Nelle mattine d’estate amo ancora uscire sul fare del giorno per andare incontro all’aurora, che qui, nelle distese sconfinate delle steppe di Moab, si tinge di sfumature che paiono del cuore, prima che del cielo. L’orizzonte vasto ospita i miei occhi che hanno sete d’infinito e mi porta via, verso lontananze che la mia anima ha sempre abitato. Ma insieme, quel chiarore incerto da cui lento nasce il giorno, fa riaffiorare alla memoria il ricordo di quell’altra alba: quella in cui – senza che il cuore lo desiderasse – ci separammo.
Eravamo tre donne unite da una trama segreta di muta
complicità, che d’improvviso il lutto, anziché spezzare, aveva reso più tenace:
talvolta il dolore condiviso intesse tra i cuori un laccio tanto più forte
quanto più è profonda la fragilità che gli ha dato vita. Così, noi che agli
occhi di un mondo maschile non eravamo che tre vedove che suscitavano
compassione mista a un malcelato sconcerto, eravamo in verità tre donne capaci
di vedere nelle ferite dell’anima solchi in cui gettare il seme di una vita
nuova.
Dove farla germogliare, però? In quale direzione
tracciare il sentiero che ci avrebbe restituite alla vita, mettendo ali ai
cuori prima che ai piedi? Sì: perché il desiderio che ci attraversava era
quello di osare il volo, di librarci in alto, sopra quel dolore che, per essere
lenito, doveva diventare spinta che aiuta a lasciare il nido del lutto per
spiegare le ali. Nonostante la morte avesse incrociato i nostri cammini, la
vita si dibatteva nei nostri petti come un uccello in gabbia: anche lei, come i
miei occhi, desiderosa di lontananze.
Non aveva alcuna importanza, per noi, che quella vita
non la portassimo in grembo, che non si fossero gonfiati i nostri ventri del
frutto dell’amore sponsale: altra e più profonda e ineffabile era la nostra
fecondità.
Era fatta di vento e desiderio ed era gravida di
futuro e di quell’indomita immaginazione che lo propizia e lo genera. I cuori
di tutte e tre noi erano finestre spalancate sul mare aperto delle possibilità:
e nulla, in me, lasciava presagire che quel mare potesse tramutarsi in deserto.
Fu alle prime luci di un’aurora estiva che Noemi ci
rivelò i propositi del suo cuore, animati dal desiderio o – forse – dall’ignota
necessità del ritorno: la terra che stava al di là delle steppe e da cui era
migrata tempo addietro a motivo di un’improvvisa carestia, era pronta ad
accoglierla nuovamente. O forse no: ma l’ombra proiettata sulla sua anima da
una giovinezza ormai sfiorita, la sospingeva verso i lidi da cui, un giorno
lontano, era salpata, come fanno le onde con una barca alla deriva. E così
doveva sentirsi Noemi, o così, almeno, la percepì il mio cuore: in balia di
acque che l’avrebbero ricondotta al luogo dal quale il suo viaggio aveva avuto
inizio.
Ma l’inatteso, che aveva assunto il volto mio e quello
di Ruth, si era fatto strada in lei: e al dolore del lutto si affiancava ora
quello della separazione da chi, nel suo lungo soggiorno in terra straniera,
Noemi aveva imparato ad amare. Subito, però, come acqua che zampilli incontenibile
dalla roccia, le parole varcarono la soglia delle labbra, e Ruth ed io
lasciammo che il sentimento affiorasse e parlasse per noi a una sola voce:
«Non ti lasceremo, Noemi: verremo con te.
Affronteremo, come hai fatto tu, l’ignoto che si cela dietro una terra
straniera: più forte del timore è l’affetto che ci lega a te, il laccio che
l’amore ha intessuto nel segreto e che adesso è impossibile sciogliere senza
avvertire un dolore che ci scuote nell’intimo».
Ma lei, con la saggezza che portano gli anni, ci
rispose:
«Figlie mie, nulla vi attende, con me, dietro
l’infinita distesa della steppa. Nulla ho da promettervi, nulla da offrirvi:
volgete indietro cuore e passi e lasciate che io faccia ritorno da sola al
luogo che lasciai con il cuore ricolmo di incertezze e di una disperazione
muta. Vi farò ritorno senza mio marito e senza i due figli che portai con me:
lasciate che la solitudine mi sia compagna. Già troppa è stata la sventura di
cui, senza volere, ho caricato i vostri giovani cuori».
Insistemmo, però, sia Ruth che io: l’unica sventura ci
sembrava dover recidere quel laccio tenace e delicato. Infine, ci abbandonò la
parola, che sempre si dirada negli istanti in cui il senso, che si affaccia
muto, la eccede: e si impossessò di noi il pianto, che filtrò, annacquandola,
la luce – come me incerta – di quell’alba. Fu questo il nostro affranto,
silente saluto. Nell’ultimo ricordo che il cuore trattiene delle amate, le vidi
allontanarsi insieme. Io mi volsi indietro, il cuore gonfio di una pena che sino
a oggi – come una fitta avvertita nell’intimo – non mi abbandona. E quella
solitudine che Noemi aveva evocata, fu alla fine mia compagna e non sua.
Ho udito che il suo popolo narra ancora di noi: a me,
destinata in questa storia all’oblio, è giunta voce che abbiano posto il nome
“Orpa” che, nella loro lingua, evoca il gesto di voltare le spalle.
Ma ho udito anche del loro Dio, un Dio che sa leggere,
si dice, nel segreto dei cuori: ed Egli sa quanto dolore abbia pervaso quegli
ultimi istanti e quanto spesso, ancora, esso riaffiori.
Quando ciò accade, vengo qui, su questa soglia sospesa
tra luce e ombra che è anche la mia anima: e consegno all’alba, dietro il cui
chiarore intravedo il volto del Dio che scruta i cuori, la mia storia mai
narrata e il mio vero nome: Orfìa, “colei il cui sguardo abita le lontananze”.
Lì – udita da quel Dio soltanto, al cui petto mi stringo – comprendo di non
aver mai voltato le spalle a un amore che, come i miei occhi, varca
l’orizzonte, attraversa le steppe mute del dolore e, tingendosi dei colori
tenui dell’aurora, vibra e rivive ogni giorno in me.
Alessandro Esposito