«Quando faraone si avvicinò, i figli d’Israele alzarono gli occhi: ed
ecco, gli egiziani marciavano alle loro spalle. Allora i figli d’Israele ebbero
una gran paura, gridarono al Signore e dissero a Mosè: “Mancavano forse tombe
in Egitto per portarci a morire nel deserto? Che cosa hai fatto facendoci
uscire dall’Egitto? Era proprio questo che ti dicevamo in Egitto: lasciaci qui
a servire gli egiziani. Perché era meglio per noi servire gli egiziani che
morire nel deserto”. E Mosè disse al popolo: “Non abbiate paura, state fermi e
vedrete la salvezza che il Signore compirà oggi per voi” (…) Il Signore disse a
Mosè: “Perché gridi a me? Di’ ai figli d’Israele che si mettano in marcia. Alza
il tuo bastone, stendi la tua mano sul mare e dividilo: e i figli d’Israele
entreranno in mezzo al mare sulla terra asciutta (Esodo/Nomi 14: 10-16)
Libro dell’Esodo, poco prima
della «scena madre» dell’attraversamento del Mare dei Giunchi: i figli
d’Israele, in fuga dalla terra della loro schiavitù, vengono inseguiti dai loro
oppressori. Ragion per cui gridano a Dio: vero e proprio segno di disperazione,
gesto di chi non vede più vie d’uscita da una situazione drammatica. Dopodiché,
scattano le accuse: sono rivolte a quell’uomo che ha deciso stoltamente di
condurre il popolo nel deserto: ma come gli sarà mai venuto in mente? Ma che
posto è mai un deserto per tentare la fuga? Senza risorse, senza riferimenti: soltanto
un’arida distesa di roccia, nella quale prima o poi, anche senza la mano
dell’oppressore, Israele avrebbe comunque incontrato la morte.
È stata soltanto una follia, il
brivido che regala l’illusione di essere finalmente libere e liberi, il sogno
che culla ogni donna, ogni uomo che soccombe sotto il giogo dell’oppressione.
Ma dai sogni, lo sappiamo, la vita viene a risvegliarci bruscamente,
ricordandoci che i rapporti di forza non mutano: chi nasce schiavo muore
schiavo; e se si ribella, muore prima. Credere ad un destino diverso da questo
è da illusi, da sprovveduti. E illuso, sprovveduto, era stato Mosè; e ancor più
il popolo che, nonostante le motivate perplessità, si era infine risolto a
seguirlo, lasciandosi incautamente persuadere. Ecco che a questo punto, però,
Mosè gioca la sua ultima carta: Dio non avrà certo condotto il Suo popolo sino
a lì invano. Interverrà, ne è sicuro: non si tratta di far altro se non di
aspettare placidamente, di incrociare le braccia in fiduciosa attesa. Dio verrà
in soccorso di Israele e lo metterà in salvo: Mosè non ha alcun dubbio al
riguardo. È Dio, però, a sembrare perplesso, persino contrariato: «Perché gridi
a me» -chiede a Mosè- «Datti da fare, piuttosto: di’ al mio popolo, Israele, di
mettersi in marcia». Sì, perché mettersi in cammino è proprio l’atteggiamento
che più contraddice la staticità, la paralisi a cui ogni schiavitù,
inevitabilmente, porta. Dio non interviene a soccorrere la passività,
incoraggiandola e dunque, in un certo qual modo, legittimandola: al contrario,
chiede a noi donne a noi uomini di collaborare attivamente a quella salvezza
che, troppo spesso, attendiamo dall’alto.
Nell’arco di
questi ultimi anni stiamo assistendo, a poca distanza da noi, a nuovi esodi, a
rivolte coraggiose di fronte a situazioni odierne di schiavitù. Quel mondo che
per secoli pareva sopito si è risvegliato e bussa alle nostre porte. Spesso lo
stretto braccio di mare che separa queste donne e questi uomini dal nostro
benessere si richiude su di loro, che giacciono a migliaia sul fondo del Canale
di Sicilia, inseguiti, braccati dalle navi poste a tutela della nostra
sicurezza. Eppure sta a noi, come dice il nostro brano di oggi, riportarli
«sulla terra asciutta». Inutile demandare a Dio la responsabilità di
soccorrerli: «Perché gridi a me?» -potrebbe domandare a ciascuno di noi, così
come ha fatto con Mosè- «Stendi, piuttosto, la tua mano». (A. Esposito – Predicazione 18-02-2018)
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