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24/04/2017

Fede e (è) dubbio.doc


DUBBIO E FEDE: STORIA DI DUE GEMELLI


1. Giovanni: un vangelo da imparare a leggere

Prima di accingerci a commentare insieme il nostro passo di oggi, è necessario svolgere una premessa: l’evangelo giovanneo (chiamato anche quarto vangelo per il fatto di essere il più recente tra i cosiddetti vangeli canonici che sono entrati a far parte del Secondo Testamento) è un testo estremamente complesso in cui imparare ad orientarsi, poiché si tratta di uno scritto che fa ricorso ad un linguaggio ricco di simboli che è necessario imparare a riconoscere e a decodificare.

All’evangelo giovanneo è pertanto necessario accostarsi attraverso una serie di studi articolati ed approfonditi, che consentano di entrare progressivamente in confidenza con il ricco e complesso linguaggio utilizzato dal suo redattore. Oggi, naturalmente, non disponiamo del tempo necessario per compiere questo percorso: dovremo pertanto avventurarci all’interno di un breve brano dell’evangelo senza ancora disporre degli strumenti necessari ad effettuarne una lettura approfondita. Anche avventurarsi con audacia e consapevolezza dei propri limiti rappresenta, ad ogni modo, un percorso affascinante: inauguriamolo, dunque, incominciando dalla lettura del nostro brano, di cui offro qui di seguito la traduzione che ne ho svolta, cercando di mantenermi il più possibile fedele al testo nella sua forma originaria.


GIOVANNI 20:19-29

19 Giunta dunque la sera di quello stesso giorno, il primo della settimana, ed essendo chiuse le porte del luogo in cui i discepoli si trovavano per paura dei giudei, Gesù venne, si pose nel mezzo e dice loro: «Pace a voi» 20 E, dicendo questo, mostrò loro le mani ed il fianco. Si rallegrarono dunque i discepoli vedendo il Signore. 21 Disse dunque loro Gesù nuovamente: «Pace a voi. Come il Padre ha inviato me, anch’io mando voi». 22 E detto questo soffiò. E dice loro: «Ricevete lo Spirito Santo. 23 Coloro di cui abbiate condonato le mancanze, sono state condonate; coloro a cui le abbiate lasciate ferme, sono state lasciate ferme».

24 Ora, Tommaso, uno dei dodici, detto Didimo, non era con loro quando venne Gesù. 25 Gli dicevano pertanto gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!» Egli, però, disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco non crederò in alcun modo». 26 Trascorsi otto giorni, erano nuovamente dentro i suoi discepoli e Tommaso con loro. Viene Gesù mentre le porte erano chiuse, si pose nel mezzo e disse: «Pace a voi». 27 Poi dice a Tommaso: «Porta qui il tuo dito e vedi le mie mani e porta la tua mano e mettila nel mio fianco: e non essere diffidente ma fiducioso». 28 Rispose Tommaso e gli disse: «Signore mio e Dio mio!». 29 Gli dice Gesù: «Perché mi hai visto hai creduto? Felici coloro che, non avendo visto, hanno creduto»


2. Un primo incontro

Il nostro brano si suddivide in due scene, al contempo speculari e distinte. Nella prima di esse, veniamo informati del fatto che ci troviamo ancora «in quello stesso giorno», ovverosia nel giorno in cui Maria di Magdala, recandosi al sepolcro, torna presso i discepoli a recare l’annuncio che Gesù è stato ridestato, risollevato. Il testo ci dice anche che i discepoli versavano in uno stato di timore che li portava a restare chiusi nel loro luogo di riunione in Gerusalemme. A questo proposito, incominciando a familiarizzare con il linguaggio giovanneo, dobbiamo mettere in rilievo due aspetti.
  1. Il primo di essi riguarda il fatto che la descrizione fisica vuole in realtà essere espressione di uno stato d’animo: i discepoli sono rinchiusi in se stessi e, come dirà poco più avanti il nostro testo, hanno le porte sbarrate, anzitutto, alla speranza, che hanno lasciato fuori dai loro cuori afflitti e spaesati.
  2. Il secondo aspetto riguarda il significato, estremamente complesso e ambivalente, che il termine giudei riveste nel quarto vangelo: onde evitare, a tale proposito, fraintendimenti pericolosi ed inopportuni, dobbiamo effettuare una breve digressione.


«I GIUDEI» NELL’EVANGELO GIOVANNEO

Vi accadrà spesso, sfogliando le pagine del quarto vangelo, di imbattervi nell’espressione «i giudei» utilizzata dall’evangelista: sebbene essa non abbia sempre una valenza dispregiativa, sono diverse le occorrenze in cui questo termine viene utilizzato in maniera negativa o, quantomeno, polemica. Sebbene non sia questa la sede in cui sia possibile approfondire questa complessa questione, basti per ora accennare al fatto che quello giovanneo è, con ogni probabilità, uno scritto che si sviluppa in seno ad una comunità ebraica che, da un lato, si trova in conflitto con l’interpretazione delle Scritture propria della tradizione sacerdotale ed in opposizione con la lettura farisaica delle stesse e, dall’altro, è composta presumibilmente da donne e uomini che provengono dalla tradizione samaritana, che dal giudaismo tradizionale è stata sempre screditata. Cercheremo di approfondire questa intricata questione nel corso di studi futuri più specifici.


Nel trapelare di questo timore quasi palpabile, Gesù varca le soglie chiuse dei cuori dei discepoli invocando su di loro la pace: un sentimento, per l’appunto, che non alberga più negli animi ogniqualvolta essi siano invasi dallo sconcerto e dallo smarrimento. Nell’augurare ai suoi questa pace perduta, Gesù occupa la posizione che dovrebbe occupare nei cuori perché essi non siano in preda allo sconforto: dice infatti il nostro testo che Gesù pronuncia queste parole ponendosi in mezzo ai suoi; ovverosia, al centro dei loro pensieri e delle loro preoccupazioni, ma anche al centro di quella comunità che nel timore non è possibile edificare.

Dopodiché, come gesto teso a facilitare un riconoscimento pieno ed indubitabile, il risorto si mostra come il crocifisso: non si tratta di un’apparizione illusoria e fugace; colui che Dio ha risollevato è quello stesso che aveva patito la morte di croce. In Giovanni, questa coincidenza tra il crocifisso ed il resuscitato, sintetizzata nell’espressione «innalzato» riferita alla croce ma contenente al contempo una chiara allusione alla resurrezione, è sottolineata a più riprese. Persuasi da questo mostrare i segni della morte di croce, i discepoli che presenziano alla scena operano il riconoscimento sperato e, come conseguenza immediata e significativa, si rallegrano dinanzi a ciò che i loro occhi constatano. La loro gioia è conseguenza diretta di ciò che essi vedono e verificano.

Dopo questo momento di giubilo, Gesù torna significativamente ad augurare ai suoi la pace: segno inequivocabile del fatto che la gioia, come stato emotivo, rappresenta un momento estremamente fuggevole e vulnerabile, che può presto volgere in tristezza. La pace, al contrario, è uno stato che richiede equilibrio e continuità: ma, come ricorda Gesù attraverso questo augurio rinnovato, si tratta di una condizione che è necessario ricreare costantemente entro il perimetro perennemente inquieto dei nostri cuori.

Immediatamente dopo questo auspicio reiterato, Gesù rende esplicito lo scopo dell’essere discepoli: l’invio, che impedisce ad ogni comunità di comprendersi come il centro e la invita, invece, a dirigere verso l’esterno i propri passi ed il proprio annuncio di speranza. Centro della comunità sono i sentieri lungo i quali essa è chiamata ad andare incontro alle donne ed agli uomini per proclamare loro che l’ultima parola di Dio sulle nostre esistenze è una parola di vita e non di morte.
Una volta rivolto questo invito alle discepole e ai discepoli, Gesù soffia su di loro: gesto simbolico che allude alla presenza dello Spirito nei cuori di tutti e di ciascuna e nel cuore stesso della comunità. Al gesto, una volta ancora, si accompagnano le parole: questa volta sono riferite alle mancanze, che le discepole ed i discepoli hanno il dono ed il compito di fare in modo che non pesino sulle vite delle donne e degli uomini cui sono chiamati ad andare incontro, liberandole dal rimanere inchiodate a quella colpa che incatena e paralizza: i verbi usti, infatti, sono relativi al rimettere in libertà o, viceversa, al lasciare legati.


  1. L’assenza di Tommaso, la nostra assenza

Il brano successivo incomincia informandoci del fatto che Tommaso, uno dei dodici, era assente nel momento in cui Gesù era tornato in mezzo ai suoi. Ora, anche a questo proposito, è necessaria una breve digressione, prima di procedere nell’analisi e nella meditazione del nostro racconto.


«I DODICI» NELL’EVANGELO GIOVANNEO

I dodici, chiamati anche apostoli (dal verbo greco apostello, che significa inviare), sono presentati in modo critico e talvolta persino polemico nel quarto vangelo: ciò, con ogni probabilità, è dovuto al fatto che la comunità giovannea si sviluppò come comunità dissidente rispetto all’orientamento prevalente del cristianesimo primitivo, non riconoscendo l’autorità dei dodici. Il passo che ora ci apprestiamo ad approfondire ci fornirà, sia pure indirettamente, qualche indizio al riguardo. L’evangelo giovanneo, a motivo di tale dissidenza nei riguardi della linea prevalente in seno al cristianesimo delle origini, incontrerà molte difficoltà nell’entrare a far parte del canone della chiesa primitiva: sarà per questo che, dopo una prima conclusione (Gv 20:30-31, che segue immediatamente l’episodio di Tommaso), la comunità giovannea redigerà il capitolo 21, il cui scopo precipuo sarà proprio quello di riabilitare la figura di Pietro, rappresentante dei dodici, riconoscendone la centralità e l’autorità. Nell’arco dei primi venti capitoli dell’evangelo giovanneo, significativamente, il termine apostolo comparirà una sola volta, nell’episodio della lavanda dei piedi (Gv 13), e sarà menzionato allo scopo di chiarire che «l’inviato (ovvero proprio l’apostolo) non è più grande di colui che lo ha inviato» (Gv 13:16). Per il resto, il quarto vangelo ricorrerà sempre al termine mathetés (discepoli/e) per descrivere coloro che accompagnano Gesù nella sua vita e nella sua predicazione itinerante.


Tommaso, dunque, definito dal testo come «uno dei dodici», diviene nel nostro passo figura della incomprensione e della necessità di una verifica che corrobori una fede altrimenti non degna di credito. Lungi dal condannare l’apostolo per questo atteggiamento, dobbiamo piuttosto riconoscerlo quale fratello nel dubbio e nella necessità di comprendere secondo criteri di attendibilità concreti, che fanno appello alla constatazione empirica. Tommaso vuole verificare che colui che i suoi compagni e le sue compagne hanno visto fosse effettivamente il maestro morto sulla croce, strumento di morte che ha lasciato sull’amato segni indelebili che, ora, il seguace vuole vedere e toccare, al fine di fugare ogni (legittimo) dubbio sull’identità del risorto e sulla veridicità della resurrezione, circa la quale le incertezze e le riserve assalgono ancora oggi anche noi.

Otto giorni dopo, Gesù attraversa nuovamente lo spazio chiuso del luogo di riunione dei discepoli e dei loro cuori: evidentemente, il dubbio instillato da Tommaso ha sortito il suo effetto e contagiato quanti avevano vissuto l’esperienza dell’incontro con Gesù. Ciò a dimostrazione del fatto che il dubbio che la necessità dell’evidenza è capace di insinuare nelle menti e nei cuori ha una forza ed una capacità di persuasione che sovente si rivelano maggiori di quella di una fede che pare essere costretta a convivere con quella stessa incertezza a cui vorrebbe fornire una risposta.

L’auspicio di Gesù è nuovamente il medesimo e ha di mira quella pace che egli sente chiaramente non albergare ancora negli animi incerti dei discepoli. Tommaso, rappresentante dei dodici, viene invitato da Gesù a fugare i propri dubbi effettuando la verifica che intendeva svolgere. Dopodiché, viene esortato ad essere fiducioso e non diffidente. Questo, nuovamente, rappresenta un appello rivolto a tutti i discepoli e le discepole: dunque, anche a noi. Didimo, infatti, soprannome di Tommaso secondo quanto ci riferisce il nostro testo al v. 24, è termine che in lingua greca significa gemello: e Tommaso, difatti, è gemello di tutte e tutti noi a motivo della condizione che esprime e che è quella stessa che noi, ancora oggi, viviamo; la condizione di quante e quanti, non avendo potuto corroborare con la cogenza dell’esperienza diretta l’evento della resurrezione, sono portai a metterla in dubbio e, il più delle volte, a diffidarne.

Segue a questo invito rivolto e rivoltoci da Gesù una confessione di fede pronunciata da Tommaso, che rappresenta un unicum nei vangeli canonici: Gesù è difatti confessato come Signore (kyrios nell’originale greco) e Dio mio (theós nel testo originale). Si tratta della confessione di fede che significativamente e volutamente chiude il quarto vangelo, racchiudendone anche il senso sotto il profilo catechetico: a questa confessione deve difatti pervenire il discepolo negli scopi che il redattore dell’evangelo si è prefissati quando ha deciso di scriverlo, dirigendolo alla sua comunità. Tutta la successiva elaborazione della dottrina cristologica, sviluppatasi nell’arco dei primi «concilî ecumenici», prenderà le mosse da qui e condurrà alla definizione del dogma trinitario, escludendo dalla cristianità quanti confessavano Gesù come «messia e figlio di Dio», ma non come Dio.

Le parole finali di Gesù mettono in questione l’ipotesi secondo cui chi abbia sperimentato visivamente l’evento della resurrezione (in primis, naturalmente, gli apostoli, che su questo presunto beneficio fondano la loro rivendicazione di autorità) goda di una condizione, per così dire, «privilegiata» nell’ambito della fede. Rivolgendosi a Tommaso come rappresentante del gruppo dei dodici, Gesù afferma che l’autentico privilegio consiste nel non aver presenziato all’evento della resurrezione e, ciononostante, nel decidere di conferirgli realtà e credibilità. La fede/fiducia autentica riposa sull’impossibilità della verifica empirica e non sul suo «nulla osta»: fede è affidamento che non si appoggia se non sulla fragile bellezza della testimonianza, che non offre garanzie, ma invita a percorrere gli imprevedibili sentieri lungo i quali Dio ci viene incontro come la fonte della vita che, con la sua vulnerabilità, si rivela sorprendentemente capace di prevalere sulla presunta evidenza della morte.

Ad ogni modo, fede e dubbio convivono come gemelli nel nostro gemello Tommaso: non si tratta di mettere la prima (illusoriamente) al riparo dal secondo, che non costituisce una minaccia ma un incentivo nella direzione di un’indagine più profonda, che ricerca le motivazioni e non appena i motivi per cui credere. Lo stesso Gesù, nella sua ultima raccomandazione rivolta, al contempo, a Tommaso e a tutti e tutte noi, chiede di osare la comprensione (altro significato del termine greco pistis, che spesso traduciamo con «fede»): per essere credente e non credulo è necessario provare a comprendere. E il dubbio, in questo, è gemello della fede e non suo nemico.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE (Consultabile in lingua italiana)
  • BROWN, R.E. Giovanni. Commento al vangelo spirituale, Cittadella, Assisi, 1979
  • CULLMANN, O. Origine e ambiente dell'evangelo secondo Giovanni, Marietti, Casale Monferrato, 1976
  • DODD, C.H. La tradizione storica nel quarto vangelo, Paideia, Brescia, 1983
  • LEON-DUFOUR, X. Lettura dell'evangelo secondo Giovanni, 4 voll., San Paolo, Cinisello Balsamo, 1998
  • MANNUCCI, V. Giovanni, il vangelo narrante, Dehoniane, Bologna, 1993
  • SCHNACKENBURG, R. Il vangelo di Giovanni, 4 voll., Paideia, Brescia, 1973-1987
  • WENGST, K. Il vangelo di Giovanni, Queriniana, Brescia, 2005


Pesah-Passaggio (Mc 16,1-8).doc


«Essendo trascorso il sabato, Maria di Magdala, Maria di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare ad ungerlo. E molto presto, il primo [giorno] dopo il sabato, si recano al sepolcro al levar del sole. E dicevano fra loro: “Chi rotolerà per noi la pietra dall’ingresso del sepolcro?”. E, levato in su lo sguardo, vedono che era stata rotolata via la pietra, sebbene fosse molto grande. Ed essendo entrate nel sepolcro, videro un giovane seduto sulla destra, rivestito di una veste bianca; e si spaventarono. Egli allo radice loro: “Non spaventatevi. Cercate Gesù il Nazareno, il crocifisso: è stato resuscitato, non è qui. Ecco il luogo dove l’hanno posto. Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che vi precede in Galilea: là lo vedrete, come ebbe a dirvi”. Ed essendo uscite fuggirono dal sepolcro, prese da tremore e stupore. E non dissero nulla a nessuno: infatti, avevano paura» (Marco 16:1-8)

Un giorno intero era trascorso da quando i loro occhi avevano accompagnato, in un silenzio colmo di sconforto, il corpo inerte di Gesù sino a vederlo scomparire nel buio del sepolcro. Ora tre delle donne che lo avevano amato e seguito, seguito perché amato, dopo aver atteso che il sabato scorresse lento e triste, mentre tutt’intorno Gerusalemme era in festa, ora queste donne, con il cuore ancora segnato da una ferita aperta e profonda, si mettono in cammino. Lo fanno quando l’ora è ancora incerta, come il loro spirito, quando la notte, invano, si ostina a contrastare l’alba, per poi lasciarsene vincere poco a poco e tornare a ritirarsi dietro l’orizzonte che prende a tingersi d’arancio. Recano in mano degli unguenti con i quali intendono accarezzare, un’ultima volta, il corpo dell’amato: è una sapienza tattile quella femminile, fatta di gesti che avvolgono.
È una sorta di congedo che si consuma sulla punta delle dita, che sfiorano e non afferrano, indugiano su un corpo senza poterlo in alcun modo riportare in vita. È il tempo dell’addio, della separazione che, racchiusa nei cuori, fuoriesce dalle mani che dispensano carezze per dire, in questo modo, l’amore che non si può dire ma soltanto riversare su chi, già, non può più sentirlo, né ricambiarlo. L’amore tradotto nel gesto disperato e tenero di mani che stringono senza riuscire a trattenere.

Nelle menti colme di questi pensieri, d’improvviso ne emerge uno, sempre tattile, che affiora sulle labbra di una delle tre: «Come rotoleremo la pietra dall’ingresso del sepolcro?». Ma più grosso ancora è il macigno che pesa sui loro cuori, bloccandone l’entrata: spazio alcuno può trovarvi la speranza, che viene lasciata sull’uscio; né può entrarvi la fede, perché il masso non lascia penetrare nemmeno la luce più flebile nell’oscuro perimetro della rassegnazione. Gesù, l’amato, è morto: l’hanno deriso, offeso, straziato. Questa è l’unica verità, corroborata dalla prova inconfutabile dell’esperienza: le donne l’hanno visto, sia pure da lontano. Era scomparso, appena un giorno addietro, ingoiato da quel buio che sempre accompagna la morte e i suoi luoghi e che, ora, fatica a diradarsi dai loro animi, là dove la luce dell’aurora non rischiara pensieri e sentimenti. Gesù è morto: non tornerà a sorgere il mattino sul loro sconforto, né verrà più l’alba a spargere la luce sul loro dolore muto.

Poi, d’improvviso, un movimento: per la prima volta gli occhi si staccano dal sentiero sul quale sembravano essere rimasti inchiodati, e guardano in su, verso l’ingresso del sepolcro.
Sepolcro che in greco è mnemeion, luogo della memoria, alla quale sempre la morte rimanda: ma che qui, invece, si fa sguardo rivolto al futuro, sin da questo momento in cui gli occhi si protendono, al contempo, in avanti e verso l’alto, a cogliere quell’inatteso in cui Dio e la vita abitano e si rivelano. Tra sorpresa e sconcerto, volti increduli scorgono la risposta alla domanda appena risuonata in quell’ora sospesa e in quei cuori esitanti: la pietra non occludeva più l’ingresso del sepolcro. E un raggio di luce, d’improvviso, sembra penetrare anche nello spazio sino a prima sigillato della loro disperazione; non sanno ancora che cosa sperare, non sanno nemmeno se sperare qualcosa: ma la tenebra non è più così fitta nel cuore, là dove, d’improvviso, avvertono come un fremito ed un accenno di tepore. Grande era la pietra, come il dolore che sentivano: e se la prima era stata scostata, chissà che anche il secondo non potesse essere lenito.

Si fanno coraggio ed entrano: ed ecco, scorgono un giovane, segno della vita che ritorna, che prevale. Se ne sta seduto in disparte, sembra quasi che le stesse attendendo: ha indosso una veste bianca, limpida come lo sguardo che gli attraversa il volto. Eppure - non sanno nemmeno bene come, né perché - sono prese da paura. Ma alla tenerezza dello sguardo si accompagna, nel giovane, la dolcezza della voce; il ragazzo coglie nei loro occhi e nel muto spazio del loro silenzio il timore di quelle donne e le rassicura. Venute per accarezzare un corpo, si ritrovano accarezzate nell’anima da chi dice loro, in un sussurro: «Non spaventatevi». E come la brezza del mattino scaccia le nuvole lasciando limpido l’orizzonte, così quelle parole, per un istante, allontanano la paura e si fanno spazio da sole sotto la pelle, facendo sussultare le donne.
   Parole che riecheggiano nell’oscurità di quella tomba e che, in qualche modo, la rischiarano. «Cercate Gesù il nazareno, il crocifisso»: due aggettivi scarni a definirlo, il luogo della nascita ed il destino a cui, consapevole, era andato incontro. E, insieme, una conferma data alle donne: «Non avete sbagliato, non ricordano male i vostri occhi che l’hanno seguito da lontano, vedendolo entrare qui, portato da Giuseppe d’Arimatea: questo, proprio questo è il luogo in cui è stato messo il suo corpo». Eppure l’invito non è a fermarsi, a restare lì, inchiodate all’evento e al dolore; non è neppure quello di celebrare l’inatteso, di genuflettersi di fronte al miracolo. No: l’invito è a rimettersi in moto, come spesso chiede di fare il Dio biblico, ripercorrendo a ritroso la il cammino compiuto per recarsi sino a quello che avevano creduto essere un luogo di morte e che, invece, è luogo di scoperta, di meraviglia e di vita. Si tratta di ripartire, di recarsi nuovamente in quella Galilea da cui le donne e gli altri con loro avevano seguito Gesù pieni di speranza: per comprendere che quella stessa speranza non era naufragata; soltanto, non si era realizzata nei termini di quell’evidenza in cui, spesso, cerchiamo conforto e rassicurazione. Annuncia loro il giovane: «È stato resuscitato». Propriamente, rialzato, risollevato: questa volta non da mani d’uomo, che l’avevano accompagnato, privo di vita, sin dentro il sepolcro; ma dal soffio leggero e vigoroso di Dio, che lo ha preso tra le Sue di braccia, restituendogli quella vita che a Dio soltanto appartiene poiché da Lui, da Lei, solamente, proviene. «È stato risollevato»: usa il passivo, il giovane; a testimonianza del fatto che quel Dio che era sembrato assente, tanto da provocare il grido lacerante di Gesù sulla croce, era in verità il Dio silenzioso e presente, il Dio che rialza l’amato, dopo essere stato accanto a lui, muto, sulla croce.
Sceso insieme all’amato nell’abisso del dolore e della sua mancanza di senso, ora Dio ne emerge portandolo tra le braccia, dicendo a chi ha il cuore abbattuto che la morte non possiede l’ultima parola sulla vita, perché la vita è custodita nel seno di Dio come in un solco da cui può tornare a fiorire, come la primavera che con la Pasqua ha inizio.

Eppure le donne fuggono con l’inverno ancora nel cuore, invase da un misto di timore e stupore; ma il germoglio, in loro, attende soltanto il disgelo e non tarderà a sbocciare. La paura alberga per un tempo nel cuore delle donne, ma non le vince: fuggono dal luogo ma non dall’esperienza dell’inatteso che le ha investite, tramutando la morte in speranza assurda ma credibile ed il dolore in palpito d’incompresa gioia. Ritroveranno il coraggio le donne e saranno testimoni della resurrezione: come l’evento che annunceranno, anch’esse saranno ritenute poco degne di credito per i loro contemporanei e persino agli occhi degli stessi discepoli. Dio, invece, affiderà loro la follia di un messaggio di speranza che non si colloca al di là della morte ma nel suo stesso cuore, dentro cui noi e Dio ci caliamo insieme per poi, insieme, riemergerne. Di questa Pasqua, di questo «passaggio», narra la vicenda di Gesù resuscitato: un varco che Dio ha potuto scavare nei nostri cuori grazie a voci e vite di donne che, attraversato il timore, nell’assurdo hanno saputo riporre speranza e fiducia. Donne capaci di riconoscere in sé la paura e, soltanto così, anche di affrontarla e di superarla: donne che al timore come alla croce non restano inchiodate, ma che si mettono, sia pure dopo qualche indugio, sui folli sentieri di Dio: quel Dio che, così come loro, vince la morte generando la vita. (Pastore Alessandro Esposito - Domenica 16 Aprile 2017 - Pasqua di Resurrezione)

CICLO INCONTRI CON LUTERO



Incontro pubblico su
Lutero e l’ebraismo: una questione spinosa
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VENERDÌ 28 APRILE h 20:45
Chiesa Metodista – Via F.lli di Dio 64

17/04/2017




Se per una volta cancellassimo l'odio, se abbracciassimo con l'anima ogni colore e religione, se alzassimo bandiera bianca davanti ad ogni provocazione, se guardassimo oltre al buio dell'egoismo, potremmo vivere appieno il vero senso della Pasqua che è fatto di pace e serenità, con l’augurio che Pasqua possa portare pace e serenità a chi soffre, a chi è ammalato in ospedale, a chi si sente solo, a chi ha perso la fede, che tutti possano essere avvolti in un abbraccio di gioia, serenità e speranza.                                            
Auguriamo una Pasqua vissuta col cuore, senza odio ne rancore e con tanta serenità interiore.                                                 

Auguri di cuore a tutti 

05/04/2017

Testo relativo all'incontro di venerdì 31 marzo sulle 95 tesi di Lutero




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 LE 95 TESI: UN’INTRODUZIONE AL CONTESTO STORICO
Possediamo un’inveterata, cattiva abitudine: quella di isolare fatti storici rilevanti dal contesto che li ha ospitati, provocati e permessi. È questo il caso dell’affissione delle 95 tesi del monaco agostiniano Martin Luther sul portone della cattedrale di Wittemberg: se ignoriamo i presupposti di questo gesto e le conseguenze a cui esso condusse, non possiamo comprenderne realmente la portata. È per questo motivo che, nel corso dell’incontro di quest’oggi, cercheremo di tratteggiare a grandi linee il quadro storico, politico ed ecclesiale entro cui tale evento si colloca.
Nato il 10 novembre del 1483 ad Eisleben, in Sassonia, da una famiglia contadina, Lutero studiò dapprima diritto presso l’università di Erfurt: fu lì dove egli incontrò per la prima volta i monaci dell’ordine agostiniano, ai quali si unì a soli 22 anni, prendendo dimora presso il convento della città ed approfondendo, in particolare, lo studio dell’epistolario paolino. A partire dal 1508 cominciò ad insegnare presso la neonata università di teologia di Wittemberg, dove fu al contempo parroco della chiesa locale: fu proprio qui dove, nove anni più tardi, affisse le celeberrime 95 tesi.
Ora: qual era la situazione politica, sociale, culturale e religiosa dell’epoca? Ne stiliamo qui di seguito un breve quadro riassuntivo, dividendo per praticità piani che sono in realtà reciprocamente intersecati, ma che ragioni di chiarezza espositiva ci costringono a separare.
1. Il quadro politico

Sotto il profilo politico, la situazione era estremamente complessa: la Germania si trovava difatti frammentata in una molteplicità di Stati, formalmente legati all’istituzione del Sacro Romano Impero, ma in verità in lotta continua e serrata con essa. Imperatore, all’epoca dell’affissione delle tesi, era Massimiliano d’Asburgo, che, morto nel 1519, lascia vuoto un trono che scatena lotte di potere tra la Francia di Francesco I e la Spagna di Carlo V, nipote di Massimiliano. Alla fine, i principi elettori tedeschi si inclinarono per quest’ultimo, che divenne in tal modo signore di un territorio vastissimo che, oltre alle recentemente acquisite colonie centro e sud americane, si estendeva dalla Spagna (di cui ha ereditato il trono, appena sedicenne, nel 1516), alle Fiandre (di cui è principe ereditario) sino alla attuale Germania. I suoi possedimenti, dunque, cingono letteralmente d’assedio la Francia, che scatenerà contro Carlo V una guerra tanto lunga quanto infruttuosa, cercando altresì di estendere la propria influenza sull’Italia, anch’essa frammentata in una serie di Stati regionali, quasi tutti vassalli della potenza di turno.
Carlo V ottenne una schiacciante vittoria in campo militare nella battaglia di Pavia (1525), in cui fece persino prigioniero lo stesso Francesco I, il quale fu costretto a sottoscrivere le dure condizioni di pace del Trattato di Madrid (1526), attraverso cui il sovrano asburgico ottenne il definitivo controllo del Ducato di Milano e del Regno di Napoli, assicurandosi in tal modo un’influenza schiacciante sul frammentato territorio italiano. 2

Conferendo altresì un valore simbolico determinante al gesto sancito dalla tradizione, nel 1530 Carlo V si fece incoronare Imperatore del Sacro Romano Impero da papa Clemente VII, alleatosi contro di lui con Francesco I di Francia, nel duomo di Bologna. Anche il papato, difatti, rappresentava all’epoca uno degli attori principali della scena politica, specie a motivo della profonda influenza che esso esercitava sulle popolazioni rurali (produttrici dell’unica economia reale e non monetaria, quella agricola), nonché della sua rilevanza in ambito internazionale, datagli dai possedimenti e proprietà terriere che l’istituzione pontificia poteva vantare in tutto l’occidente europeo, con annessi tributi. Sarà proprio il desiderio congiunto di diversi territori ed aspiranti Stati nazionali (come, ad esempio, i Paesi scandinavi) di affrancarsi dal giogo pontificio a costituire uno dei motivi del progressivo affermarsi della Riforma nel nord Europa.
Oltre al conflitto estenuante con la Francia ed alla ricerca costante del placet pontificio che lo decretasse difensore del cristianesimo, Carlo V dovette al contempo fronteggiare la minaccia ottomana sul fronte orientale del suo impero: il sultano Solimano il Magnifico, salito al trono nel 1520, era difatti giunto sino alle porte della città di Vienna, assediandola nel 1529.
Guerra con la Francia e minaccia ottomana sul fronte orientale impedirono a Carlo V di occuparsi debitamente dell’emergere, in seno ai territori tedeschi, della Riforma: tale dispersione consentì pertanto al neonato movimento di rinnovamento ecclesiale e dogmatico di propagarsi, complice la volontà dei Principi Elettori tedeschi di sottrarsi progressivamente all’egemonia imperiale.

L’Europa all’indomani della battaglia di Mühlberg (1547). In scuro i domini asburgi 3


2. La chiesa

Anche la chiesa si trovava in una tappa di profondi rivolgimenti: a partire dai concilî di Costanza (1415-1418) e di Basilea-Ferrara-Firenze (1441-1445), era andata consolidandosi in seno al cristianesimo occidentale una tendenza detta conciliarista, che, rifacendosi a concezioni già proposte da Marsilio da Padova e Guglielmo da Ockham (alla cui teologia, significativamente, lo stesso Lutero attinse) proponeva la subordinazione del potere papale a quello conciliare, inteso quale ultima istanza decisionale della vita ecclesiale. L’affermarsi di questo orientamento, unitamente al propagarsi dell’umanesimo e del suo ritorno alle fonti, diede vita ad un fervente movimento di rinnovamento, che aveva il proprio perno nell’approccio filologico ai testi bilici, svolto in maniera analoga rispetto a quanto, sino ad ora, era stato fatto solamente con i classici greci e latini. Nel 1516 (dunque un anno prima dell’affissione delle 95 tesi) Erasmo da Rotterdam pubblica la sua edizione critica del Nuovo Testamento, con testo originale greco ed apparato critico con note di commento in latino. Il fine umanista olandese propose la via di una riforma moderata e pacifica della chiesa ed ebbe in questo uno stuolo significativo di compagni e seguaci, specie nel (ristretto) ambito delle élites intellettuali europee: sorsero circoli di cristiani umanisti in tutta Europa, tra i quali spiccarono quello che si riunì a Napoli attorno all’ebreo spagnolo Juan de Valdés, quello che si raccolse intorno al teologo fiorentino Pier Martire Vermigli, o quelli sorti intorno a nobildonne quali Giulia Gonzaga a Mantova e Vittoria Colonna a Roma. La corrente umanistica influenzò profondamente anche l’ambiente accademico di Wittemberg, dove Lutero ebbe quali colleghi illustri esponenti di questo nuovo movimento culturale, specie nell’ambito delle lingue antiche e della correlata esegesi biblica. Si trattò di un aspetto fondamentale per l’affermarsi della Riforma, sebbene, va rimarcato, l’autorità concessa da Lutero alla Scrittura abbia perseguito, nelle intenzioni del riformatore, lo scopo di metterla al riparo da quella soggettività interpretativa nella cui direzione si svilupperà l’esegesi biblica moderna, la quale porrà al centro quella libera coscienza che il monaco agostiniano riterrà sempre asservita al testo biblico inteso come parola divina e per ciò stesso indiscutibile. Si tratta di un aspetto attualissimo, poiché ancora oggi è qui che risiedono la differenza e la divergenza (probabilmente non ricomponibile) tra l’approccio critico e quello di stampo fondamentalista al testo biblico: in ultima istanza, difatti, va compreso da un lato in che senso ci si riferisce alle scritture ebraico-cristiane come “parola rivelata” e, dall’altro, quale ruolo spetti alla coscienza del singolo ed alla sua libertà interpretativa.
Passando ora ad occuparci più da vicino del papato romano inteso come istituzione, va premesso che si trattava in tutto e per tutto di un attore di primo piano sulla scena politica, ragion per cui il ruolo del pontefice era in prima istanza un ruolo di natura politico-economica, assai più che ecclesiastica. La cattedra petrina, in questo periodo, fu occupata da membri delle più rinomate famiglie dell’aristocrazia italica, come i Piccolomini, i Della Rovere e, naturalmente, i De Medici. Specie i pontificati medicei (ovverosia quello di Leone X, responsabile della scomunica di Lutero, e quello di Clemente VII) furono caratterizzati da una notevole apertura della sede romana agli influssi rinascimentali, che determinarono la costruzione della basilica in Vaticano e la presenza nella città eterna di artisti del calibro di Raffaello e di Michelangelo. 4

Ciò, insieme ad un’apertura culturale ed artistica d’eccezione, comportò anche spese faraoniche, per coprire le quali i pontefici, oltre a ricorrere a prestiti contratti con i neonati istituti di credito bancario (in mano a famiglie come i Fugger di Augusta o gli Strozzi di Firenze, solamente per citare due tra le famiglie più note ed influenti), mettevano mano alle ingenti risorse provenienti dalla vendita delle indulgenze, una sorta di abbreviazione delle pene post mortem, acquistabile in moneta sonante. Fu questo abuso, non l’istituzione dell’indulgenza come tale, ciò che scatenò la protesta che condusse Lutero ad affiggere le celeberrime 95 tesi sul portone della sua chiesa di Wittemberg.
3. Lutero: o la Riforma imprevista

Quando il giovane professore e parroco agostiniano affisse al portone della sua chiesa le tesi che denunciavano l’abuso dell’istituzione penitenziale delle indulgenze, peraltro già fatta oggetto di denuncia dai riformati moderati come lo stesso Erasmo, egli non sospettò nemmeno lontanamente l’effetto dirompente che tale gesto avrebbe avuto nella (allora assai convulsa ed intricata, come abbiamo avuto modo di accennare) storia europea. Quella da lui inaugurata era, inizialmente, una abituale “disputa universitaria”, dove il banditore delle tesi invitava altri esponenti del mondo accademico a discuterne insieme con lui. La recente diffusione della stampa, però, contribuì a produrre ripercussioni insperate, anche grazie all’interessamento che la pubblicazione delle tesi generò nell’ambiente dei riformatori moderati, che aiutarono non poco a propagarle. Ciò portò Lutero a redigere e a dare alle stampe, appena un anno dopo, un’edizione commentata delle 95 tesi, denominata Resolutiones. Questo ebbe come conseguenza la convocazione, nel 1519, di una disputa pubblica nella città di Lipsia, dove Lutero si trovò a fronteggiare il teologo Eck, che difendeva le posizioni dell’ortodossia cattolica fedele al papato ed alla prassi delle indulgenze. Una volta ancora emersero le tesi conciliariste, in opposizione all’assolutismo papale: ad ogni modo, nessuno dei due contendenti uscì vincitore ed il conflitto si protrasse negli anni a venire.
Il 15 giugno del 1520 il papa mediceo Leone X scomunica il giovane professore e monaco agostiniano attraverso la bolla Exsurge Domine, nella quale viene condannata come eretica la dottrina della giustificazione sostenuta da Lutero sulla scorta dell’interpretazione dei corrispondenti scritti paolini (in particolare, l’epistola ai Galati e quella ai Romani); Lutero reagirà bruciando pubblicamente la bolla, scatenando l’ira pontificia ed entrando in una situazione di conflitto aperto e frontale. In seguito alla pubblicazione dei suoi primi scritti programmatici giovanili (La cattività babilonese della chiesa, Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca e La libertà del cristiano, dedicata, quest’ultima, proprio a Leone X) il pontefice risponderà con un’ulteriore bolla, la Decet romanum pontificem, mediante cui la rottura tra la chiesa di Roma ed il monaco agostiniano è definitivamente sancita e ritenuta ormai insanabile. 5

Allo scopo di comporre un conflitto che poteva arrivare a minare seriamente l’unità confessionale dell’Impero, Carlo V convocò nel 1521 una Dieta a Worms (ovverosia una assise dei Principi tedeschi presieduta dall’imperatore, la quale aveva funzioni precipuamente legislative), che si concluse con la promulgazione di un editto (l’Editto di Worms, per l’appunto) mediante cui Lutero era bandito dall’Impero.
Un intervento provvidenziale del Principe Elettore di Sassonia, Federico il Saggio, che simulò un rapimento, mise in salvo Lutero, che venne ospitato nel castello della Wartburg. I progetti di indipendenza dei principati tedeschi dal potere imperiale cominciano in tal modo a profilarsi, utilizzando la Riforma iniziata da Lutero come espediente e propulsore.
4. Ripercussioni sociali

Nel rifugio sassone Lutero attese alla traduzione del Nuovo Testamento: a differenza di Erasmo, però, egli decise di redigerne una versione in lingua tedesca, dando così inizio a quel processo di alfabetizzazione popolare che ebbe in Lutero e nella sua infaticabile opera di traduttore uno dei suoi principali fautori.
Ciononostante, come dovrebbe risultare chiaro dallo stesso titolo di uno dei già citati scritti giovanili, mano a mano che procedeva la Riforma iniziata in maniera quasi inconsapevole da Lutero si svolse con l’avallo ed il sostegno (anche militare) della “nobiltà tedesca”, alla quale del resto il monaco doveva la vita. La radice teologica di questo atteggiamento è riscontrabile, una volta ancora, nell’epistolario paolino e deutero-paolino, dal quale i richiami all’obbedienza dovuta all’autorità civile, sebbene svolti in tutt’altro contesto, vengono ripresi e ribaditi (si veda in particolare, a questo riguardo, il passo contenuto in Romani 13:1). La verità è che la riforma instaurata da Lutero fu, se ci si passa il termine, più “paolina” che “gesuana”: i capisaldi teologici posti da Lutero a fondamento della sua riflessione sono tutti riconducibili alla (frammentaria) teologia dell’apostolo e non alla predicazione (di certo assai meno “sistematizzabile”) del maestro itinerante di Galilea.
I nodi, come è risaputo, non tardano a venire al pettine: nel 1524, al termine del suo periodo di “reclusione preventiva”, Lutero si affaccia su un mondo che non riconosce più: alcuni riformatori più radicali, come il suo amico e collega Carlostadio, hanno preso provvedimenti estremamente drastici, provocando la comprensibile preoccupazione dell’aristocrazia feudale tedesca; contemporaneamente, guidati dal giovane prete Thomas Müntzer, i contadini della Foresta Nera si sollevano e, il 7 maggio del 1525, vengono massacrati da truppe mercenarie al soldo dei principi.
Lutero non nascose mai il suo appoggio esplicito a questo sterminio, poiché temeva le conseguenze a cui poteva portare una Riforma in seno alla quale avesse prevalso l’ala radicale, che egli, in maniera dispregiativa, definiva degli “entusiasti” o “fanatici”. In realtà la cosiddetta Riforma radicale contemplò al proprio interno diversi orientamenti, alcuni dei quali (sorti in particolare in Olanda) improntati ad un misurato razionalismo e ad un pacifismo ad oltranza e tutt’altro che espressioni di un fanatismo brutale ed incolto. 6

Una prima conclusione provvisoria di un processo storico che culminerà nei bagni di sangue delle guerre confessionali è rappresentata dalla Dieta di Spira del 1526, in cui il reggente del Sacro Romano Impero Ferdinando I, fratello dell’imperatore, consentirà diritto di cittadinanza e di espressione all’emergente professione di fede luterana entro i confini imperiali. Lutero ottiene così un primo, fondamentale riconoscimento delle sue tesi da parte di quell’autorità civile che egli non mise mai in questione.
Appendice: breve prospetto cronologico Suggerimenti Bibliografici

 SPINI, G. Storia dell’età moderna – Vol. I (1515-1598), Einaudi, Torino, 1965
 LUTHER BLISSETT, Q, Einaudi, Torino, 1999
 BAINTON, R. Lutero, Einaudi, Torino, 2005
SHILLING, H. Lutero. Ribelle in un’epoca di cambiamenti, Claudiana, Torino, 2016