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29/03/2020

DOMENICA 29 MARZO – 5ª DEL TEMPO DI PASSIONE - JUDICA



Buon giorno e buona domenica a tutte e tutti, ci stiamo avvicinando alla Pasqua e questa di oggi è l’ultima domenica della Passione prima della Domenica delle Palme, questa domenica è denominata “Judica” il cui significato è preso dal Salmo 43 versetto 1 che dice così: “Fammi giustizia, o Dio, difendi la mia causa contro gente malvagia; liberami dall’uomo falso e malvagio”.  Per questa domenica ho pensato anche su consiglio del lezionario di far dono a tutte e tutti voi del testo biblico e del Sermone tratto da Matteo capitolo 20 i versetti che vanno dal 17 al 28, auguro a tutte e tutti voi una buona lettura con l’augurio che tutto questo possa entrarci nei nostri cuori  per confermarci in ogni opera buona e in ogni buona parola.

Matteo 20, 17 – 28

17
 Poi Gesù, mentre saliva verso Gerusalemme, prese da parte i dodici; e strada facendo, disse loro: 18 «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell'uomo sarà dato nelle mani dei capi dei sacerdoti e degli scribi; essi lo condanneranno a morte 19 e lo consegneranno ai pagani perché sia schernito, flagellato e crocifisso; e il terzo giorno risusciterà». 20 Allora la madre dei figli di Zebedeo si avvicinò a Gesù con i suoi figli, prostrandosi per fargli una richiesta. 21 Ed egli le domandò: «Che vuoi?» Ella gli disse: «Di' che questi miei due figli siedano l'uno alla tua destra e l'altro alla tua sinistra, nel tuo regno». 22 Gesù rispose: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete voi bere il calice che io sto per bere?» Essi gli dissero: «Sì, lo possiamo». 23 Egli disse loro: «Voi certo berrete il mio calice; ma quanto al sedersi alla mia destra e alla mia sinistra, non sta a me concederlo, ma sarà dato a quelli per cui è stato preparato dal Padre mio». 24 I dieci, udito ciò, furono indignati contro i due fratelli. 25 Ma Gesù, chiamatili a sé, disse: «Voi sapete che i prìncipi delle nazioni le signoreggiano e che i grandi le sottomettono al loro dominio. 26 Ma non è così tra di voi: anzi, chiunque vorrà essere grande tra di voi, sarà vostro servitore; 27 e chiunque tra di voi vorrà essere primo, sarà vostro servo; 28 appunto come il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito ma per servire e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti».




Questo…sarà l’ultimo viaggio di Gesù verso Gerusalemme insieme ai discepoli.

Altre due volte Gesù ha parlato ai suoi discepoli di quello che l’attende: “la cattura, l’esplosione dell’odio, le percosse, gli oltraggi e la morte sulla croce”. L’ha fatto per far sì che la tempesta di violenza e di sangue che sta per scatenarsi su di lui e perciò di conseguenza anche su coloro che sono i suoi seguaci, non abbia a scoraggiarli totalmente, e soprattutto l’ha fatto per il motivo che, quando ogni cosa si sarà compiuta, capiscano che lui, Gesù, non è stato la vittima di un fallimento irreparabile, ma che tutto quello che sta per avvenire sarà il frutto della sua obbedienza alla volontà del Padre; sarà, per così dire, lo sbocco conclusivo del progetto divino per la salvezza d’Israele e del mondo, e che “i capi dei sacerdoti e gli scribi” i quali metteranno le mani su di lui, saranno gli strumenti inconsapevoli di quel progetto che Dio porterà avanti ben al di là e al di sopra di ogni malvagità e ribellione umana, e, anzi, proprio servendosi di esse.
 Ma proprio perché qui c’è Dio in azione, la morte che Gesù dovrà subire non pronuncerà la parola “fine” sulla sua storia. Ecco il perché di quella strana e straordinaria aggiunta che egli ha fatto seguire alla parola sulla sua uccisione: il terzo giorno risusciterà”
 Siccome nella nostra esistenza terrena di creature, l’ultima parola è sempre invece quella della morte, i discepoli non riescono a comprendere cosa mai voglia dire quell’aggiunta, non afferrano il senso di quello strano verbo “risusciterà”. E poiché quello che non comprendi tendi ad accantonarlo, i discepoli s’arrestano nei loro pensieri alla cattura, ai dolori, alla morte che attendono il maestro. Non vanno oltre. E l’angoscia ricolma il loro cuore e chiude le loro bocche: non riescono a domandare spiegazioni, né su quello che non hanno capito, né su quello che invece hanno capito forse anche troppo bene: “Temevano” – così Marco ci descrive i discepoli dopo il secondo annuncio di passione – “d’interrogarlo” (Mc 9, 32).
 Certo, c’è qui un’enorme differenza tra l’impressione di forza e di coraggio che viene a noi dalla visione di Gesù che va incontro alla sua croce, e di quelli che lo seguono in preda allo sgomento. Però, vorrei difendere quei poveri discepoli impauriti. E li vorrei difendere proprio perché, nonostante i presagi di morte e nonostante il loro turbamento, sono ancora “discepoli”: continuano a seguire Gesù. Non lo abbandonano, né lo lasciano solo nel suo “salire verso Gerusalemme”. Verrà poi per loro il momento in cui la paura prenderà il sopravvento e allora, nel Getsemani, fuggiranno via tutti e lasceranno solo Gesù: lui e i suoi aguzzini. E sarà la passione.
 Qui però…ancora “reggono”; per il motivo che, l’amore nei confronti di Gesù vince la loro angoscia. E vanno avanti.
 Perciò, non disprezziamoli, come ogni volta siamo tentati di fare davanti a queste pagine. Proviamo invece a chiederci. “Noi, al posto loro, come ci saremmo comportati? Saremmo andati avanti, o piuttosto avremmo rinunciato a seguire Gesù sulla sua via?”.

Davvero…domandiamocelo…e forse apprezzeremo quei discepoli, pur nella loro paura, ma in qualche modo anche coraggiosi.

 Gesù, lui, li ha apprezzati. Ha accolto come un dono quel loro andare avanti assieme a lui, pur col cuore in tumulto. Ed ancora una volta, s’è chinato su loro, ed ha tentato di mettere in loro quel coraggio che avrebbero voluto avere, e invece non avevano: “Prese di nuovo da parte i dodici, e cominciò a dir loro: “Noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà dato nelle mani dei capi dei sacerdoti e degli scribi. Essi lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, i quali lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e l’uccideranno, ma (è lo straordinario “ma” che introduce ancora una volta l’annuncio della sconfitta della morte) dopo tre giorni egli risusciterà”.
 E stavolta, qualcuno afferra il senso di speranza e vittoria di quel “risusciterà”. Lo fa in maniera goffa, un poco comprendendo e un poco no; e…in maniera sbagliata, lasciandosi coinvolgere in un gioco di potere, ma comunque lo fa…e questi sono i due “figli di Zebedeo”, che insieme alla loro madre s’avvicinano a Gesù, e la madre chiede: Di' che questi miei due figli siedano l'uno alla tua destra e l'altro alla tua sinistra, nel tuo regno”.
 Ho detto: “un poco comprendendo e un poco no”. Perché, se ”Giacomo e Giovanni” hanno giustamente intuito che la via di Gesù è una via di vittoria, questa intuizione li porta ad ignorare tutto ciò che precede il “tre giorni dopo risusciterà”. Per loro, adesso tutto è solo “gloria”! E a questa gloria vogliono aver parte al massimo livello: direttamente al fianco di Gesù!
 “Voi non sapete quello che chiedete”, è l’amara risposta di Gesù. Sì, come Pietro, di fronte al primo annunzio della passione, s’era messo a rimproverare Gesù, meritandosi l’appellativo “Satana”, perché anche lui sognava solo gloria, così qui i due fratelli deludono Gesù. Vedete? Pietro, Giacomo, Giovanni. I tre “prediletti” del Signore, quelli che aveva voluto accanto a sé sul monte della Trasfigurazione… anche loro fraintendono il Maestro, perché amano il trionfo, la vittoria, la gloria… perché amano il successo, come tutti…
 Ma il successo è qualcosa che ti abbaglia. Così, malgrado il duro rimprovero di Gesù a Pietro; malgrado il suo continuo insegnamento a rinunciare a se stessi e prendere la croce; malgrado i suoi rimproveri ogni volta che i discepoli si sono messi a disputare su chi tra loro fosse il più grande; malgrado il suo triplice annunzio di passione e di morte, Giacomo e Giovanni fantasticano sulla sua e sulla loro gloria prossima ventura, e tramano per ottenere posizioni di privilegio.
 A questo punto, Gesù non li rimprovera nemmeno…a cosa servirebbe? ...cerca piuttosto di orientare il loro attaccamento a lui, verso la verità. Ecco il senso della sua strana domanda: “Potete voi bere il calice che io sto per bere?”, che significa: “Per giungere alla gloria a cui voi due pensate, è necessario che io beva il calice della mia passione e che sia immerso nella morte. Siete voi in grado di condividere con me questo percorso?”.
 E alla risposta subito positiva – ma forse non riflessa – dei due impetuosi “figli di Zebedeo”, Gesù ricorda loro che la via di dolore e di gloria che li attende, non è quella di chi cerca il successo “a tutti i costi”. La via di Gesù non è il percorso di chi cova ambizioni per sé stesso, ma è, dall’inizio alla fine, sottomissione alla volontà di Dio.

Giacomo e Giovanni potranno un giorno percorrere questa strada solo perché sarà loro concesso dalla grazia divina di dimenticare se stessi per vivere e morire nell’obbedienza a Dio. Senza cercare posti privilegiati o seggi da occupare, per questo Gesù disse loro: “Voi certo berrete il mio calice; ma quanto al sedersi alla mia destra e alla mia sinistra, non sta a me concederlo, ma sarà dato a quelli per cui è stato preparato dal Padre mio”.
 “Quelli per i cui è stato preparato dal Padre mio”, ebbene, coloro a cui Dio darà di sedere alla destra e alla sinistra di Gesù saranno i due ladroni che saranno appesi al patibolo accanto a lui sul Golgota. Proprio così: Gesù diverrà re, ma il suo trono sarà la croce e la sua corona sarà di “rami spinosi di acanto”. E chi vorrà trovarsi accanto a lui, dovrà anch’egli stare appeso a una croce. Perché Dio agisce così, “chiunque vorrà essere grande tra di voi, sarà vostro servitore; e chiunque tra di voi vorrà essere primo, sarà vostro servo”, come vedete, le sue vie sono diverse dalle nostre vie!  
   Ma con Gesù sulla via per Gerusalemme non c’erano soltanto Giacomo e Giovanni. C’erano anche gli altri dieci discepoli. E la domanda dei due fratelli non è passata inosservata. E accade quello che non può non accadere: I dieci, udito ciò, furono indignati contro i due fratelli”.
 Certo, questa indignazione può dare l’impressione di una giusta reazione contro le ambizioni dei figli di Zebedeo, ma noi ormai li conosciamo bene tutti quanti, quei dodici discepoli, e abbiamo più di un motivo per sospettare che la loro giusta collera, in realtà nasca dall’ambizione di chi vorrebbe per sé i due posti privilegiati desiderati dai fratelli.
 E quel che Gesù fa, subito dopo, ci fa pensare che il nostro sospetto sia giustificato: “Voi sapete che i prìncipi delle nazioni le signoreggiano e che i grandi le sottomettono al loro dominio. Ma non è così tra di voi: anzi, chiunque vorrà essere grande tra di voi, sarà vostro servitore; e chiunque tra di voi vorrà essere primo, sarà vostro servo; appunto come il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito ma per servire e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti” …  Con queste parole, Gesù vuol dire a loro: “Da tanto tempo ormai siete con me. Sapete che ‘gli uccelli del cielo hanno i loro nidi, le volpi le loro tane, ma io non ho dove poggiare il capo’; che ho voluto essere “il povero tra i poveri”, ma non vi siete accordati alla mia musica. Voi danzate ancora secondo le melodie del mondo, vi lasciate ammaliare dal canto delle sirene del potere. ‘Ma non è così tra di voi!’. Tra di voi, i miei discepoli, non può essere così! Il mio stile di vita non è questo e non può essere neanche il vostro, sotto pena di non essere più miei: “Chiunque vorrà essere grande fra voi, sarà vostro servitore; e chiunque, tra di voi, vorrà essere primo, sarà servo di tutti. Poiché (è l’affermazione che chiude in modo splendido il racconto) anche il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti”.                                           
Davvero una grande affermazione. Che ci dice chi è Gesù per noi: è il nostro redentore, che ha pagato “il riscatto” per la nostra libertà. E l’ha fatto a caro prezzo: a prezzo della vita! Ed il solo motivo per cui ha dato la vita è il suo amore per noi.
 Nella Prima lettera di Giovanni, tutto questo, e le sue conseguenze per noi, sono meravigliosamente esplicitati: “Da questo abbiamo conosciuto l’amore: egli ha dato la sua vita per noi. Anche noi dobbiamo dare la vita per i nostri fratelli … Carissimi, se Dio ci ha tanto amati, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1 Gv 3, 16. 4, 11). Noi non possiamo, come Gesù, redimere né gli altri né noi stessi, ma se davvero vogliamo seguirlo, se vogliamo essere davvero i suoi discepoli, siamo chiamati a dare la nostra vita per gli altri, come ha fatto lui.
 Ho citato la Prima lettera di Giovanni, la cui lettera, molti studiosi affermano che non è stata scritta dal fratello di Giacomo, ma da un altro Giovanni, invece…mi piacerebbe pensare…oggi…che l’autore di queste parole sia proprio lui, Giovanni…figlio di Zebedeo. Perché vorrebbe dire che ha compreso la grande lezione di Gesù. E soprattutto, perché vorrebbe dire che, come lui è cresciuto e cambiato alla scuola del Maestro, come anche noi possiamo crescere nella comprensione del Signore, cambiare idee e cambiare stile di vita!

 Detto questo vorrei porvi due attente valutazioni.

La prima riguarda il discorso sempre difficile del potere. Un discorso particolarmente difficile per noi cristiani che leggiamo queste righe, perché ci verrebbe comodo, e, in questi tempi di un “Atteggiamento critico e ostile nei confronti di privilegi di ogni natura”, anche facile metterci a criticare un po’ tutti i potenti, dagli uomini politici non solo così privilegiati ma per giunta così spesso anche corrotti, ai supermanager dagli stipendi e dalle pensioni d’oro, ai big della finanza con le loro speculazioni milionarie e chi più ne ha più ne metta… E però c’è il piccolo particolare che qui Gesù non sta parlando a loro né di loro. Gesù sa che, da sempre, chi è riuscito ad arrivare ad una posizione comunque di dominio se la tiene ben stretta e la sfrutta finché può… sa che le cose sono andate, vanno e andranno così, perché questo è il gioco del potere. L’abbiamo ascoltato: “Voi sapete che quelli che son reputati principi delle nazioni le signoreggiano e che i loro grandi le sottomettono al loro dominio”. Il mondo funziona così, e c’è soltanto da prenderne atto.
 Ma, ed è questo che interessa a Gesù (e allora ci accorgiamo di come questo discorso ci tocchi direttamente), se il mondo funziona così, così non può funzionare la sua chiesa: “Ma non è così tra di voi (non “non può essere così”, né “non deve essere così”, e neanche “non sarà così tra di voi”… qui c’è un presente davvero impressionante, che elimina ogni possibile scappatoia o rinvio della cosa: “tra voi non è così”! “anzi” – continua Gesù – chiunque vorrà essere grande fra voi, sarà vostro servitore; e chiunque, tra di voi, vorrà essere primo, sarà servo di tutti”.

Nella chiesa non può esserci ambizione, né protagonismo, né ricerca dei primi posti… non c’è nessuno che possa pensare di essere necessario ed insostituibile, perché l’unico che è davvero insostituibile ce lo dice parlando di sé stesso Gesù: “Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti”.

Gesù è venuto a servire veramente, non a esercitare e a prolungare il suo potere con la scusa del servizio. Quando il progetto di Dio per lui è arrivato al compimento ed è venuta la sua ora, “ha dato la sua vita”, e anche dopo la sua risurrezione ha incontrato i suoi discepoli per rinforzarli e donar loro lo spirito d’amore e di sapienza necessario per renderli i suoi apostoli, dopo di che è ritornato al Padre affidando a loro la cura della chiesa…questo è il motivo per cui gli apostoli, andavano, predicavano, fondavano una chiesa e poi andavano altrove per annunciare altrove l’evangelo. Sempre in viaggio… sempre in servizio e al servizio… mai amministratori né gerarchi… ed anche noi dobbiamo stare attenti a non fare del nostro servizio nella comunità, di qualsiasi tipo sia, una ipocrisia che mascheri la detenzione di un potere…

 L’ultima valutazione.
 Per noi oggi, cadere nella tentazione di deplorare i suoi primi discepoli è una cosa che dovremmo evitare, perché – come ho già detto prima – hanno almeno avuto il coraggio di continuare ad andare dietro a lui nonostante siano stati tanto perspicaci da capire che stava per accadere qualcosa di terribile.
 Ebbene, troppo spesso invece, l’evangelo che noi oggi annunciamo lo viviamo e lo presentiamo come privo del benché minimo rischio. Troppo spesso viviamo il nostro essere cristiani come una tranquilla condizione di rispettabilità ed invece come ci è stato detto a chiare lettere oggi, seguire Gesù, è qualcosa che, solo se intuisci che vuol dire, ti fa tremare e ti turba nel profondo, ed è tutto meno che una modalità di realizzarti come essere umano stimato e di successo. Perché seguire le orme di Gesù deve essere “abnegazione”, cioè “negazione di se stesso in favore degli altri” o “nobile martirio”…in quanto…c’è una parola, nell’annuncio che Gesù ha fatto ai suoi discepoli che riguarda quello che lo attende, su cui noi spesso non ci soffermiamo, perché forse è la più spiacevole e più scomoda: “Noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà dato nelle mani dei capi dei sacerdoti e degli scribi. Essi lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, i quali lo scherniranno

Il cammino che Gesù deve percorrere, presuppone anche lo “scherno.

Per questo voglio ricordare quello che si diceva dei primi valdesi.
 “Nudi, seguono un Cristo nudo”. 
 E non a caso, questa frase così bella, è stata scritta da un canonico mentre li stava deridendo per la loro impreparazione teologica: “Vogliono predicare, insegnare agli altri, e sono dei veri e propri asini!”. 
 Gesù non è stato rispettato e non possiamo esserlo neanche noi. Ricordiamo quell’altra sua parola: “Guai a voi, quando tutti gli uomini diranno bene di voi!”. Non è una condizione estrema o un paradosso, ma è – o dovrebbe essere – la nostra normale condizione di seguaci di Gesù.
 Di fronte a tutto questo, cosa dire? La reazione più spontanea è quella che già non pochi dei suoi hanno avuto al tempo del Signore. È scritto nel vangelo di Giovanni che “molti dei suoi discepoli, dopo aver udito, dissero: “Questo parlare è duro; chi lo può ascoltare?”. E poi l’evangelista nota: “Da allora molti si tirarono indietro e non andarono più con lui”.
 Sì, è davvero “duro” ascoltare Gesù quando dice certe cose… è difficile… e pressoché impossibile… Ma è così. Giovanni, poi, va avanti e ci dice che “Gesù disse ai dodici: – Forse volete andarvene anche voi?” e che “Simon Pietro gli rispose: – Signore, da chi andremmo? Tu hai parole di vita eterna, e noi abbiamo creduto e abbiamo conosciuto che tu sei il Santo di Dio”.

Parole dure, impossibili… ma le parole del “Santo di Dio” che “è venuto per servire e per dare la vita come prezzo di riscatto per molti”. Noi abbiamo ricevuto la grazia di “credere e conoscere” Gesù. Ci dia il Signore di superare le nostre paure e i nostri turbamenti, e di perseverare dietro a lui sulla via che sale a Gerusalemme: sarà schernito, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e l’uccideranno, ma dopo tre giorni egli risusciterà”, e noi, un giorno, risorgeremo assieme a lui.

AMEN

Signore, donaci di vivere la nostra fede come una Tua chiamata personale, per seguirti sui sentieri che Tu ci vorrai mostrare, giorno dopo giorno, facci sentire la Tua presenza nel difficile cammino della vita, affinchè non ci scoraggiamo mai, soprattutto in questi giorni difficili sii vicino a tutti i malati che si trovano a casa o negli ospedali e vicino a tutti coloro che li curano affinchè possano trovare sollievo. Amen

22/03/2020

LA PAROLA CHE CI CONSOLA


Carissime amiche e amici, oggi è la 4ª Domenica del Tempo della passione, la quale segna il punto che sta a metà strada del nostro cammino verso la Pasqua, questa 4ª domenica ha un nome specifico che deriva dal Latino: “Laetare”, che significa “rallegratevi” o “gioite” come ci viene indicato dal Profeta Isaia che dice: “Gioite con Gerusalemme ed esultate a motivo di lei, voi tutti che l’amate!”
Dopo questa breve Invocazione del Profeta Isaia vi invito a leggere la Parola di Dio che quest’oggi viene tratta dal Vangelo di Matteo, capitolo 22, versetti da 34 a 40 e poi a leggere il Sermone tratto da questo passo biblico. 
"Che il Signore possa far nostre e far comprendere queste parole di quest’oggi". Amen

Matteo 22, 34 – 40
Il gran comandamento
34 I farisei, udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si radunarono; 35 e uno di loro, dottore della legge, gli domandò, per metterlo alla prova: 36 «Maestro, qual è, nella legge, il gran comandamento?» 37 Gesù gli disse: «"Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente". 38 Questo è il grande e il primo comandamento. 39 Il secondo, simile a questo, è: "Ama il tuo prossimo come te stesso". 40 Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti».


Abbiamo letto come è nato questo colloquio e questa sintonia: lo scriba ha assistito ai confronti fra Gesù e coloro che volevano “metterlo alla prova”. Ed è rimasto via via più ammirato dalla tranquilla forza con cui ha di volta in volta rigettato i tentativi dei suoi avversari di “coglierlo in fallo” fino a smascherare la loro falsità. E quando più nessuno osa fargli domande, gliene fa una lui. Ma questa volta è una domanda vera, sincera, di chi vuole imparare da un maestro che stima.
È il tipo di domanda che veniva rivolto ad un Rabbi da chi voleva conoscere il cuore, la quintessenza, del suo pensiero e della sua impostazione di fede: “Cosa è per te davvero importante nella legge di Dio?”. È questo infatti il senso della richiesta dello scriba a Gesù – “Qual è il più importante di tutti i comandamenti?” – che dà il via al loro dialogo.
E Gesù non gli dà risposte strane… particolari… eccentriche… gli risponde citando la preghiera dello Shema’, quell’”Ascolta, Israele” di Deuteronomio 6 che ogni ebreo devoto ripeteva la mattina e la sera, come la benedizione che apriva e chiudeva la giornata.
E così, innanzi tutto, afferma, in piena concordanza con la sua ebraicità, l’unicità di Dio.
Ed insieme afferma anche che il rapporto con l’unico Signore di Israele è un rapporto d’amore. Un amore totale ed esclusivo. L’abbiamo letto: Gesù ripete allo scriba quello che del resto lo scriba sa già molto bene: che Dio vuole da te che tu lo ami “con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutta la mente tua e con tutta la forza tua”. Si, se vuoi amare il Signore lo devi amare con tutto te stesso: l’amore vero ama una cosa sola… richiede la totalità del cuore e della mente, l’integrità di tutta la persona.
Ma questo amore che Dio esige per sé, così integrale da sembrare che non lasci spazio a nessun altro amore, invece vuole altri amori, e così diventa poi per te impulso, spinta, forza ad amare gli altri.
Ecco perché, come secondo grande comandamento accanto al primo, ed in pratica quasi fuso con lui a formare una sola realtà, Gesù cita allo scriba un altro testo anch’esso molto noto, Levitico 19: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”.
Qui non si tratta di solo sentimento, né tanto meno di sentimentalismo. Una cosa che è chiara ed evidente, per Israele come per Gesù, è che l’amore per Dio e per il prossimo non può essere soltanto questione di “parole né di lingua”, ma dev’essere concreto, vissuto “con i fatti e nella verità” (cfr 1 Giovanni 3, 18). Non a caso, nel testo del Levitico, il comandamento dell’amore del prossimo è circondato da una serie di esempi su come amare “coi fatti” chi ci è accanto; valga per tutti la bellissima norma della spigolatura: “Quando mieterete la raccolta della vostra terra, non mieterai fino all’ultimo angolo il tuo campo, e non raccoglierai ciò che resta da spigolare della tua raccolta; nella tua vigna non coglierai i grappoli rimasti, né raccoglierai gli acini caduti; li lascerai per il povero e per lo straniero. Io sono il Signore vostro Dio” (Levitico 19, 9-10)
Ma nelle citazioni di Gesù in risposta allo scriba non c’è soltanto l’amore verso Dio e quello verso il prossimo. C’è un terzo tipo di amore, la cui presenza spesso non cogliamo, e che pure è importante. È l’amore verso “se stessi”: “Ama il tuo prossimo” – così infatti dice il libro del Levitico – “come te stesso”. Per amare correttamente il mio prossimo, devo prima amare correttamente me stesso.
Dicevo che noi spesso non cogliamo la presenza di questo terzo tipo di amore. Forse anche perché una lunga tradizione ecclesiastica ci ha insegnato a non coglierlo… ad esempio, c’è Calvino (e debbo dire che la cosa non sorprende…) il quale afferma chiaramente che qui non si tratta affatto di una parola che ci invita ad amarci: l’amore di sé non può mai essere giusto o positivo, e soprattutto, “noi ci amiamo sin troppo” per accordare altro spazio all’amore di noi stessi. Ma non solo Calvino. Anche il grande teologo riformato del Novecento Karl Barth sostiene a proposito della norma del Levitico, che “mai Dio penserebbe di soffiare su questo fuoco, che già divampa a sufficienza”.
Forse però è vero che non sta a noi e, pur con tutto il rispetto, nemmeno a Karl Barth, stabilire ciò che Dio “penserebbe” o “non penserebbe”…
Per dire la verità, con tutto il rispetto per questi grandi nomi, a me invece sembra proprio che noi dobbiamo prendere sul serio questa parola che ci chiama ad “amare il prossimo come noi stessi”, non fosse altro perché quest’amore di noi stessi è la condizione ed è il modello necessario e indispensabile dell’amore per gli altri.
Innanzi tutto, è la condizione: “se non ti vuoi almeno un po’ di bene, se non ti accetti così come sei fatto, non puoi nemmeno pensare di volere bene e di accettare gli altri…. è una realtà psicologica fondamentale…”
E poi, l’amore di noi stessi è anche un modello: “noi cioè dobbiamo amare gli altri nel medesimo modo in cui amiamo noi stessi quando sappiamo amarci, dobbiamo cioè essere tolleranti nei loro confronti, trovare tempo per loro, e nutrire per loro interesse e simpatia… desiderare profondamente il bene degli altri come lo desideriamo per noi stessi”.
Alla fin fine poi, si tratta di vivere la cosiddetta “regola d’oro” del sermone sul monte: “Tutte le cose che voi volete che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro; perché questa è la legge ed i profeti” (Matteo 7, 12).

Ecco allora: amore di Dio, amore del prossimo, e un giusto amore di sé stessi come condizione e modello dell’amore per gli altri. Questo è il contenuto dei due “grandi comandamenti” che Gesù cita allo scriba rispondendo alla sua domanda su quello che per lui è essenziale nel rapporto con Dio nella vita di fede.
E lo scriba concorda pienamente: “Bene, Maestro!” – così reagisce con entusiasmo a quello che ha ascoltato: “Tu hai detto secondo verità, che vi è un solo Dio e che all’infuori di lui non ce n’è alcun altro; e che amarlo con tutto il cuore, con tutto l’intelletto, con tutta la forza, e amare il prossimo come sé stesso, è molto più di tutti gli olocausti e i sacrifici”.
Davvero un grande entusiasmo, che porta questo esperto della Bibbia a andare anche oltre le parole stesse di Gesù. E così proprio lui, il teologo “ufficiale” che fa parte dell’ambiente religioso gravitante attorno al tempio di Gerusalemme, non esita ad affermare – come abbiamo appena riletto – che vivere l’amore è “molto più” importante di tutto il sistema dei sacrifici in vigore nel tempio.
E Gesù, da parte sua, lo approva anche lui con calore e gli rivolge una parola di riconoscimento che è anche quasi un invito a mettersi alla sua sequela. È la parola che abbiamo ricordato già all’inizio: “Tu non sei lontano dal regno di Dio”.
Il colloquio tra Gesù e questo studioso delle Scritture, che ha risposto all’insegnamento del Signore al tempo stesso con sapienza ed entusiasmo, si chiude però proprio con questa frase, e noi allora non sappiamo se lo scriba sia diventato un discepolo di quel regno di Dio da cui non è lontano… non sappiamo cioè se abbia seguito Gesù o non l’abbia seguito… Probabilmente non l’ha seguito, perché altrimenti l’evangelista l’avrebbe raccontato…
Quest’uomo, allora, ammira Gesù ed è lodato da lui, tuttavia… comprensione e ammirazione non fanno di lui un discepolo… potremmo anche dire: non fanno di lui un cristiano…come lo sono stati i primi quattro discepoli, Levi il pubblicano e poi tanti altri, via via fino al cieco risanato Bartimeo, anche questo scriba avrebbe dovuto fare il passo essenziale delle fede: avrebbe dovuto seguire Gesù…
E seguire Gesù significa dare tutto ciò che si ha, come farà – nella pagina che segue il nostro racconto – la “povera vedova” che “ha messo nella cassa delle offerte… tutto ciò che possedeva, tutto quanto aveva per vivere” (cfr Marco 12, 41); come farà a sua volta – subito dopo la vedova – Gesù stesso, che darà la sua vita per amore di Dio e per amore nostro…

Cosa facciamo noi, sorelle e fratelli?
Diamo tutto per seguire Gesù o…come probabilmente ha fatto quello scriba, ci limitiamo ad ascoltarlo perché parla bene e ci piace sentirlo, ma poi tutto rimane, appunto, al livello di un gradevole ascolto e, al massimo, di una bella esperienza spirituale, senza però che questo cambi la nostra esistenza?
Sebbene in questi ultimi tempi siamo tutti diventati più modesti riguardo alla nostra centralità su questa terra e siamo sempre di più i grandi referenti di noi stessi… sempre più al centro della nostra stessa attenzione,
anche noi che ci definiamo e che siamo credenti, non esitiamo ad usare la Bibbia, e sovente Dio stesso, come mezzi per la nostra realizzazione… strumenti per raggiungere quel benessere psichico che desideriamo o per realizzare quei fini morali che, per una varietà di motivi, riteniamo essere buoni.
In questa atmosfera così autoreferenziale, le parole del nostro testo di Matteo 22 sono come uno squillo di tromba, ci esortano ad un’altra visione delle cose: dobbiamo mettere Dio al primo posto così da amare Dio con tutto noi stessi e poi l’amore per il prossimo come per noi stessi… la vera vita e la vera fede… tutto consiste in questa verità.
In questa prospettiva, capite bene che la nostra fede non può più essere solo questione di ritagli di tempo e di riti cui prender parte ogni tanto per farci stare meglio con noi stessi… l’evangelo non è la New Age… né io posso più essere il centro del mio vivere.
Questo breve testo, d’altra parte, è una grande sfida lanciata contro i fondamenti stessi della nostra cultura occidentale che, appunto, mette l’essere umano al centro dell’universo.
Una sfida trascinante, non solo perché è stata Gesù a lanciarla: abbiamo visto come, ogni elemento della sfida lanciata o, meglio, “ripresa” da Gesù – fosse in realtà già presente nelle Scritture di Israele… questa sfida è semmai trascinante, perché Gesù l’ha messa in pratica.
In tutto il vangelo di Matteo, e soprattutto nel racconto della Passione che leggeremo ormai tra non molti d giorni nel nostro culto del Venerdì santo, Gesù ci è presentato come colui che davvero “ama Dio con tutto se stesso”, e “ama il suo prossimo” (tutti noi) “come se stesso”.
Ma allora, la risposta alla grande domanda: “Che cos’è veramente l’amore?”, ebbene, questa parola va cercata e trovata nella storia di Gesù così come i vangeli la raccontano, è una storia molto dura: è l’amore che si traduce in atti concreti: “cioè l’amore si fa fragile, si espone… l’amore quand’è vero si fa dono di sé…”
Questa sfida ci turba, perché nessuno di noi è all’altezza del criterio d’amore di Israele e di Gesù: “Amare Dio con tutto noi stessi” e “Amare il prossimo come noi stessi” è una visione della vita troppo elevata per noi, alla quale non sappiamo fare fronte. Soprattutto se Gesù e la sua croce fossero un esempio di come dovremmo amare… ci resterebbe solo la rinuncia, e la disperazione… Guai a fare della passione un’esigenza morale!
Se però noi vediamo nella croce di Gesù il meraviglioso dono che Dio ci ha fatto…cioè…credere che Gesù è veramente il nostro salvatore e lodare Dio per questo, allora possiamo sopportare di udire, e anzi le ascoltiamo con gioia, le sue parole sul “grande comandamento”…
E tuttavia la croce, lungi dal cancellare il comandamento dell’amore, lo rafforza, perché – la Bibbia ce l’ha detto nel Cantico dei cantici: “l’amore chiama amore”.
E come risponderemo…a Gesù che per amore ha dato per noi la sua vita?
L’indicazione per la risposta giusta la conosciamo già, Gesù e quello scriba sconosciuto, oggi ce l’hanno ricordata una volta di più: “Ascolta, Israele: Il Signore, nostro Dio, è l’unico Signore: Ama dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutta la mente tua, e con tutta la forza tua; e Ama il tuo prossimo come te stesso. Non c’è nessun altro comandamento maggiore di questi”.
Vedete che stupenda catena d’amore? Dio che ci ha amati al punto da aver messo al mondo ognuno di noi come un suo desiderio e un suo progetto, tiene poi tanto a noi da chiederci di amarlo al di sopra di ogni cosa… e proprio l’esperienza che facciamo d’essere i partner dell’amore di Dio… proprio questo ci dice che noi siamo importanti… che non possiamo in alcun modo disprezzarci né svilirci… che ci dobbiamo amare ed apprezzare… noi stessi e tutti gli altri…
Davvero in Dio che “è amore” (cfr 1 Giovanni 4,8), tutto è amore.
Oggi è la domenica “laetare”, è cioè la domenica che al cuore di questo austero tempo di passione, ci invita a essere lieti. Alla luce di quanto abbiamo udito lo possiamo davvero!
Per questa gioia, per il sorriso che ci è stato donato, ringraziamo il Signore.
AMEN

Benedizione
La benedizione di Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, sia con tutti noi,
con i nostri cari, con ogni creatura che invoca il suo nome e con tutte e tutti coloro che in questo momento stanno soffrendo a causa del COVID-19.
Amen.


15/03/2020

Un pensiero tratto dal vangelo di Luca 9, 57-62


domenica 15 marzo 2020, 3ª DEL TEMPO DI PASSIONE – OCULI – (I miei occhi sono sempre rivolti al Signore – Salmo 25:15)

 Mentre camminavano per la via, qualcuno gli disse: «Io ti seguirò dovunque andrai». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno delle tane e gli uccelli del cielo dei nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».
A un altro disse: «Seguimi». Ed egli rispose: «Permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Ma Gesù gli disse: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; ma tu va’ ad annunziare il regno di Dio».
Un altro ancora gli disse: «Ti seguirò, Signore, ma lasciami prima salutare quelli di casa mia». Ma Gesù gli disse: «Nessuno che abbia messo la mano all’aratro e poi volga lo sguardo indietro, è adatto per il regno di Dio».”

Quel che Gesù risponde a questi suoi potenziali tre discepoli è a prima vista, quasi insopportabile. Non abbiamo forse tutti l’umanissimo bisogno di poggiare ogni tanto il nostro capo da qualche parte? Non abbiamo il diritto di onorare i nostri morti? Non siamo responsabili nei confronti dei nostri congiunti e degli amici, sicché non li possiamo piantare in asso senza nemmeno dire loro addio?
Io penso che qui Gesù non risponda a queste legittime questioni, perché abborda un altro tema, ci pone lui una sola e medesima domanda: come dobbiamo impostare la nostra relazione con lui e, attraverso lui, con Dio? I “candidati discepoli” del nostro testo hanno tutti e tre il desiderio di seguire Gesù, di vivere con lui. Questo è già qualche cosa, e anzi è già molto, ma non è sufficiente. Per due motivi: anzitutto, perché la loro volontà deve ancora far passare questo desiderio dalla formulazione alla realizzazione, dalle parole ai fatti; poi perché la loro intelligenza deve ancora comprendere cosa in realtà significhi questo sogno di seguire Gesù nel concreto della sua esigenza e della sua promessa: cosa vuol dire “odiare padre e madre”, e che vuol dire: “ricevere in cambio cento volte tanto”?
Ed è a questo livello che le considerazioni e le risposte “dure” di Gesù si lasciano comprendere: presentate agli aspiranti discepoli, al tempo stesso ben intenzionati e però anche esitanti, sono, proprio nella loro durezza, dei segnali d’amore. Se tu mi vuoi “seguire” – dice Gesù al primo dei tre – devi essere in grado di vivere un’esistenza cristiana adulta, priva di quelle protezioni materne tanto desiderate ma anche tanto bloccanti; tu – dice invece al secondo – devi mirare a una vita di fede che sia una rottura pensata e vissuta col passato, con le tradizioni, con tutto ciò che tuo padre rappresenta; poi al terzo propone una sequela che sappia dire addio ad ogni nostalgia, e sappia rifiutare un’anima divisa, per metà volta avanti e metà volta indietro al luogo degli affetti familiari. E tutto questo, senza benefici immediati. Al contrario per seguirlo sulla via della croce…
E tuttavia – è la verità che il testo suggerisce – la strada della croce Gesù l’ha percorsa nel mondo, dai sentieri polverosi della Galilea fino all’altura del Golgota, ed è nel mondo che ci chiama a seguirlo. La vita cristiana non passa accanto alla vita, ma è novità di vita. E Gesù ci ha promesso che, una volta afferrati nella sequela, potremo ridefinire “da cristiani” tutte le nostre relazioni umane: con le persone che ci sono care, con il nostro passato e col nostro presente. E lo faremo nella libertà: non ameremo più i nostri parenti perché “i parenti vanno amati”. Li ameremo in Cristo, con una nuova freschezza e un nuovo slancio… una nuova lucidità. Li riavremo di nuovo e li riavremo nuovi, come un dono di Dio.
Se lo leggiamo bene… se guardiamo a Gesù con l’occhio giusto, questo testo risplende della medesima gioia di vivere e dello stesso premuroso amore della lode esultante che Gesù innalzerà a suo Padre quando, dopo essere andati “ad annunziare il regno di Dio”, “settanta discepoli” che egli aveva inviato a predicare (tra i quali è bello pensare ci fossero anche questi nostri tre anonimi amici) ritorneranno a lui lieti per il successo della loro missione: “Io ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così ti è piaciuto!” (Luca 10, 21).     R.M.                                 

10/03/2020

Alle mie comunità - Domenica 8 Marzo 2020 - Alessandro Esposito


«Fa’ che io possa conoscere, o Dio, il mio limite e la misura dei miei giorni: toccherò con mano quanto io sia fragile» (Salmo 39:5)

Smarriti, destabilizzate: attraversati nell’intimo dall’inatteso che, improvviso e indesiderato, è venuto a turbare una serenità soltanto apparente, che non ha tardato a mostrare il suo lato d’ombra, sotto il cui velo si celava un’angoscia antica come noi, che si può esorcizzare per un tempo, ma mai estinguere, poiché la portiamo tatuata nelle viscere, impressa in quell’intimità che siamo soliti disertare ma che poi, inevitabilmente, affiora in superficie. E proprio lì, in superficie, siamo ormai trascinati da un’abitudine irriflessa a condurre le nostre vite, segnate da un intorpidimento che chiamiamo tranquillità e che al primo accenno di brezza rivela tutta la sua illusorietà.
L’instabilità, la precarietà, sono il tratto distintivo della nostra esistenza; le vite che conduciamo ci portano a stornare il pensiero da questa verità, non certo a cambiarla: raccontando a noi stesse, a noi stessi, una storia che non è, cerchiamo di metterci al riparo dall’inesorabile, salvo, poi, precipitare nel baratro non appena le prime nubi si addensano all’orizzonte, minacciando una quiete che credevamo immutabile.
Quella del salmista è una voce che giunge da un’umanità identica alla nostra nella sua fragilità, ma profondamente diversa riguardo alla consapevolezza di quell’effimero di cui noi, pur essendo parte, vagheggiamo una stolta e vana dimenticanza.
La richiesta contenuta in queste parole è quella di una coscienza del limite, di quella misura che noi abbiamo avventatamente tramutato in smisuratezza: per questo crediamo di conoscere, quando, in verità, ci sfugge l’essenziale, per il semplice fatto che abbiamo «perso ogni misura». Ce ne dà testimonianza l’ansia incontrollata e malcelata che, prima che dalle strade, emerge dagli sguardi, dai non detti come dalle parole che sfuggono, dallo sgomento che assale una civiltà, la nostra, che era persuasa di avere tutto sotto controllo, certa che le tempeste potessero abbattersi solamente sulle vite degli altri, distanti, ignote, indifferenti.
Per il salmista, invece, conoscere significa «toccare con mano»: è un sapere esperienziale, il suo, che si confronta con i chiaroscuri di un’esistenza il cui senso ci sfugge continuamente, proprio perché eccede la misura, sempre troppo piccola, del nostro sapere, che soltanto la nostra presunzione è capace di disconoscere, in un delirio di onnipotenza che dovrebbe suscitare ilarità se non fosse funesto e tragico.
Il salmista sa soltanto quel che sente: noi, civiltà dal sentimento anestetizzato, non sappiamo per il semplice fatto che non siamo più capaci di avvertire nell’intimo una gioia o un turbamento che siano autentici, figli di quello sconcerto che nasce dal guardare con onestà a ciò che siamo, esseri sospesi, fragili, effimeri. Ma è possibile vivere davvero con questa consapevolezza? – domanderà qualcuno. Ma è forse vita quella che ha perso non soltanto ogni familiarità, ma persino ogni contatto con ciò che si agita in noi nel profondo? Vale davvero qualcosa muoversi perennemente entro il perimetro artificiale di una finzione a cui poi si cerca ostinatamente di credere, sapendo che basterà un istante di lucidità a far franare questo castello di carte? – domando io.
Il salmista chiede a Dio una consapevolezza che nasca dal saper accogliere la vita con tutte le sue insanabili contraddizioni, con quell’incertezza che la determina e di cui noi per primi siamo intessuti. Quando saremo capaci di farlo, forse, anche nel turbamento scorgeremo l’ombra di un senso e lasceremo che sia la vita, che proviene da Dio, ad ammaestrare i nostri cuori con la sua schiettezza. Sarà il nostro contatto con lei a restituirci una misura, a farci riscoprire fragili ma per ciò stesso preziosi, ad aprire i nostri occhi su un’umanità che eccede i confini ristretti del nostro piccolo io. E sarà allora, quando ci scopriremo ancora capaci di scorgere il volto dell’altro, che Dio potrà tornare a specchiare il Suo, di volto, nella semplicità silenziosa e coerente del gesto condiviso, da cui tornerà a fiorire quella speranza che, oggi, sembriamo aver smarrito.

(Alle mie comunità - Domenica 8 Marzo 2020 - Alessandro Esposito)

08/03/2020

Un pensiero da Ebrei 4,14-5,10

Questa epistola è stata scritta con uno scopo ben preciso, che possiamo comprendere pensando che è diretta agli Ebrei, cioè a dei cristiani convertitisi dal giudaismo. Lo scopo è quello di ridare loro coraggio, perché sono in una grande difficoltà, dal momento che il loro impegno nella nuova fede ha comportato per loro l’abbandono delle sicurezze su cui sino a poco prima avevano fondato il rapporto con Dio, e più in generale la loro stessa vita: le sicurezze fondate sulla legge, la cui osservanza scandiva l’esistenza giornaliera e le sicurezze legate ai riti, ai sacrifici che offrivano nel tempio e che mettevano a posto la coscienza…

Adesso tutto questo non c’è più. Adesso c’è una fede da vivere nella libertà. Ma non è facile vivere nella libertà. Prima avevi una strada da percorrere, e una strada ti guida, ti dice dove andare... Adesso puoi volare come l’aquila, ma il cielo è grande e non ci sono strade, devi trovare tu la direzione giusta.
In questa situazione, il nostro autore cerca di incoraggiare i suoi interlocutori, invitandoli a riflettere su come Gesù sia un “sommo sacerdote”, al tempo stesso in piena continuità coi sommi sacerdoti di Israele, ma anche infinitamente superiore a loro. Vale allora la pena di affidare a lui con piena fiducia sé stessi, i propri cari, il mondo intero.
Sì, Gesù è adesso e per sempre il solo vero “sommo sacerdote”. Lo è davvero, perché – come anche gli altri – non ha scelto lui di esserlo, non ha “preso da sé quell’onore”, ma è stato “chiamato a quell’onore” da Dio. Ma Gesù è anche un “sommo sacerdote” incomparabilmente superiore a tutti quelli che l’hanno preceduto, perché diversamente da loro non ha offerto la sua espiazione a Dio uccidendo un animale nel cortile del tempio, ma ha offerto sé stesso una volta per tutte: ha offerto la sua vita morendo sulla croce, versando il proprio sangue. E quello stesso Dio che l’ha chiamato a questo e l’ha donato a noi, lo ha poi risuscitato. E Gesù è “passato attraverso i cieli”, e lì continua a esercitare la sua mediazione, continua ad intercedere per noi…
Questo, nella “fragilità” che un sommo sacerdote deve avere. Come dice la chiusa del nostro testo: “Nei giorni della sua carne, con alte grida e con lacrime egli offrì preghiere e suppliche a colui che poteva salvarlo dalla morte ed è stato esaudito per la sua pietà. Benché fosse Figlio, imparò l’ubbidienza dalle cose che soffrì; e, reso perfetto, divenne per tutti quelli che gli ubbidiscono, autore di salvezza eterna, essendo da Dio proclamato sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedec”.     
AMEN

Ruggero Marchetti