Diceva poi questa
parabola: «Un tale aveva piantato un fico nella sua vigna e venne a cercarne il
frutto e non lo trovò. Disse allora al vignaiolo: “Ecco: da tre anni vengo a
cercare frutto presso questo fico e non ne trovo. Taglialo, dunque: perché
sfrutta inutilmente la terra”. Quegli, allora, rispondendo gli dice: “Signore,
lascialo anche quest’anno, di modo che io possa scavargli intorno e spargere
concime: chissà che non porti frutto in futuro. Altrimenti, lo taglierai”» (Lc
13:6-9)
A differenza dei dotti
teologi di ogni tempo, Gesù aveva il dono di saper parlare ai semplici senza
rinunciare alla profondità, dimostrando, in questo modo, una stima ed un
rispetto autentici nei confronti di quante e quanti non avevano avuto accesso
all’istruzione, ma che non per questo erano privi di cultura. Provenendo dalle
campagne della Galilea, infatti, Gesù sapeva bene, a differenza di noi, che
cultura e coltivazione sono non soltanto termini, ma anche pratiche
strettamente imparentate: per questo credeva fermamente nella cultura contadina
e la preferiva di gran lunga al vaniloquio dei dottori della legge, istruiti
ma, spesso, per nulla colti e persino aridi. Muovendosi per i villaggi rurali
della sua terra, Gesù ne incontrava la gente, umile, vessata, sovente disprezzata
da latifondisti che, quasi senza eccezione, risiedevano nelle città e inviavano
periodicamente qualcuno a riscuotere il frutto del lavoro altrui. Gesù, nel suo
annuncio itinerante, snobba volutamente i centri cittadini, dove gli scaltri
politici di oggi suggerirebbero di dirigersi se l’obiettivo è quello di
diffondere un messaggio: ma ciò che Gesù ha da dire si sposa assai meglio con
gli spazi, fisici e mentali, della campagna e della sua gente, che accoglie la
novità con prudenza, ma senza diffidenza e preconcetto.
A queste donne e
questi uomini semplici e dall’intelligenza pronta, Gesù si rivolge con un
linguaggio chiaro e senza fronzoli, che egli utilizza per coinvolgere i suoi
interlocutori e mai per abbindolarli. Gesù plasma l’annuncio di Dio per le
orecchie e, ancor prima, per i cuori di braccianti e contadine: tutto ciò che
gli preme è che possano intendere, che abbiano accesso ad un mondo che,
normalmente, è loro precluso dagli «addetti ai lavori», dottori della legge e teologi di
professione. Il maestro di Nazaret viene ad annunciare un Dio dai piedi scalzi,
che con parole semplici calca i sentieri impolverati della disprezzata Galilea:
tutte e tutti possono udire la Sua
voce e comprendere ciò che dice; nessuno è considerato inetto, ignorante, analfabeta.
Gesù presenta loro un Dio che parla una lingua semplice e chiara, priva di
formule incomprensibili e di concetti astrusi: un Dio contadino, come loro
schietto, diretto, informale. Gesù lo rende una figura finalmente vicina,
confidenziale, a portata di mano: e lo fa calandolo nel movimento vivo di un
racconto, facendogli recitare un ruolo, portandolo dalla distanza del cielo
alla quotidiana concretezza della terra,
dagli spazi angusti del tempio ai confini aperti
della campagna. Così, con semplicità e leggerezza, Gesù mette in scena la
relazione tra Dio e noi donne e noi uomini, coniando quei racconti che sono
noti come parabole, storie
all’interno delle quali chi ascolta viene necessariamente coinvolto e da
semplice uditore diviene, improvvisamente, protagonista.
Ogni parabola di Gesù nasce da una situazione
concreta; quella del nostro racconto è rappresentata da un dialogo che ha per
oggetto il tema, delicato e controverso, della conversione: parola, oggi più che mai, abusata, che richiama alla mente
costrizioni e violenze.
Ma nel suo uso originario, tanto in lingua ebraica
come in lingua greca, questo termine evoca il cambiamento concreto della
direzione dei propri passi e la trasformazione profonda del proprio modo di
pensare: questo soltanto, per Gesù, è il senso autentico di ogni conversione
che, come tale, non può mai nascere dall’imposizione ma soltanto dall’intimo
convincimento. Ed è proprio questa convinzione personale ciò che le parabole
raccontate da Gesù vogliono sollecitare e trasformare, nel pieno rispetto della
libertà di chi ascolta. Gesù si limita ad offrire un’opportunità di riflessione:
desidera uditrici ed uditori intelligenti, non ossequiosi; crede che la fede
sia questione di comprensione profonda, non di sottomissione della coscienza.
Così, attraverso narrazioni che fanno del coinvolgimento il cuore del loro
fascino, Gesù invita i semplici che lo ascoltano a rialzare la testa e a
fidarsi di quell’intelligenza che posseggono, sebbene le autorità politiche e
religiose la disprezzino poiché, in ultima analisi, la temono. A queste donne e
a questi uomini restituiti alla piena dignità della loro intelligenza, Gesù
narra la parabola che abbiamo ascoltata.
Il primo a comparire sulla scena è il proprietario
della vigna che, tra le viti del suo terreno, aveva piantato un fico, allo
scopo, naturalmente, che quest’albero portasse frutto. Da tre anni, però, dice
il nostro racconto, quest’uomo si avvicina all’albero e ne constata la
sterilità. Di una pianta ornamentale, però, il padrone della vigna sembra
proprio che non abbia che farsene: a suo giudizio quel fico non fa che occupare
inutilmente il terreno. Di più: sfrutta a vuoto la terra, ovvero,
letteralmente, fa ciò che compie ogni sfruttatore:
rende senza frutti un terreno potenzialmente fruttifero, lo impoverisce e vive
alle sue spalle.
Si tratta, in fin dei conti, di una sorta di
parassita: si nutre della terra sottostante e non produce nulla. Il parallelo
con la realtà delle nostre società dell’opulenza è estremamente calzante: quasi
tutti noi abitanti del cosiddetto «primo mondo» conduciamo, in fin dei conti,
un’esistenza parassitaria, che si alimenta in eccesso sottraendo ad altre vite
l’essenziale, senza che, peraltro, la cosa provochi scandalo o indignazione. Ma
l’immagine di Gesù vale anche sotto l’aspetto personale: la sterilità che si
nasconde dietro l’apparente rigogliosità delle nostre vite è la fonte più
nascosta di un malessere strisciante, di un’insoddisfazione dilagante. Il
frutto è l’immagine di ciò attraverso cui ciascuno, ciascuna di noi è in grado
di nutrire chi gli sta accanto o le si fa incontro: e constatare la nostra
aridità è fonte inevitabile di delusione e frustrazione. Per noi, certamente,
ma anche per quel Dio che ci vorrebbe feconde e fruttiferi.
Dietro l’immagine del proprietario della vigna,
difatti, si adombra quella di un Dio, come noi, deluso, che di fronte alla
constatazione di una sterilità prolungata e avvilente, conclude sconsolato: qui
non resta altro da fare che tagliare. Del resto, è ciò che farebbe ogni
contadino assennato: e gli uditori di Gesù lo sanno bene, tanto che non
rimprovererebbero nulla ad un padrone che ragionasse in questi termini e
chiedesse loro, con tutto il diritto, di recidere un albero infruttuoso. Ma
ecco che avviene l’inatteso: il vignaiolo, colui che ogni giorno ha lavorato il
terreno godendo della vista di quell’albero e, probabilmente, della sua ombra
ristoratrice nell’arsura estiva, chiede una proroga: «Un anno soltanto», dice. E
non si tratterà di un tempo durante il quale lui resterà a guardare che cosa
succederà: no, si rimboccherà le maniche.
Scaverà tutt’intorno al fico, farà tutto il
possibile per smuovere il terreno dove affondano le sue radici, lo concimerà:
gli dedicherà tempo, cure, amore, che è disposto a sottrarre alla cura della
vigna, purché quell’albero all’apparenza inutile possa continuare a vivere. Un
anno soltanto: una richiesta che fa appello alla clemenza del proprietario, che
intende smuoverne il cuore attraverso l’amore che lega chi lavora la terra alla
pianta che gli offre riparo dalla pioggia e ristoro durante la canicola. Il
contadino farà di tutto perché quel fico amato torni a portare frutto: ma sa
che il suo sforzo e il suo compito si esauriscono nelle cure date con amore e
senza risparmiarsi. La certezza di una nuova fecondità non gli è data: l’albero
dovrà fare la sua parte, dimostrarsi sensibile a quell’affaccendarsi premuroso
intorno alle sue radici. Anche l’amore, unico rimedio efficace alla sterilità,
va accolto, avvertito, sostenuto: da solo, persino lui, è incapace di
restituire alla vita, di preparare la nuova fioritura.
Gesù vuole credere nella nostra capacità di portare
frutto: stempera persino il pessimismo di un Dio sconsolato di fronte alla
nostra persistente aridità; chiede ancora del tempo, quel bene così prezioso
che ci sfugge come sabbia tra le dita e che stoltamente ci illudiamo che sia
infinito.
Di più: al padrone della vigna rivolge parole
chiarissime: «Se poi questo frutto non dovesse arrivare, allora potrai tagliare l’albero: ma dovrai farlo
Tu – sembra dirgli – da me non aspettarti che lo faccia».
Gesù non conosce la logica dell’ultima spiaggia: è
sempre disposto ad offrire una nuova opportunità, a dare fiducia oltre ogni
limite ragionevole, a concedere ancora del tempo, anche quando di tempo, ormai,
sembra non essercene più.
«Aspetta ancora un poco», chiede per noi Gesù al
Padre: crede fermamente che la nostra sterilità possa mutare in fioritura. Se sapremo
sentire la premura delle sue mani che smuovono la terra intorno alle nostre
radici, se avvertiremo la loro carezza fiduciosa, ciò che giaceva spento nei
nostri tronchi secchi tornerà a germogliare, nuova linfa riprenderà a
percorrere i nostri rami nudi, rivestendoli di foglie e Dio raccoglierà,
insieme con noi, i frutti maturi e dolci del nostro tornare ad essere, proprio
come Gesù, l’instancabile vignaiolo, pienamente umani.
[Intra, Domenica della Riforma 2019
- Pastore Alessandro Esposito]
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