Culti

Omegna - Via F.lli Di Dio 64
Nel Tempio di Omegna, il Culto si tiene tutte le domeniche alle ore 9; Mercoledì 25 Dicembre, Natale, il Culto si terrà alle ore 9

Intra - C.so Mameli 19
Nel Tempio di Intra, il Culto si tiene tutte le domeniche alle ore 11; Mercoledì 25 Dicembre, Natale, il Culto si terrà alle ore 11

10/11/2019

I Tempi della fecondità



Diceva poi questa parabola: «Un tale aveva piantato un fico nella sua vigna e venne a cercarne il frutto e non lo trovò. Disse allora al vignaiolo: “Ecco: da tre anni vengo a cercare frutto presso questo fico e non ne trovo. Taglialo, dunque: perché sfrutta inutilmente la terra”. Quegli, allora, rispondendo gli dice: “Signore, lascialo anche quest’anno, di modo che io possa scavargli intorno e spargere concime: chissà che non porti frutto in futuro. Altrimenti, lo taglierai”» (Lc 13:6-9)

A differenza dei dotti teologi di ogni tempo, Gesù aveva il dono di saper parlare ai semplici senza rinunciare alla profondità, dimostrando, in questo modo, una stima ed un rispetto autentici nei confronti di quante e quanti non avevano avuto accesso all’istruzione, ma che non per questo erano privi di cultura. Provenendo dalle campagne della Galilea, infatti, Gesù sapeva bene, a differenza di noi, che cultura e coltivazione sono non soltanto termini, ma anche pratiche strettamente imparentate: per questo credeva fermamente nella cultura contadina e la preferiva di gran lunga al vaniloquio dei dottori della legge, istruiti ma, spesso, per nulla colti e persino aridi. Muovendosi per i villaggi rurali della sua terra, Gesù ne incontrava la gente, umile, vessata, sovente disprezzata da latifondisti che, quasi senza eccezione, risiedevano nelle città e inviavano periodicamente qualcuno a riscuotere il frutto del lavoro altrui. Gesù, nel suo annuncio itinerante, snobba volutamente i centri cittadini, dove gli scaltri politici di oggi suggerirebbero di dirigersi se l’obiettivo è quello di diffondere un messaggio: ma ciò che Gesù ha da dire si sposa assai meglio con gli spazi, fisici e mentali, della campagna e della sua gente, che accoglie la novità con prudenza, ma senza diffidenza e preconcetto.
A queste donne e questi uomini semplici e dall’intelligenza pronta, Gesù si rivolge con un linguaggio chiaro e senza fronzoli, che egli utilizza per coinvolgere i suoi interlocutori e mai per abbindolarli. Gesù plasma l’annuncio di Dio per le orecchie e, ancor prima, per i cuori di braccianti e contadine: tutto ciò che gli preme è che possano intendere, che abbiano accesso ad un mondo che, normalmente, è loro precluso dagli «addetti ai lavori», dottori della legge e teologi di professione. Il maestro di Nazaret viene ad annunciare un Dio dai piedi scalzi, che con parole semplici calca i sentieri impolverati della disprezzata Galilea: tutte e tutti possono udire la Sua voce e comprendere ciò che dice; nessuno è considerato inetto, ignorante, analfabeta. Gesù presenta loro un Dio che parla una lingua semplice e chiara, priva di formule incomprensibili e di concetti astrusi: un Dio contadino, come loro schietto, diretto, informale. Gesù lo rende una figura finalmente vicina, confidenziale, a portata di mano: e lo fa calandolo nel movimento vivo di un racconto, facendogli recitare un ruolo, portandolo dalla distanza del cielo alla quotidiana concretezza della terra,
dagli spazi angusti del tempio ai confini aperti della campagna. Così, con semplicità e leggerezza, Gesù mette in scena la relazione tra Dio e noi donne e noi uomini, coniando quei racconti che sono noti come parabole, storie all’interno delle quali chi ascolta viene necessariamente coinvolto e da semplice uditore diviene, improvvisamente, protagonista.

Ogni parabola di Gesù nasce da una situazione concreta; quella del nostro racconto è rappresentata da un dialogo che ha per oggetto il tema, delicato e controverso, della conversione: parola, oggi più che mai, abusata, che richiama alla mente costrizioni e violenze.
Ma nel suo uso originario, tanto in lingua ebraica come in lingua greca, questo termine evoca il cambiamento concreto della direzione dei propri passi e la trasformazione profonda del proprio modo di pensare: questo soltanto, per Gesù, è il senso autentico di ogni conversione che, come tale, non può mai nascere dall’imposizione ma soltanto dall’intimo convincimento. Ed è proprio questa convinzione personale ciò che le parabole raccontate da Gesù vogliono sollecitare e trasformare, nel pieno rispetto della libertà di chi ascolta. Gesù si limita ad offrire un’opportunità di riflessione: desidera uditrici ed uditori intelligenti, non ossequiosi; crede che la fede sia questione di comprensione profonda, non di sottomissione della coscienza. Così, attraverso narrazioni che fanno del coinvolgimento il cuore del loro fascino, Gesù invita i semplici che lo ascoltano a rialzare la testa e a fidarsi di quell’intelligenza che posseggono, sebbene le autorità politiche e religiose la disprezzino poiché, in ultima analisi, la temono. A queste donne e a questi uomini restituiti alla piena dignità della loro intelligenza, Gesù narra la parabola che abbiamo ascoltata.

Il primo a comparire sulla scena è il proprietario della vigna che, tra le viti del suo terreno, aveva piantato un fico, allo scopo, naturalmente, che quest’albero portasse frutto. Da tre anni, però, dice il nostro racconto, quest’uomo si avvicina all’albero e ne constata la sterilità. Di una pianta ornamentale, però, il padrone della vigna sembra proprio che non abbia che farsene: a suo giudizio quel fico non fa che occupare inutilmente il terreno. Di più: sfrutta a vuoto la terra, ovvero, letteralmente, fa ciò che compie ogni sfruttatore: rende senza frutti un terreno potenzialmente fruttifero, lo impoverisce e vive alle sue spalle.
Si tratta, in fin dei conti, di una sorta di parassita: si nutre della terra sottostante e non produce nulla. Il parallelo con la realtà delle nostre società dell’opulenza è estremamente calzante: quasi tutti noi abitanti del cosiddetto «primo mondo» conduciamo, in fin dei conti, un’esistenza parassitaria, che si alimenta in eccesso sottraendo ad altre vite l’essenziale, senza che, peraltro, la cosa provochi scandalo o indignazione. Ma l’immagine di Gesù vale anche sotto l’aspetto personale: la sterilità che si nasconde dietro l’apparente rigogliosità delle nostre vite è la fonte più nascosta di un malessere strisciante, di un’insoddisfazione dilagante. Il frutto è l’immagine di ciò attraverso cui ciascuno, ciascuna di noi è in grado di nutrire chi gli sta accanto o le si fa incontro: e constatare la nostra aridità è fonte inevitabile di delusione e frustrazione. Per noi, certamente, ma anche per quel Dio che ci vorrebbe feconde e fruttiferi.

Dietro l’immagine del proprietario della vigna, difatti, si adombra quella di un Dio, come noi, deluso, che di fronte alla constatazione di una sterilità prolungata e avvilente, conclude sconsolato: qui non resta altro da fare che tagliare. Del resto, è ciò che farebbe ogni contadino assennato: e gli uditori di Gesù lo sanno bene, tanto che non rimprovererebbero nulla ad un padrone che ragionasse in questi termini e chiedesse loro, con tutto il diritto, di recidere un albero infruttuoso. Ma ecco che avviene l’inatteso: il vignaiolo, colui che ogni giorno ha lavorato il terreno godendo della vista di quell’albero e, probabilmente, della sua ombra ristoratrice nell’arsura estiva, chiede una proroga: «Un anno soltanto», dice. E non si tratterà di un tempo durante il quale lui resterà a guardare che cosa succederà: no, si rimboccherà le maniche.
Scaverà tutt’intorno al fico, farà tutto il possibile per smuovere il terreno dove affondano le sue radici, lo concimerà: gli dedicherà tempo, cure, amore, che è disposto a sottrarre alla cura della vigna, purché quell’albero all’apparenza inutile possa continuare a vivere. Un anno soltanto: una richiesta che fa appello alla clemenza del proprietario, che intende smuoverne il cuore attraverso l’amore che lega chi lavora la terra alla pianta che gli offre riparo dalla pioggia e ristoro durante la canicola. Il contadino farà di tutto perché quel fico amato torni a portare frutto: ma sa che il suo sforzo e il suo compito si esauriscono nelle cure date con amore e senza risparmiarsi. La certezza di una nuova fecondità non gli è data: l’albero dovrà fare la sua parte, dimostrarsi sensibile a quell’affaccendarsi premuroso intorno alle sue radici. Anche l’amore, unico rimedio efficace alla sterilità, va accolto, avvertito, sostenuto: da solo, persino lui, è incapace di restituire alla vita, di preparare la nuova fioritura.

Gesù vuole credere nella nostra capacità di portare frutto: stempera persino il pessimismo di un Dio sconsolato di fronte alla nostra persistente aridità; chiede ancora del tempo, quel bene così prezioso che ci sfugge come sabbia tra le dita e che stoltamente ci illudiamo che sia infinito.
Di più: al padrone della vigna rivolge parole chiarissime: «Se poi questo frutto non dovesse arrivare, allora potrai tagliare l’albero: ma dovrai farlo Tu – sembra dirgli – da me non aspettarti che lo faccia».
Gesù non conosce la logica dell’ultima spiaggia: è sempre disposto ad offrire una nuova opportunità, a dare fiducia oltre ogni limite ragionevole, a concedere ancora del tempo, anche quando di tempo, ormai, sembra non essercene più.
«Aspetta ancora un poco», chiede per noi Gesù al Padre: crede fermamente che la nostra sterilità possa mutare in fioritura. Se sapremo sentire la premura delle sue mani che smuovono la terra intorno alle nostre radici, se avvertiremo la loro carezza fiduciosa, ciò che giaceva spento nei nostri tronchi secchi tornerà a germogliare, nuova linfa riprenderà a percorrere i nostri rami nudi, rivestendoli di foglie e Dio raccoglierà, insieme con noi, i frutti maturi e dolci del nostro tornare ad essere, proprio come Gesù, l’instancabile vignaiolo, pienamente umani.

[Intra, Domenica della Riforma 2019 - Pastore Alessandro Esposito]

L'umanità di Gesù



08/10/2019

Fine vita, il mondo cattolico si ribelli alle falsità del Vaticano





di Alessandro Esposito, pastore valdese

Quella di mercoledì 25 settembre 2019 è destinata a diventare una data storica, sia sotto il profilo giuridico che sotto l’aspetto ad esso strettamente collegato di un’etica finalmente affrancatasi da direttive moralistiche: la Consulta ha difatti approvato, motivandola in maniera ineccepibile, la liceità del ricorso al suicidio assistito in caso di irreversibilità di una malattia cronica o degenerativa giunta al suo stadio terminale. Naturalmente, come la stessa Consulta ha opportunamente sottolineato, vige ancora in materia un vuoto legislativo che spetterà al Parlamento colmare.

Da Oltretevere, naturalmente, non hanno tardato a far pervenire un parere di cui, credo, il mondo laico non avvertiva la necessità: il cardinale Giovanni Angelo Becciu, accodandosi in questo al parere della Conferenza Episcopale Italiana, ha inteso esprimere il proprio “sconcerto” (sic!) dinanzi a questa decisione del supremo organo giurisdizionale italiano. Naturalmente, il dibattito non viene portato sull’unico terreno legittimo, quello giuridico, bensì trasposto su quello in cui da sempre sguazzano porporati e benpensanti, quello di una morale che scade in becero e saccente moralismo.

Le ragioni invocate (sempre che così le si possa definire) sono sempre quelle di un’astratta “difesa della vita”, intesa alla stregua di un principio e non di una concreta esistenza che, in determinate circostanze, può assumere i connotati tragici dell’assenza di dignità, rispetto alla quale ciascuno è chiamato a tracciare i personali ed insindacabili limiti. Dal Vaticano, invece, giungono dichiarazioni che falsano completamente la realtà, attribuendo, a chi ha portato avanti una battaglia per l’estensione di un diritto, una volontà di morte che è semplicemente falsa e che viene messa al centro di un impianto accusatorio dal sapore inquisitoriale che non sta in piedi in alcun modo.

L’auspicio, che sta via via trasformandosi in pia illusione in chi scrive, è che il mondo cattolico si ribelli e incominci a sdoganarsi da un principio d’autorità la cui imposizione dovrebbe indignare quante e quanti ne vengono fatti oggetto da parte di un’istituzione retriva e dispotica, che di fronte al dissenso, specie se argomentato, adotta, di volta in volta, la tecnica della diffamazione o quella dell’insabbiamento. Le ingerenze reiterate operate dalle gerarchie cattoliche nei confronti delle distinte istituzioni stanti a fondamento della democrazia parlamentare sono inaccettabili e andrebbero accolte con la medesima indifferenza che le autorità vaticane destinano alle istanze che promuovono lo sviluppo di un pensiero adulto e responsabile perché laico.

Lo stesso cardinale Becciu, in un’intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica, fa appello alla possibilità richiamata da alcuni medici cattolici di fare ricorso all’obiezione di coscienza: ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere, pensando al fatto che chi ha l’ardire di richiamarsi alla coscienza è il rappresentante di un’istituzione che la coscienza l’ha sempre svilita, ostacolandone l’insorgere, perseguitandone la libertà ed impedendone l’esercizio. Il Vaticano, in tutta onestà, la coscienza non sa nemmeno dove stia di casa: che ci risparmi, almeno, il triste spettacolo di richiamare in vita un termine che entro i ristretti perimetri del proprio austero dogmatismo esso ha sempre bandito e lasci che ad utilizzarlo sia quell’universo laico grazie al quale, soltanto, è stato possibile compiere qualche passo in direzione di una più profonda comprensione della dignità umana.

(26 settembre 2019)

30/09/2019

“QUALCOSA IN COMUNE”: PICCOLO DIZIONARIO DI SPIRITUALITÀ EBRAICA


Nell’arco di questo trimestre autunnale, presso la Biblioteca Comunale di Verbania, il Pastore Alessandro Esposito terrà un corso dal titolo: “Piccolo dizionario di spiritualità ebraica”. Attraverso questo ciclo di lezioni, le/i partecipanti saranno introdotti ai primi rudimenti dell’ebraico biblico, non soltanto nei suoi aspetti squisitamente linguistici e grammaticali, ma, ancor prima, avventurandosi nell’affascinante universo delle parole e dell’inesauribile fonte di senso che esse rappresentano e custodiscono. Un viaggio, prima ancora che nella lingua, nella cultura e nella spiritualità ebraiche, mondo dalle mille sfumature che finiscono per colorare l’anima di chiunque è disposto a lasciarsene coinvolgere e trasformare. Il corso si articolerà in cinque lezioni della durata di due ore ciascuna, avrà cadenza quindicinale, e si terrà il giovedì dalle 17 alle 19 nei giorni: 17 e 31 ottobre; 14 e 28 novembre; 12 dicembre 

UNITRE DI VERBANIA E DOMODOSSOLA: NARRAZIONE BIBLICA E PSICOLOGIA


Presso le Università della Terza Età di Verbania e Domodossola, il Pastore Alessandro Esposito terrà un ciclo di incontri dal titolo: “I racconti biblici come itinerario psicologico”. 
Nell’arco delle lezioni si cercherà di accostare alcuni testi della tradizione ebraico-cristiana secondo una prospettiva che intenderà metterne in luce i risvolti di carattere psicologico che li contraddistinguono. 
Entrambi i corsi avranno cadenza settimanale e si articoleranno come segue:  

1. Sei lezioni a Verbania, presso Villa Olimpia, il lunedì dalle 14:30 alle 16:30, a partire da lunedì 11 novembre 

2. Dieci lezioni a Domodossola, presso il Liceo Scientifico Statale Giorgio Spezia, il martedì dalle 14:30 alle 16, a partire da martedì 15 ottobre 

STUDI BIBLICI ECUMENICI AD OMEGNA


Insieme con le sorelle ed i fratelli cattolici delle parrocchie di Omegna e Armeno daremo vita a un’attività di approfondimento biblico che si svolgerà due volte al mese presso la Sala CEDI della nostra chiesa e che avrà quale tema: 
"L’integrità della persona come preoccupazione di Gesù". 
Lo studio, nell’arco del mese di ottobre, si svolgerà nelle serate di:  

Martedì 1 Ottobre alle 20:45 Primo incontro del nuovo anno  

Martedì 15 Ottobre alle 20:45 Il risanamento come sfida socio-religiosa 

STUDI BIBLICI ECUMENICI AD INTRA


Insieme con le sorelle ed i fratelli cattolici delle parrocchie di Verbania daremo vita a un’attività di approfondimento biblico che si svolgerà una volta al mese presso la Sala Pestalozzi della nostra chiesa e che avrà quale tema: 
"L’integrità della persona come preoccupazione di Gesù". 
Lo studio si svolgerà in tre momenti:  

1. Lunedì 14 Ottobre alle 20:45 Il risanamento come sfida socio-religiosa  

2. Lunedì 4 Novembre alle 21:00 Liberazioni: tornare in sé per ripartire (I Parte) 

3. Lunedì 2 Dicembre alle 21:00 Liberazioni: tornare in sé per ripartire (II Parte) 

26/08/2019

Testo biblico e un pensiero dalla predicazione su Isaia 55, 6 - 7 tenuta nel Tempio di Intra (Vb) domenica 11 Agosto 2019



"6 Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino. 7 L'empio abbandoni la sua via e l'uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona." (Isaia 55, 6-7)

Isaia viene spesso definito, e a ragione, “il sommo dei profeti” di Israele. Ma ancor più, forse, sarebbe giusto chiamarlo “il sommo dei poeti”: pochi sono infatti coloro che hanno trovato parole come le sue per parlare, parlarci, di Dio. Isaia, da buon poeta, sa che a Dio si addicono assai più le immagini che non i concetti: perché un'immagine dipinge, non definisce, allude, non stabilisce, rimanda, non rinchiude. Isaia dipinge Dio, perché gli interessa che il suo volto si imprima nei cuori più che nelle menti di chi ascolta: poiché nel cuore più che nella mente, secondo la tradizione ebraica di cui Isaia è figlio, si realizza un'autentica comprensione. 
Nel primo appello che ci rivolge, Isaia ci chiede di “cercare il Signore”: perché la fede altro non è che ricerca, costante, interminabile. A Dio non si approda mai definitivamente, di Dio si va in cerca, ogni giorno. La lingua ebraica possiede un termine per indicare questa attitudine di inesausto domandare: darash, la cui radice significa proprio cercare. Per questo la tradizione ebraica è convinta che la comprensione di ogni passo biblico richieda un midrash, ovverosia un’interpretazione, la quale, propriamente, è un andare in cerca di significati inediti, che incoraggiano a svolgere di testi considerati noti una lettura sempre nuova: non esiste un senso stabilito, ma un fiorire di sensi, che sbocciano soltanto sotto i passi di chi ne va in cerca. 
Ma c’è di più: darash, in lingua ebraica, significa anche pregare: perché la preghiera, in verità, non affiora sulle labbra di chi crede di aver trovato Dio, ma su quelle di chi rimane in cerca di Lui, di Lei. La preghiera è atto di fede, soltanto nella misura in cui credere significa continuare a cercare, a interrogarsi, a camminare. Mai, infatti, si è distanti da Dio come quando si crede di averlo trovato; perché Dio non si trova: Dio, soltanto, si lascia trovare. E non dove noi vorremmo, ma dove vuole Lui. È Lui a farsi vicino e a chiederci un'attenzione che si riveli capace di percepirne la presenza, per poi farle spazio. È Dio a venire: a noi Isaia chiede di essere in grado di accoglierlo. 
Quella che Dio ci rivolge attraverso le parole del suo poeta Isaia è un'esplicita esortazione ad andare oltre noi stessi, oltre la nostra presunzione di autosufficienza, oltre i confini delle nostre convinzioni, di ciò che ci illudiamo di aver compreso. Dio ci chiama ad essere chiesa a partire da Lui e da Lui soltanto, liberandoci così dalla prospettiva di una realtà modellata secondo i nostri parametri. Dio è sempre oltre, sempre altrove. Proprio per questo, quindi, come abbiamo detto, sempre da cercare. E ci chiama a farlo insieme, consapevoli del fatto che nessuno può, né potrà mai, possederlo. Dio, infatti, resta un orizzonte verso il quale dirigere i nostri sguardi e spiegare le nostre vele. Il Dio biblico ci chiama, insieme, a dipingere il Suo volto, perché esso possa arricchirsi dei colori dell'altro, delle tonalità e delle sfumature che i nostri sguardi ignorano e che l'altro, soltanto, ci può insegnare a percepire.

Pastore Alessandro Esposito


23/08/2019

"La parola che ci convoca", di Alberto Corsani. 20 agosto 2019




A pochi giorni dall'apertura del sinodo valdese e metodista a colloquio con Eugenio Bernardini, che termina il mandato di moderatore della Tavola valdese: sette anni in cui la società è cambiata e chiede alle chiese nuove strategie per testimoniare l’Evangelo
La prima considerazione riguarda lo stabile che ci ospita, a Torre Pellice, provincia di Torino, ristrutturato poco più di un anno fa. A fine agosto si riempirà di membri del Sinodo, osservatori, bambini schiamazzanti, villeggianti incuriositi, giornalisti spiazzati da una realtà piccola e coesa, ancorché un po’ litigiosa. Al pastore Eugenio Bernardini, che sta per terminare il proprio mandato di moderatore della Tavola valdese, chiediamo perché questo posto si chiami “Casa valdese”.
«In questo quartiere dove ora sorgono il tempio più grande, il Centro culturale, il liceo con le sue “case dei professori”, un quartiere che ora chiamiamo valdese, ma che nell’800 era una successione di prati, venne costruito questo stabile nel 1889, nel 2° centenario del Glorioso Rimpatrio. Da allora il Sinodo si tiene qui ogni anno, prima la sede era a rotazione in una delle chiese delle Valli. Il termine “casa” rispecchia il concetto sobrio, e laico, che i valdesi hanno delle loro istituzioni. Così, qui ci sono parte degli uffici [altri sono a Roma, nda] e la sede legale, ma casa valdese è anche quella di Torino, ci sono anche alcune case per ferie. Per segnalare che la chiesa è la comunità dei credenti convocata da Cristo, e non un edificio, si usa la dizione “tempio”, ricavata dal francese, e in epoca risorgimentale, quando l’analfabetismo era dilagante, al tempio era spesso associata una piccola scuola, in questo similmente alla tradizione metodista».
– Si tratta, dunque, di essere presenti nel vivo di una società che cambia: ma oggi, a questa società disorientata che cosa dicono le chiese?
«Siamo di fronte a dei processi che tendono a un individualismo sempre più accelerato: lo “stile di vita” sembra l’elemento che orienta e pervade ogni ambito dell’esistenza. È vero, le chiese “tradizionali” occupavano uno spazio importante nella vita delle persone: si imparava come si discute, come si accettano le decisioni, come si può stare in minoranza senza offendersi. Il progresso successivo, dalla tv al computer fino agli smartphoneda consultare senza sosta, ci ha portati a un modello di società in cui l’aspetto dell’incontro con gli altri e le altre viene a ridursi. Le chiese “storiche”, tutte, sono da tempo alla ricerca di un antidoto per arginare questo eccesso di individualizzazione: per di più in nome di questo individualismo si promette molto, e si realizza pochissimo. In pratica, fino a qualche decennio fa il “contenitore” (chiesa o partito...), proponendo dei contenuti forti, suscitava anche il piacere di ritrovarsi insieme, mentre oggi conta in primo luogo proprio l’aggregazione, che deve essere empatica, emozionale e riconoscibile a prima vista come soddisfacente. I contenuti sono passati in secondo piano. Le chiese come la nostra un tempo erano dei riferimenti visibili, oggi devono continuamente proporsi per farsi vedere e – difficoltà ulteriore – alcuni fra quelli che potrebbero essere interessati credono di sapere già tutto da altri canali, in realtà sapendo poco. Altre chiese, e anche altre fedi religiose, hanno un appeal diverso, che viene anche semplicemente dal carattere di novità che presentano. Noi siamo alle prese con il rischio del “già visto”».
– Come reagire?
«Paradossalmente, ricorrendo a ciò che abbiamo di più “nostro”: dobbiamo reimparare a dire che la Parola antica, che ci convoca da duemila anni, è sempre moderna e attuale. La lettura biblica quotidiana ci dice che si rivolge a ognuno e ognuna di noi, in quel preciso momento... Questo annuncio è l’unica pratica che possa fornire alla chiesa una legittimazione per la sua esistenza. In questa fase storica, in cui abbondano le associazioni che perseguono scopi molto precisi, dall’ambiente alla cultura, e che magari si esauriscono una volta raggiunto l’obiettivo, dobbiamo continuare a trasmettere una Parola che contiene una sapienza non effimera, di cui nutrirsi. Poi, certo, intorno a questo scopo primario, c’è una serie “cose da fare”, di segnali che possiamo dare al mondo, che vengono anche da altre culture e tradizioni, nella cura, nel sociale: nell’800 si trattava di rispondere all’abbandono dei minori e a dar loro un’istruzione, e poi via via altre necessità sociali fino a quelle che l’attualità ci pone davanti agli occhi quotidianamente. Ma anche questi interventi concorrono a illustrare al mondo quello che resta il compito primario della chiesa: “voi mi sarete testimoni fino all’estremità della terra” (Atti 1, 8)».
– Qualcuno dirà che le chiese fanno politica...
«I rischi ci sono sempre stati e sempre ci saranno, ogni volta che una chiesa parla e agisce. Gesù stesso fu accusato di sovversione politica oltre che di eresia. Con tutti i rischi del caso, l’idea che abbiamo sempre, come valdesi e metodisti, è di stare “sulla frontiera”: abbiamo davanti a noi la percezione di continue divisioni. O si è dentro o si è fuori. La chiesa deve poter indicare una possibilità diversa, non basata sull’esclusione. Una bellissima espressione che Martin L. King rivolgeva ai suprematisti bianchi, negatori dei diritti degli afroamericani, suonava così: noi non vogliamo vincervi, bensì convincervi. Bisogna favorire un vero cambio di mentalità. Le nostre chiese non possono che stare in questa zona di frontiera».
– Come conciliare questo compito con una realtà di chiese che vanno assottigliandosi?
«In questi anni la Tavola valdese ha ritenuto di dotare le nostre chiese di strumenti nuovi, cercando di migliorare la comunicazione e tessendo rapporti nuovi, anche con il cattolicesimo – la visita del papa al tempio valdese di Torino, nel 2015, è solo l’episodio più evidente. Cerchiamo di essere una chiesa che sa stare con gli altri, consapevole di non poter essere da sola. Ci siamo dotati anche di strumenti “oggettivi” per riflettere e capire come vivono le nostre chiese. L’analisi sociologica [ora pubblicata da Claudiana con il titolo Granelli di senape] ci parla di fenomeni e tendenze non nuovi né sconosciuti ma ci consente, con i suoi dati, di lavorare sugli elementi di crisi con meno emotività e quindi con più efficacia. Vediamo che continuano ad arrivare nelle nostre comunità dei nuovi membri adulti: persone in ricerca, disponibili a diventare nuovi valdesi e nuovi metodisti, a trovare una casa in cui compiere un pezzo importante della loro vita. Questo elemento, da valorizzare, purtroppo ha il suo contraltare nelle nostre famiglie, che non riescono a trasmettere la fede alle nuove generazioni. C’è il rischio che le nostre realtà si vadano conformando al “secolo presente”. Ma in risposta a questo conformismo credo che vada rilanciata l’esortazione data dal presidente della Repubblica a Capodanno: nessuno tema di essere buono, di dire parole buone; di fronte al mito della forza e della semplificazione, non rinunciamo a educare e a educarci a non cedere ai pregiudizi, perché essere buoni non è di impedimento alla realizzazione di nessuno e nessuna di noi. “Benedite, e non maledite” (Rom 12, 14)».
Foto di Pietro Romeo

Efesini 5, 8 - 10. Testo e predicazione. Chiese Evangeliche di Trieste. Scala dei Giganti. Domenica 11 Agosto 2019



Care amiche, amici, sorelle e fratelli, nella Parola del Signore, la Bibbia, vi è un libro che ci può aiutare a capire quale possa essere il comportamento più idoneo da seguire per piacere al Signore da parte di tutte/tutti noi, questo libro non è altro che l'epistola dell’apostolo Paolo agli Efesini, Capitolo 5, versetti da 8 a 10 :
“8 perché in passato eravate tenebre, ma ora siete luce nel Signore. Comportatevi come figli di luce 9 - poiché il frutto della luce consiste in tutto ciò che è bontà, giustizia e verità - 10 esaminando che cosa sia gradito al Signore.

Nel brano è scritto che: “Siamo figli di luce e dobbiamo comportarci come figli di luce!”

 

Comportarsi come figli di luce…vuol dire…avere atteggiamenti e modi di fare che rispecchino Dio…perchè Dio è luce e ci ha salvati dalle tenebre facendoci diventare luce in Lui.
Chi non cammina nella luce si troverà nelle tenebre ed è per questo motivo che è importante capire che non ci sono vie di mezzo su chi dobbiamo seguire: o seguiamo Dio…oh seguiamo il peccato! Quindi…giorno dopo giorno dobbiamo scegliere se seguire: “le tenebre”…che significa voler fare quello che ci sentiamo di fare senza seguire i consigli del Signore scritti nella Sua Parola, oppure…seguire la via della “luce”, cioè la via di Dio, la Sua Parola, agendo secondo lo Spirito di Dio e dicendo no al desiderio della mente.                                                                                               
Agendo secondo lo Spirito di Dio e come Gesù Cristo, produrremmo il frutto della “Luce”, il quale consiste in tutto ciò che è: bontà, giustizia, è verità.
(Consideriamo queste tre qualità.)

La Bontà…

La Bontà è una virtù…che è il contrario della cattiveria e del peccato.
La Bontà descrive il cuore della persona, il carattere, il modo di pensare e di agire…è un cuore che desidera il bene degli altri, una persona piena di bontà rispecchia Dio, purtroppo…non sempre riusciamo ad avere un cuore pieno di bontà! 
La chiave per poter essere ripieni di bontà è di considerare e meditare sulla immensa bontà che Gesù Cristo ha dimostrato di avere nel corso della Sua vita di uomo qui sulla terra, così da poterlo imitare.  
Gesù Cristo ha sacrificato sé stesso per liberarci dal peccato, Cristo si dedica giorno e notte ad intercedere per noi davanti al Padre Suo e Padre nostro! Alla luce di tutto ciò possiamo ben dire che la Sua bontà è immensa verso noi peccatori! 
Ricordandoci dunque…della bontà di Cristo…diventarà molto più facile per noi avere bontà verso gli altri e ravvederci ogni volta che il nostro modo di pensare non è pieno di bontà verso gli altri, come quando, anziché agire con bontà, siamo egoisti o usiamo cattiveria verso il nostro prossimo.

La giustizia…

Mentre la bontà riguarda il nostro cuore verso il prossimo, la giustizia riguarda il nostro comportamento giorno dopo giorno nei confronti del prossimo, per far ciò pensiamo al comportamento tenuto da Gesù Cristo nel corso della Sua vita terrena e avremmo chiaramente in mente come dobbiamo comportarci nella vita di tutti i giorni.
Gesù si è comportato sempre con giustizia in ogni aspetto della Sua vita terrena, ogni parola che Egli ha detto, il suo modo di reagire in ogni situazione, il Suo modo di comportarsi quand'era stanco, quando aveva problemi…era sempre con giustizia e nonostante fosse tentato come noi ogni giorno in ogni cosa, non commise mai peccato, ed è per questo che capisce le nostre debolezze, capisce ogni nostra tentazione e ci è vicino per combattere con noi ogni prova che ci si presenta davanti, ma solo se…camminiamo nell’unica via che un figlio di luce deve seguire: “che è quella di camminare nella giustizia”, per far ciò…dobbiamo evitare di peccare in ogni campo della vita, questo vuol dire che dobbiamo comportarci con giustizia ed onestà in tutti i nostri rapporti con il prossimo, nei nostri rapporti in casa, nei nostri rapporti con i colleghi di lavoro, nei nostri rapporti nella società e nei rapporti con i fratelli della Chiesa.

La verità…

Oltre alla bontà e alla giustizia, per camminare come figli di luce dobbiamo anche essere straripanti di verità, ed è un'immensa grazia per noi, se Dio ci ha dato la possibilità di conoscere la verità. Pensate a quanto sarebbe terribile se Dio non ci avesse dato la Bibbia e Gesù Cristo per conoscere cosa è la verità, la vita sarebbe senza certezze! Infatti, pensate a com'è il mondo per coloro che non credono nella Bibbia. Nel mondo troviamo un numero immenso di religioni e di filosofie che cercano di spiegare la vita e l'eternità. Ognuna di esse contraddice l'altra. Umanamente parlando, se non avessimo la rivelazione di Dio, sarebbe impossibile distinguere il falso dal vero. Sarebbe impossibile veramente capire chi è Dio e saremmo nelle tenebre più profonde, per fortuna non è così, Dio si è rivelato al mondo, prima di tutto tramite le Sacre Scritture, e poi, per mezzo di Gesù Cristo. Tramite Gesù Cristo, abbiamo la verità, e perciò, possiamo veramente conoscere Dio come Egli è veramente. In Gesù Cristo vediamo la gloria di Dio, il Quale è pronto a perdonare qualsiasi peccatore che si umilia e si ravvede tramite Suo figlio Gesù Cristo, ma sopratutto, Gesù Cristo deve essere un esempio per noi, così da imitarlo per avere un comportamento di assoluta verità per il motivo che:
“Gesù sempre parlava con verità e si comportava con verità”.
Alla luce di tutto questo, possiamo capire che essere “figli di luce” vuol dire che in ogni campo della vita dobbiamo vivere sempre utilizzando la verità.
Anche in questo caso, non esiste una via di mezzo. O camminiamo nella verità, o camminiamo nella falsità.
Vi sono tanti modi di camminare nella falsità: …“mentire” è una forma di camminare nella falsità… “l'ipocrisia” è falsità…in quanto cerchiamo di apparire ciò che non siamo… “ingannare”…è falsità, tutto questo ci deve far capire che, essere “Figli di luce”, vuol dire: “impegnarsi” allo scopo di vivere la verità in tutto quello che diciamo o facciamo (cfr. Efesini 4:25).
Questo significa, per chi è genitore, vivere ed agire in modo che i propri figli imparino cosa vuol dire agire e vivere nella verità.
Nel matrimonio come nei rapporti con gli altri, dobbiamo agire e dire la verità, per far si che…dal nostro comportamento…tutti sanno di potersi veramente fidare di quello che noi diciamo o facciamo…ma per far tutto ciò…è indispensabile rispecchiare il nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, per il fatto che…Egli è verità, ma sopratutto, Gesù stesso faceva sempre la volontà di Dio, ovvero, ciò che era “Piacevole” a suo Padre.
In altre parole…deve essere quello che “piace molto a Dio”.
Al fine di comprendere meglio la parola “Piacevole”, farò un Esempio: “Immaginate il cuoco di un grande re, questo cuoco…non deve servire al re nessun cibo velenoso, come non deve servire qualcosa che non sia di gradimento al re. Se il cuoco, dovesse cucinare delle pietanze che non siano di gradimento per il Re, sarebbe ben presto licenziato dal suo ruolo di cuoco, quindi…deve scegliere i cibi che più piacciono al re.
Se tutto ciò può essere vero per un cuoco che serve un Re umano, quanto di più noi…che abbiamo il privilegio di servire il Re dei Re…dovremmo scegliere ciò che è più piacevole a Dio e non a noi, il nostro versetto infatti, ci insegna a scoprire ciò che più piace a Dio, dicendoci di esaminare ciò che “piace” oh…accettevole e amabile al Signore!
In pratica…questo vuol dire…che dobbiamo impegnarci a capire, in ogni comportamento della nostra vita, come possiamo piacere a Dio, in modo tale di farlo diventare uno stile di vita, che non sia solo un'azione che si compie una volta sola, ma piuttosto, deve essere un modo di vivere ogni giorno sempre nello stesso modo…e lo possiamo realizzare solo conoscendo sempre meglio la Bibbia ed esaminando ogni nostro comportamento alla luce dei principi biblici.
Qualcuno però…potrebbe avere da ridire su questo modo di fare! … dicendo che dover esaminare ogni nostro modo di fare, sia pesante, ma posso assicurarvi che non è così, per il motivo che tutte e tutti noi, in realtà…facciamo ogni giorno, più o meno le stesse cose.
Per Esempio: …Abbiamo modi di fare al lavoro, modi di fare in famiglia, modi di parlare e tante altre abitudini che facciamo volta dopo volta”…quasi sempre allo stesso modo…giorno dopo giorno”. Ebbene…basta esaminare solo una volta…se quei modi di fare…alla luce dei principi biblici, magari consigliandoci con chi conosce la Bibbia meglio di noi…se i nostri comportamenti…sono veramente piacevoli a Dio senza dover riesaminare la cosa ogni volta; ora…
torniamo all'esempio del cuoco del re…una volta che il cuoco, capisce in che modo il re apprezza un certo cibo, quel cuoco non dovrà sempre informarsi di nuovo, perché sa già…quello che piace al re.        Certamente…un re umano potrebbe cambiare gusti, ma Dio non cambia mai, e perciò quello che piace veramente a Dio oggi, piacerà a Dio anche domani, questo doversi informare tramite la Parola del Signore su come dobbiamo comportarci per piacere al Signore, sarà senz’altro un beneficio per tutti noi, anche per il fatto che, non voler piacere a Dio e non gradire i suoi consigli (cfr. Ebrei 11, 6), può portarci a commettere gli errori di Adamo ed Eva I quali…nel giardino dell’Eden…hanno cercato benedizioni migliori al di fuori delle benedizioni di Dio e anziché trovare benedizioni migliori hanno perso l'immensa gioia, la pace e i benefici della comunione con  Dio stesso, essendo poi stati allontanati dal giardino dell’Eden e dovendo lottare ogni giorno per superare una vita di difficoltà.
Ci sarebbero molte più cose da dire, ma il punto che voglio far notare è questo, è molto importante per ognuno di noi esaminare se stesso alla luce del comportamento di Gesù Cristo verso Dio…per vedere se veramente stiamo camminando come “figli di luce”! Se dovessimo riscontrare…che un comportamento della nostra vita non è secondo bontà, giustizia e verità…confessiamo quel peccato a Dio, per far ciò ci può essere di esempio Dietrich Bonhoeffer che dal campo di prigionia nazista scrisse questa preghiera: “Spirito Santo, / donami la Fede, / che dalla disperazione, dale brame e dai vizi mi salva; / donami l’amore per Dio e per gli uomini, / che estirpa ogni odio e amarezza; / donami la Speranza, / che mi libera dal timore e dallo scoraggiamento. / Insegnami a conoscere Gesù Cristo e a fare il Suo volere”.
Questa preghiera ci può servire come esempio per il motivo che…Dio ci perdona e ci purifica da ogni peccato…e dopo…riprendiamo la via di camminare come “figli di luce” vivendo in maniera da dare piacere a Dio che ha mandato lo Spirito Santo per consolarci e guidarci nella vita di tutti i giorni e alla vera “Luce”…Gesù Cristo, il quale ha sacrificato se stesso sulla croce per salvare tutti noi dal Peccato originale causato da Adamo ed Eva e che vive alla destra del padre per intercedere come avvocato…mediatore e sommo Sacerdote per noi giorno e notte, così che possiamo essere perdonati da Dio.
Camminando come Figli di Luce avremo gioia e felicità nei nostri cuori oggi e nel prossimo futuro. Sia così per tutti noi.
AMEN
Giampaolo Castelletti