di Alessandro Esposito, pastore valdese
Quella di mercoledì 25 settembre 2019 è destinata a diventare una data
storica, sia sotto il profilo giuridico che sotto l’aspetto ad esso
strettamente collegato di un’etica finalmente affrancatasi da direttive
moralistiche: la Consulta ha difatti approvato, motivandola in maniera
ineccepibile, la liceità del ricorso al suicidio assistito in caso di
irreversibilità di una malattia cronica o degenerativa giunta al suo stadio
terminale. Naturalmente, come la stessa Consulta ha opportunamente
sottolineato, vige ancora in materia un vuoto legislativo che spetterà al
Parlamento colmare.
Da Oltretevere, naturalmente, non hanno tardato a far pervenire un parere
di cui, credo, il mondo laico non avvertiva la necessità: il cardinale Giovanni
Angelo Becciu, accodandosi in questo al parere della Conferenza Episcopale
Italiana, ha inteso esprimere il proprio “sconcerto” (sic!) dinanzi a questa
decisione del supremo organo giurisdizionale italiano. Naturalmente, il
dibattito non viene portato sull’unico terreno legittimo, quello giuridico,
bensì trasposto su quello in cui da sempre sguazzano porporati e benpensanti,
quello di una morale che scade in becero e saccente moralismo.
Le ragioni invocate (sempre che così le si possa definire) sono sempre
quelle di un’astratta “difesa della vita”, intesa alla stregua di un principio
e non di una concreta esistenza che, in determinate circostanze, può assumere i
connotati tragici dell’assenza di dignità, rispetto alla quale ciascuno è
chiamato a tracciare i personali ed insindacabili limiti. Dal Vaticano, invece,
giungono dichiarazioni che falsano completamente la realtà, attribuendo, a chi
ha portato avanti una battaglia per l’estensione di un diritto, una volontà di
morte che è semplicemente falsa e che viene messa al centro di un impianto
accusatorio dal sapore inquisitoriale che non sta in piedi in alcun modo.
L’auspicio, che sta via via trasformandosi in pia illusione in chi scrive,
è che il mondo cattolico si ribelli e incominci a sdoganarsi da un principio
d’autorità la cui imposizione dovrebbe indignare quante e quanti ne vengono
fatti oggetto da parte di un’istituzione retriva e dispotica, che di fronte al
dissenso, specie se argomentato, adotta, di volta in volta, la tecnica della
diffamazione o quella dell’insabbiamento. Le ingerenze reiterate operate dalle
gerarchie cattoliche nei confronti delle distinte istituzioni stanti a
fondamento della democrazia parlamentare sono inaccettabili e andrebbero
accolte con la medesima indifferenza che le autorità vaticane destinano alle
istanze che promuovono lo sviluppo di un pensiero adulto e responsabile perché
laico.
Lo
stesso cardinale Becciu, in un’intervista rilasciata al quotidiano La
Repubblica, fa appello alla possibilità richiamata da alcuni medici
cattolici di fare ricorso all’obiezione di coscienza: ci sarebbe da ridere se
non ci fosse da piangere, pensando al fatto che chi ha l’ardire di richiamarsi
alla coscienza è il rappresentante di un’istituzione che la coscienza l’ha
sempre svilita, ostacolandone l’insorgere, perseguitandone la libertà ed
impedendone l’esercizio. Il Vaticano, in tutta onestà, la coscienza non sa
nemmeno dove stia di casa: che ci risparmi, almeno, il triste spettacolo di
richiamare in vita un termine che entro i ristretti perimetri del proprio austero
dogmatismo esso ha sempre bandito e lasci che ad utilizzarlo sia quell’universo
laico grazie al quale, soltanto, è stato possibile compiere qualche passo in
direzione di una più profonda comprensione della dignità umana.
(26 settembre 2019)
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