"6 Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino. 7 L'empio abbandoni la sua via e l'uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona." (Isaia 55, 6-7)
Isaia viene spesso definito, e a ragione, “il sommo dei profeti” di Israele. Ma ancor più, forse, sarebbe giusto
chiamarlo “il sommo dei poeti”: pochi sono infatti coloro che hanno trovato parole come le sue per parlare,
parlarci, di Dio. Isaia, da buon poeta, sa che a Dio si addicono assai più le immagini che non i concetti: perché
un'immagine dipinge, non definisce, allude, non stabilisce, rimanda, non rinchiude. Isaia dipinge Dio, perché gli
interessa che il suo volto si imprima nei cuori più che nelle menti di chi ascolta: poiché nel cuore più che nella
mente, secondo la tradizione ebraica di cui Isaia è figlio, si realizza un'autentica comprensione.
Nel primo appello che ci rivolge, Isaia ci chiede di “cercare il Signore”: perché la fede altro non è che ricerca,
costante, interminabile. A Dio non si approda mai definitivamente, di Dio si va in cerca, ogni giorno. La lingua
ebraica possiede un termine per indicare questa attitudine di inesausto domandare: darash, la cui radice significa
proprio cercare. Per questo la tradizione ebraica è convinta che la comprensione di ogni passo biblico richieda un
midrash, ovverosia un’interpretazione, la quale, propriamente, è un andare in cerca di significati inediti, che
incoraggiano a svolgere di testi considerati noti una lettura sempre nuova: non esiste un senso stabilito, ma un
fiorire di sensi, che sbocciano soltanto sotto i passi di chi ne va in cerca.
Ma c’è di più: darash, in lingua ebraica, significa anche pregare: perché la preghiera, in verità, non affiora sulle
labbra di chi crede di aver trovato Dio, ma su quelle di chi rimane in cerca di Lui, di Lei. La preghiera è atto di
fede, soltanto nella misura in cui credere significa continuare a cercare, a interrogarsi, a camminare. Mai, infatti, si
è distanti da Dio come quando si crede di averlo trovato; perché Dio non si trova: Dio, soltanto, si lascia trovare. E
non dove noi vorremmo, ma dove vuole Lui. È Lui a farsi vicino e a chiederci un'attenzione che si riveli capace di
percepirne la presenza, per poi farle spazio. È Dio a venire: a noi Isaia chiede di essere in grado di accoglierlo.
Quella che Dio ci rivolge attraverso le parole del suo poeta Isaia è un'esplicita esortazione ad andare oltre noi stessi,
oltre la nostra presunzione di autosufficienza, oltre i confini delle nostre convinzioni, di ciò che ci illudiamo di aver
compreso. Dio ci chiama ad essere chiesa a partire da Lui e da Lui soltanto, liberandoci così dalla prospettiva di
una realtà modellata secondo i nostri parametri. Dio è sempre oltre, sempre altrove. Proprio per questo, quindi,
come abbiamo detto, sempre da cercare. E ci chiama a farlo insieme, consapevoli del fatto che nessuno può, né
potrà mai, possederlo. Dio, infatti, resta un orizzonte verso il quale dirigere i nostri sguardi e spiegare le nostre
vele. Il Dio biblico ci chiama, insieme, a dipingere il Suo volto, perché esso possa arricchirsi dei colori dell'altro,
delle tonalità e delle sfumature che i nostri sguardi ignorano e che l'altro, soltanto, ci può insegnare a percepire.
Pastore Alessandro Esposito
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