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25/03/2017

Testo della predicazione tenuto ad Omegna dal Pastore Alessandro Esposito, Domenica 19 marzo, durante il suo insediamento nelle comunità di Omegna ed Intra


Il 71mo volto (Esodo 32, 1-4)

«Il popolo, vedendo che Mosè tardava a scendere dal monte, si affollò intorno ad Aronne e gli disse: “Facci un Dio che cammini alla nostra testa, perché a quel Mosè, l'uomo che ci ha fatti uscire dal Paese d'Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto”. Aronne rispose loro: “Togliete i pendenti d'oro che hanno agli orecchi le vostre mogli e le vostre figlie e portateli a me”. Tutto il popolo tolse i pendenti che ciascuno aveva agli orecchi e li portò ad Aronne. Egli li ricevette dalle loro mani, li fece fondere in una forma e ne ottenne un vitello di metallo fuso. Allora dissero: “Ecco il tuo dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dal Paese d'Egitto” »
(Esodo 32:1-4)


Vi sono episodi narrati dai testi biblici che vantano una fama che li precede: racconti di cui tutte e tutti, persino chi è estraneo a qualsiasi contesto religioso, abbiamo comunque almeno un lontano ricordo. Paradossalmente, però, sono proprio questi i testi che siamo invitate ed invitati a penetrare più in profondità, contro le presunte evidenze dei nostri ricordi vaghi e delle interpretazioni che solitamente ci hanno proposte. Rispetto ad un testo noto o ritenuto tale, la prima operazione da effettuare è quella di tralasciare per un momento tutta una serie di letture che ne abbiamo ascoltate: è necessario, prima di tutto, restituire verginità all'ascolto, darci una “lavata d'orecchi” che ci permetta di saper cogliere la novità dentro ciò che crediamo di conoscere già e che spesso giace sepolto dall'abitudine. Proviamo quindi per qualche istante a osservare meglio un paesaggio conosciuto per coglierne quei particolari che spesso ci sfuggono quando riteniamo che il luogo ci sia del tutto familiare. Esploriamo il già noto cercando di scoprirvi quell'ignoto che sempre vi si cela.
Israele sta vagando ormai da tempo in un deserto che è stato causa di lamentele, perplessità, malcontento. Ora anche quell'uomo che ha condotto il popolo fuori da una terra di schiavitù è improvvisamente scomparso: è salito su un monte e non ha più fatto ritorno. Era stato lui, quel Mosè, in fondo, a generare dubbi e mormorio: ora si è eclissato, è scomparso. Per cui l'occasione sembra quanto mai propizia.


Il popolo si rivolge quindi ad Aronne, fratello di Mosè, specialista, a quanto ci è dato di capire, di “questioni cultuali”. La richiesta è chiara ed estremamente significativa: “Facci un Dio”. Ovverosia: costruiscicelo, assemblalo, vedi un po' cosa puoi fare. Un Dio, infatti, lo si può edificare e una cultura qual è la nostra dovrebbe saperlo perfettamente. E Aronne, da buon sacerdote, mediatore del sacro, non si tira indietro di fronte alla proposta: al contrario, si presta al gioco e impartisce direttive concrete per mettere in atto una proposta che pare allettarlo. Dà così il via alla costruzione di ciò che più facilmente può essere confuso con Dio: l'idolo, vero e proprio Dio capovolto, tanto più ingannevole quanto più riesce ad assomigliare a Dio, o, per meglio dire, all'idea che ce ne siamo fatta e che, spesso, non è altro che la proiezione di un desiderio. Non è certo un caso che una delle espressioni latine per indicare l'avversario di Dio, colui che a Dio si contrappone, sia simia dei: ovvero, colui che è simile a Dio; letteralmente potremmo tradurlo: “la scimmia di Dio”, colui che lo scimmiotta, lo imita e che trae in inganno in virtù della sua somiglianza con Dio, non della sua differenza rispetto a Lui. Travestito da Dio fino al punto di far credere di essere Dio: un Dio a misura d'uomo e delle sue, delle nostre aspettative, un Dio manipolabile, a servizio di, conforme a.
Idolo, invece, è parola che proviene dal greco eidos, che, propriamente, significa “volto”, “aspetto”, “immagine”: insomma, “ciò che si vede” e che, una volta visto, permette l'identificazione. L'idolo è il volto inconfondibile di Dio, ciò che permette di dire: “Eccolo qua, è lui”. È identificazione piena, assoluta, senza riserve: è quel che si può vedere, niente di più, nulla al di là. È corrispondenza perfetta ad un'immagine, quella che ne ho io, solitamente: una sorta di documento d'identità rilasciato a Dio da chi presume di conoscerlo in un modo determinato e, si capisce, unico e adeguato. È la verità come assoluto, come evidenza. È la perenne tentazione dogmatica di definire Dio, di costringere l'altro, l'altra, a riconoscerlo nell'identikit che io ne fornisco. È il ribaltamento del racconto di Genesi: da un essere umano ad immagine di Dio ad un Dio ad immagine nostra, conforme alle nostre proiezioni e, quel che è peggio, ai nostri interessi. Il problema però non risiede tanto nel farsi un'immagine di Dio, cosa in parte inevitabile quando, in qualche modo, ne facciamo esperienza: il problema è, piuttosto, far coincidere Dio con quest'immagine, convincersi del fatto che anche l'altro, l'altra, che abbiano incontrato Dio, debbano conferirgli le stesse sembianze che noi gli abbiamo assegnate. Una tradizione rabbinica insegna che delle Scritture, che raccontano di Dio, è possibile individuare settanta sensi, numero che simboleggia quella completezza che è sempre figlia della pluralità, di una differenza positiva e insopprimibile. L'esortazione rabbinica, però, non è quella di esaurire questi settanta sensi, enumerandoli l'uno accanto all'altro: l'invito, piuttosto, è quello di esplorare ed aggiungere un “settantunesimo senso”, quello che ciascuno è chiamato a portare alla luce, quello che a Dio ancora manca.
Ho trovato assai belle le parole che il filosofo ebreo Emanuel Levinas propone alla nostra riflessione, commentando questa efficace immagine rabbinica del “settantunesimo senso”:


Tutto si svolge come se la molteplicità delle persone (...) fosse la condizione della pienezza della verità, come se ogni persona, con la sua unicità, assicurasse alla rivelazione un aspetto unico della verità: come se alcuni frammenti di questa verità non si sarebbero mai potuti rivelare nel caso in cui queste persone non fossero mai nate
(Tratto da: LEVINAS, E. La rivelazione nella tradizione ebraica, in: L'aldilà del versetto, Napoli, 1986)


Sfuggire all'idolatria significa rinunciare al possesso di Dio, che è l'eterna tentazione a cui ogni fede è inevitabilmente esposta: significa essere ancora capaci di lasciarci sorprendere da Dio, di scorgerlo laddove non immaginavamo di vederlo, là dove Lui, Lei, decide di lasciarsi incontrare.


Aronne, abbiamo visto, asseconda il desiderio del popolo di avere un'immagine di Dio chiara e disponibile, che poi è proprio quanto Dio aveva espressamente vietato al popolo nel primo dei dieci comandamenti. Proseguendo, il testo ci dice che quest'immagine è quella di un vitello. “Vitello”, in lingua ebraica, si dice 'egel. Mosso da curiosità, ho cercato di scavare nella direzione suggeritami da questa parola: non mi soddisfacevano, infatti, le spiegazioni tradizionali che si possono ricavare dalla maggior parte dei “commentari” al libro dell'Esodo.


Così, sono andato a cercare questo termine sul dizionario ebraico-italiano. Ora, in ebraico le uniche lettere di una parola che vengono scritte sono le consonanti: nel caso della nostra parola, 'egel, la g la l (più una lieve aspirazione ad inizio parola). Queste stesse consonanti, combinate con altre vocali, danno vita alla parola 'agol, che si scrive, dunque, allo stesso modo e che significa “cerchio, rotondo”. Ho trovato che si trattasse di una coincidenza interessante per due motivi.


Anzitutto il cerchio è rappresentazione di qualcosa di chiuso, di completo: immagine di perfezione, di qualcosa a cui non è possibile aggiungere nulla. L'idolo non è altro che Dio racchiuso nel cerchio di una determinata comprensione che si crede corretta ed esauriente. L'idolo scambiato con Dio sta dentro il cerchio e lì soltanto e l'ampiezza della sua circonferenza la stabilisce ciascuno attraverso le proprie convinzioni. Tutto ciò che non può esservi contenuto, circoscritto, resta fuori. L'idolo racchiude Dio in orizzonti di presunta certezza, in recinti dove sia possibile, in qualche modo, “addomesticarlo”. “Religione”, non a caso, viene da re-ligio: letteralmente “relegare”, confinare Dio entro i cortili del sacro, di modo da poterne, all’occasione, disporre. Questo è stato spesso l'obiettivo degli uomini e dei sistemi religiosi: imprigionare Dio dentro gli steccati di un sistema ritenuto non modificabile soltanto perché reso chiuso, impermeabile alle novità, alle scoperte a cui può portare l'incontro con Lui, con Lei. Quello che è possibile sperimentare nella relazione con Dio non è altro che uno dei Suoi volti che non è il volto, l’unico che Dio possegga, ma appena un frammento che Dio ha deciso di mostrare di Sé a quanti ne sono andati in cerca e che devono, ogni volta di nuovo, tornare a cercarlo.
Ma circolare, per tornare alla nostra parola ‘agol e provare a scavarne quel significato che trovo curioso ed interessante, è anche il cammino di chiunque si disponga a sostituire Dio con l'idolo: costui cammina in tondo, finisce per girare intorno a quel sé che è poi l'unico vero idolo per ciascuno. Seguire l'idolo, quindi, significa rimanere prigioniere e prigionieri di sé, edificare le mura della propria prigione, erigere le pareti che determinano, poi, la nostra insoddisfazione. Seguire l'idolo significa rimanere in quel deserto in cui lo si adora, senza che un cammino autentico sia in grado di portarcene fuori. Servire l'idolo, in definitiva, significa essere i carcerieri di noi stessi, non osare lo smarrimento, non avere il coraggio di sbandare dietro a Dio, per afferrarsi a una sicurezza che non tarderà a rivelarsi illusoria, ingannatrice.

Il Dio biblico, al contrario, ci propone il decentramento, la relazione come alternativa al cammino che finisce per farci avvitare su se noi stesse, su noi stessi.  Si tratta dell’invito che ci viene rivolto a scoprire ogni giorno, di Dio, un volto nuovo, che è quello che può esserci rivelato dall'incontro e dall'ascolto dell'altra, dell'altro. In ebraico, volto si dice panim ed è, assai significativamente, un plurale; più precisamente, si tratta di una forma di plurale del tutto particolare che viene definito duale, perché viene utilizzato per quelle situazioni che coinvolgono due soli soggetti, due sole persone. Per avere un volto dunque, ci insegna l’ebraico, bisogna essere in due: ognuno possiede un volto, infatti, soltanto quando sta di fronte a un'altra, a un altro, che, letteralmente, gliene fa dono. Funziona così per tutti. Anche per Dio: che in ciascuna, in ciascuno di noi, desidera soltanto specchiare quel settantunesimo volto che, di Sé, ancora, non ha rivelato.  

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