine allo Stato della Chiesa aprendo la breccia nelle mura di Roma. Immutata resta però la struttura di fondo del pensiero romano, e la bandiera pontificia, con le chiavi, continua a sventolare sul Vaticano e sulle nunziature nel mondo.
Ma dall’epoca di Lutero sono stati compiuti passi decisivi in una direzione che egli non prevedeva: sul cammino di una identificazione della chiesa con il papa. Il primo è stato compiuto al (molto più che dal) concilio di Trento, con la definitiva eliminazione dalla cattolicità di ogni ipotesi di ecclesiologia conciliare. Il tormentato cammino dei lavori di quell’assemblea, le tensioni interne, i conflitti hanno visto il progressivo accentuarsi delle decisioni nelle mani dei legati pontifici, e con umorismo si diceva che lo Spirito Santo viaggiava da Roma a Trento. Questo ha significato la trasformazione dei vescovi da pastori delle diocesi e del popolo dei credenti in funzionari di curia. Si può discutere oggi se la dottrina tridentina della giustificazione sia conciliabile o meno con le posizioni luterane, esercizio di pura retorica teologica. ma questo non intacca la rivoluzione giuridica dell’episcopato. Ma dopo Trento Roma ha proseguito il suo cammino in quella direzione e, come gli studi di Paolo Prodi hanno mostrato in modo esemplare, la Chiesa ha realizzato paradossalmente il primo Stato dell’Assolutismo moderno. Il papa re non è un’immagine retorica della polemica anticlericale, non l’ha inventata "l’Asino", il caustico giornale ottocentesco, è un dato di fatto storico. Ma il cammino della teologia papale si conclude nel Vaticano I con il dogma dell’infallibilità. Pur avendone fatto uso, e in modo molto soft, solo nel caso della proclamazione del dogma dell’Assunzione di Maria, il principio permane, affermato in termini espliciti.
In questa luce la chiesa romana del XX secolo ha assunto, rispetto a quella dei secoli precedenti, una identità molto caratteristica: si va identificando in modo sempre più forte con il pontefice. Questo non significa che abbia più potere, sia più autorità (Gregorio VII, Innocenzo III, Pio V restano fuori della norma!) ma la sua personalità diventa sempre più marcata, carismatica, senza confronto con quella dei papi che hanno preceduto Pio IX. Da Pio XII a Benedetto XVI gli uomini che siedono sul seggio di Pietro sono più e altro che l’espressione del papato, ministri che esercitano un mandato, assolvono una funzione; sono personaggi: il diplomatico e il pastore, l’artista e il professore che maneggiano le chiavi di Pietro secondo la loro visione della fede e con questa visione si identifica la chiesa del loro pontificato. E’ un caso che tutti siano in via di santificazione, anzi già santi nella coscienza popolare laddove, se non andiamo errati, bisogna risalire a metà del Cinquecento per trovare san Pio V? Come Maria è l’icona della Chiesa il papa ne è la voce, la presenza visiva, una sorta di epifania. Del tutto inutile e banale perciò cercare di inquadrarli nelle categorie di conservatore-progressista, conciliare-reazionario; da questo punto di vista il Vaticano II più che segnare il cammino della Chiesa definisce un pontificato. La generazione di Lutero e di Calvino avevano usato espressioni estremamente forti a questo riguardo, parlando del papato come dell’Anticristo, e i riformati da parte loro usavano definire i cattolici dei "papisti". Nel linguaggio oecumenical correct non si possono usare, ma è lecito chiedersi se si trattava solo di espressioni poco rispettose dell’identità romana o se piuttosto veniva individuato con questi termini il nodo fondamentale della Riforma, possibile solo con la fine del papato.
Pubblicato il 26 ottobre 2009 sul sito: http://www.chiesavaldese.org/