Sapete,
fratelli miei amati: sia ciascuno pronto ad ascoltare, lento a parlare e lento
all'ira: l'ira dell'uomo, infatti, non realizza la giustizia di Dio (GIACOMO 1:19-20)
Essere comunità, si sa, è vocazione
tutt'altro che facile: si tratta, infatti, di un compito impegnativo perché
quotidiano. Comunità non lo si è mai pienamente, perché, ogni giorno di nuovo,
è necessario ridiventarlo. Si tratta dello stesso processo che riguarda la fede
di ciascuno e di ciascuna di noi: un cammino costante, inevitabilmente esposto
a difficoltà, ostacoli, incomprensioni. Essere comunità significa cercare ogni
giorno di divenirlo, vivendo concretamente la nostra fede attraverso le
relazioni ed i gesti che le alimentano o le incrinano. Tutto nella vita, quindi
anche nella vita comunitaria, è cura delle relazioni: cura che spesso
trascuriamo di avere a causa di atteggiamenti che ci infastidiscono o di parole
che ci amareggiano o ci feriscono. Così finiamo per rispondere a tono,
alimentando, in tal modo, una spirale che porta soltanto all'inasprimento del
rapporto. E, alla fine, ci lamentiamo per atteggiamenti che, in realtà,
mettiamo in atto anche noi, utilizzando come giustificazione il fatto di
esserci limitati a rispondere a chi, riteniamo, ci abbia aggrediti. Tutto ciò non
può che lacerare i rapporti e ferire ambedue le persone coinvolte.
Mi sembra giusto dire, come prima
cosa, che tutto questo è assolutamente normale: non desiderabile o lodevole, ma
certamente del tutto normale. Succede, e succede dovunque.
Le comunità cristiane non ne sono in
alcun modo esenti in virtù della fede che professano. Sarebbe ingenuo pensarlo
e credo che sia del tutto fuori luogo manifestare meraviglia o persino
indignazione. Certo, ogni contrasto addolora, e non soltanto le persone
direttamente coinvolte: ma non credo che il dolore debba tramutarsi in
rimprovero. Nessuno di noi, infatti, è estraneo a situazioni conflittuali: il
conflitto abita l'intimità di ciascuna e di ciascuno e, per questo, poi, si
manifesta nelle relazioni che viviamo. Anche in quelle comunitarie. Allora, per
incominciare, il conflitto è meglio riconoscerlo che non nasconderlo o
camuffarlo: poi, però, è necessario affrontarlo e fare tutto il necessario per
non alimentarlo.
È piuttosto diffusa una sorta di
“mitologia”, secondo cui le prime comunità cristiane vengono presentate come
luoghi di perfetta pace e fratellanza, che ignoravano ogni contrasto ed ogni
dissidio interno. Ogni mitologia crea danni e provoca frustrazioni, prendendo
come riferimento un modello chiaramente irrealizzabile e proprio per questo
improponibile. I conflitti comunitari in seno al cristianesimo ci sono sempre
stati e, possiamo azzardare, ci saranno sempre: l'epistola di Giacomo, semmai
ce ne fosse bisogno, sta a testimoniarlo. Si tratta di non fingere di
scandalizzarsi e di vedere che cosa fare, concretamente, per evitare che una
situazione di tensione prenda il sopravvento, sino a divenire quella
predominante in seno ad una comunità. Giacomo tutto questo lo sa bene e ci
regala parole che, a leggerle con attenzione, si rivelano estremamente attuali.
Si tratta di parole che amo
particolarmente in ragione di una loro caratteristica: non sono, per l'appunto,
parole di inutile ed ipocrita indignazione, né di saccente e fastidioso
rimprovero: sono, invece, parole che rinviano alla responsabilità di
ciascuna sorella e di ciascun fratello che partecipano alla vita comunitaria.
E, in virtù di questo, sono parole sagge.
La prima raccomandazione è l'unica
dalla quale abbia senso partire se si vuole davvero affrontare una qualsiasi
difficoltà che, solitamente, scaturisce da un'incomprensione. Quindi, onde
evitare fraintendimenti, l'invito di Giacomo appare sensato ed opportuno:
ciascuno sia pronto ad ascoltare. Si tratta di un appello singolare, poiché
invita alla prontezza in un atteggiamento, quello dell'ascolto, che,
solitamente, viene considerato “passivo”. Ma soltanto da un ascolto attento, in
realtà, ha inizio ogni dialogo ed ogni confronto: se si ascolta male,
inevitabilmente, si risponde peggio. Non è un atto semplice, quello del
mettersi all'ascolto: spesso sentiamo cose che, in realtà, non sono state dette
e dimostriamo di essere, nell'ascoltare, disattenti e approssimativi. Questo
perché, non di rado, siamo troppo concentrati sulla risposta che intendiamo
dare a chi ci parla. Invece l'ascolto è un invito a partire dall'altro,
dall'altra, a dargli, a darle la “precedenza”, come si fa in macchina quando si
attraversa una strada principale provenendo da una secondaria. Noi siamo figlie
e figli di una cultura marcatamente individualista, dove l'io occupa
ostinatamente il centro di tutto: anche (anzi, forse, soprattutto) nelle
relazioni. Quindi, di conseguenza, dei dialoghi e delle discussioni. Insomma:
in un modo o nell'altro, si parte sempre da sé. Cosicché, spesso, non si
ascolta.
La lingua ebraica, a questo
proposito, presenta una curiosità che trovo estremamente significativa. Quando
in ebraico si coniuga un verbo, non lo si fa come nella maggior parte delle
lingue occidentali moderne, che incominciano tutte, immancabilmente, con la
prima persona singolare. Quando si coniuga un verbo in ebraico, si incomincia con
la terza persona. Perché l'ebreo sa che tutto, in verità, incomincia
dall'altro, non da sé: e questo per il fatto che tutto ciò che facciamo o si diciamo
ha come primo destinatario l'altro, l'altra. Non noi stessi. Quando dico o
faccio qualsiasi cosa, la dico e la faccio prestando attenzione all'altro, alle
sue possibili reazioni, alla sua sensibilità, necessariamente diversa dalla
mia. Per cui sono attento ai toni che utilizzo, alla delicatezza dei miei
gesti.
Noi figli dell'occidente, invece,
siamo attentissimi agli accenti ed alle disattenzioni altrui, assai meno alle
nostre. È quasi sempre l'altra, l'altro, a rivelarsi insensibile e siamo quasi sempre
noi le vittime di un'assurda incomprensione. Partiamo dall'altro soltanto se si
tratta di evidenziarne i torti, veri o presunti, in realtà, poco importa. Per
tutto ciò che riguarda la comprensività, invece, quella ci è quasi sempre
esclusivamente dovuta: ci lamentiamo del fatto che ne riceviamo poca e
dimentichiamo puntualmente di darne. Il centro, immancabilmente, siamo noi, la
nostra sensibilità offesa: ma, in tal modo, non può nascere alcuna comunità di
nessun tipo. Crescere come comunità, infatti, significa imparare il decentramento:
fino a quando al centro di tutto ci sono io, non c'è spazio per la vita
comunitaria, che mette invece al centro la relazione. Quella relazione
che, senza l'altro, senza l'altra, non può nascere.
Una relazione che agisce nell'ascolto
e, agendo, ci trasforma: come un ruscello che alla fine riesce a vincere la
resistenza della roccia, scavandovi un letto che porta movimento, freschezza e
vitalità.
Il secondo monito di Giacomo è una
diretta conseguenza del primo: chiunque sia pronto ad ascoltare, non può che
essere lento nel parlare. Abbiamo lingue spesso più veloci del nostro stesso
pensiero, per lo meno di quello meditato, riflettuto. Tenere a freno la lingua
è uno degli atteggiamenti più difficili da assumere, e nessuno, forse, lo sa
bene quanto me. Spesso amiamo giustificare tanta prontezza vantandoci della
sincerità che la anima: ma le cose si può anche imparare a dirle, senza che ciò
significhi essere ipocriti o vigliacchi. Utilizzare i toni opportuni significa,
ancora una volta, non dimenticare mai che le cose che diciamo le diciamo ad
altri, ad altre, che hanno alle proprie spalle percorsi, esperienze, vissuti
estremamente diversi dai nostri e spesso a noi del tutto ignoti. Dobbiamo
apprendere la lentezza nel rivolgerci agli altri, perché non conosciamo mai del
tutto l'effetto che le nostre parole possono provocare nei loro cuori. Perché
le parole sono fatti. Una volta ancora, ce lo insegna la sapienza ebraica, che
indica con un solo termine, davar, sia le parole che i fatti,
i gesti, le azioni. Chi parla, in realtà, agisce; e a seconda di come ha
parlato, chi gli sta di fronte re-agisce. Sembra semplice, detto così: ma in
verità non pensiamo quasi mai al fatto che le reazioni degli altri sono spesso
soltanto la conseguenza delle parole che abbiamo loro rivolte con scarsa
attenzione e poca delicatezza.
L'ultimo appello di Giacomo è rivolto
alla sua comunità affinché chi viene a costituirla contribuisca, con il proprio
atteggiamento, a realizzare la giustizia di Dio. Giustizia che, in tutto
l'evangelo, rappresenta la caratteristica principale del Regno. Un Regno che,
certo non per caso, Gesù amava dipingere attraverso immagini di piccole cose.
Un granello di senape, un pizzico di lievito: cose minime, come minimi, del resto,
sono i destinatari dell'evangelo e gli eredi del Regno che esso annuncia. Non è
una realtà eclatante, quella della volontà di Dio come volontà di giustizia: è
appena uno sguardo attento alle piccole cose, quello stesso sguardo che, così
spesso, ci capita di smarrire. La comunità è lo spazio entro il quale,
predicando e praticando l'evangelo, questo sguardo si può tornare ad imparare.
Impariamolo, allora: sarà la testimonianza migliore, perché muta, di un amore
dal volto concreto. Quell'amore che ci insegna a tenere a freno la nostra
irascibilità per non ferire e per non ferirci. Quell'amore attraverso il quale,
come sperava Gesù, ci riconosceranno e ci riconosceremo, poiché ci renderà
attenti, prima di tutto, all'altro, come termine ultimo e imprescindibile
di ogni nostro dire e di ogni nostro agire.
(OMEGNA, Assemblea Straordinaria del
4 marzo 2018)
Alessandro Esposito
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