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25/02/2018

SERMONE TESTO BIBLICO DI ESODO 14, 10 - 16


 «Quando faraone si avvicinò, i figli d’Israele alzarono gli occhi: ed ecco, gli egiziani marciavano alle loro spalle. Allora i figli d’Israele ebbero una gran paura, gridarono al Signore e dissero a Mosè: “Mancavano forse tombe in Egitto per portarci a morire nel deserto? Che cosa hai fatto facendoci uscire dall’Egitto? Era proprio questo che ti dicevamo in Egitto: lasciaci qui a servire gli egiziani. Perché era meglio per noi servire gli egiziani che morire nel deserto”. E Mosè disse al popolo: “Non abbiate paura, state fermi e vedrete la salvezza che il Signore compirà oggi per voi” (…) Il Signore disse a Mosè: “Perché gridi a me? Di’ ai figli d’Israele che si mettano in marcia. Alza il tuo bastone, stendi la tua mano sul mare e dividilo: e i figli d’Israele entreranno in mezzo al mare sulla terra asciutta (Esodo/Nomi 14: 10-16)

Libro dell’Esodo, poco prima della «scena madre» dell’attraversamento del Mare dei Giunchi: i figli d’Israele, in fuga dalla terra della loro schiavitù, vengono inseguiti dai loro oppressori. Ragion per cui gridano a Dio: vero e proprio segno di disperazione, gesto di chi non vede più vie d’uscita da una situazione drammatica. Dopodiché, scattano le accuse: sono rivolte a quell’uomo che ha deciso stoltamente di condurre il popolo nel deserto: ma come gli sarà mai venuto in mente? Ma che posto è mai un deserto per tentare la fuga? Senza risorse, senza riferimenti: soltanto un’arida distesa di roccia, nella quale prima o poi, anche senza la mano dell’oppressore, Israele avrebbe comunque incontrato la morte.
È stata soltanto una follia, il brivido che regala l’illusione di essere finalmente libere e liberi, il sogno che culla ogni donna, ogni uomo che soccombe sotto il giogo dell’oppressione. Ma dai sogni, lo sappiamo, la vita viene a risvegliarci bruscamente, ricordandoci che i rapporti di forza non mutano: chi nasce schiavo muore schiavo; e se si ribella, muore prima. Credere ad un destino diverso da questo è da illusi, da sprovveduti. E illuso, sprovveduto, era stato Mosè; e ancor più il popolo che, nonostante le motivate perplessità, si era infine risolto a seguirlo, lasciandosi incautamente persuadere. Ecco che a questo punto, però, Mosè gioca la sua ultima carta: Dio non avrà certo condotto il Suo popolo sino a lì invano. Interverrà, ne è sicuro: non si tratta di far altro se non di aspettare placidamente, di incrociare le braccia in fiduciosa attesa. Dio verrà in soccorso di Israele e lo metterà in salvo: Mosè non ha alcun dubbio al riguardo. È Dio, però, a sembrare perplesso, persino contrariato: «Perché gridi a me» -chiede a Mosè- «Datti da fare, piuttosto: di’ al mio popolo, Israele, di mettersi in marcia». Sì, perché mettersi in cammino è proprio l’atteggiamento che più contraddice la staticità, la paralisi a cui ogni schiavitù, inevitabilmente, porta. Dio non interviene a soccorrere la passività, incoraggiandola e dunque, in un certo qual modo, legittimandola: al contrario, chiede a noi donne a noi uomini di collaborare attivamente a quella salvezza che, troppo spesso, attendiamo dall’alto.

Nell’arco di questi ultimi anni stiamo assistendo, a poca distanza da noi, a nuovi esodi, a rivolte coraggiose di fronte a situazioni odierne di schiavitù. Quel mondo che per secoli pareva sopito si è risvegliato e bussa alle nostre porte. Spesso lo stretto braccio di mare che separa queste donne e questi uomini dal nostro benessere si richiude su di loro, che giacciono a migliaia sul fondo del Canale di Sicilia, inseguiti, braccati dalle navi poste a tutela della nostra sicurezza. Eppure sta a noi, come dice il nostro brano di oggi, riportarli «sulla terra asciutta». Inutile demandare a Dio la responsabilità di soccorrerli: «Perché gridi a me?» -potrebbe domandare a ciascuno di noi, così come ha fatto con Mosè- «Stendi, piuttosto, la tua mano». (A. Esposito – Predicazione 18-02-2018)

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