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20/10/2022

Predicazione di domenica 16 ottobre 2022 su Efesini 5,15-21 a cura di Marco Gisola

 

15 Guardate dunque con diligenza a come vi comportate; non da stolti, ma da saggi; 16 ricuperando il tempo perché i giorni sono malvagi. 17 Perciò non agite con leggerezza, ma cercate di ben capire quale sia la volontà del Signore. 18 Non ubriacatevi! Il vino porta alla dissolutezza. Ma siate ricolmi di Spirito, 19 parlandovi con salmi, inni e cantici spirituali, cantando e salmeggiando con il vostro cuore al Signore; 20 ringraziando continuamente per ogni cosa Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo; 21 sottomettendovi gli uni agli altri nel timore di Cristo.

 

Recuperate il tempo, ci dice l’apostolo, perché i giorni sono malvagi. Un’espressione un po’ inconsueta “recuperare il tempo”, che può significare: usare bene il tempo, cogliere le occasioni, non lasciarsi scappare le opportunità.

Perché i giorni sono malvagi, aggiunge Paolo, e lo dice ai cristiani di Efeso, luogo dove lui stesso è probabilmente stato in prigione e dunque dove i cristiani non avevano vita facile, visto che mettevano in discussione gli idoli pagani.

Inoltre, il tempo è poco, perché i primi cristiani cedevano che il ritorno di Gesù fosse imminente, e quindi questo poco tempo è anche un tempo speciale, unico.

E a noi, che ci siamo invece abituati all’idea che il regno di Dio tardi e chissà quando verrà, fa bene ascoltare questa indicazione dell’apostolo che ci dice che il tempo che viviamo non è (solo) quello dei giorni e dei mesi che passano, ma il tempo che sta tra la prima venuta di Gesù nel mondo e il suo ritorno, è il tempo dell’attesa del Regno, di cui siamo chiamati a vivere frammenti qui ed ora.

E dunque in questo tempo unico e speciale: comportatevi non da stolti, ma da saggi.

Non come persone che vivono il loro tempo come un banale ripetersi di giorni, di settimane e di anni, ma come il tempo di Dio, un tempo speciale, che Dio ci dona per …

Per che cosa? L’apostolo da almeno tre indicazioni per vivere saggiamente questo tempo che ci è dato da Dio: la prima è “cercare di capire quale sia la volontà del Signore”; la seconda è la gratitudine; la terza è la sottomissione reciproca. Un programmino niente male...!

1. Cercare di capire quale sia la volontà di Dio è il primo lavoro di ogni cristiano, un lavoro che impegna tutta la vita, perché non è mai finito.

Questa è la saggezza secondo l’autore della lettera agli Efesini, la saggezza che si impara alla scuola di Gesù, cioè alla scuola della Parola.

“Cercate di capire” dice l’apostolo. E dove si cerca? Si cerca dove si è stati trovati. Il cristiano cerca perché è stato trovato, da Dio attraverso Gesù Cristo. Se non fossimo stati trovati da Dio non potremmo cercare la sua volontà.

E se Dio ci ha trovato attraverso suo figlio Gesù Cristo, possiamo soltanto cercare in Gesù Cristo.

Non cercare Gesù Cristo, Gesù non dobbiamo cercarlo perché è lui che ci ha trovati, ma cercare in Gesù la volontà di Dio, cercarla cioè nella sua Parola, dunque nella Bibbia.

Non dobbiamo cercare Gesù o Dio in noi stessi, dobbiamo piuttosto cercare noi stessi in lui. In lui troviamo, come in uno specchio, noi stessi, e ci vediamo come colpevoli che sono stati graziati, giudicati che sono stati perdonati, schiavi che sono stati liberati.

E ogni giorno dobbiamo ri-cercarci in lui, ogni giorno dobbiamo ri-cercare la volontà di Dio, perché la nostra piccolezza e la nostra fragilità ci portano a perdere ciò che troviamo.

Dobbiamo cercare anche per evitare di cadere nell’illusione di aver trovato una volta per tutte, di aver imparato già tutto. Il cristiano è discepolo non solo nel senso che segue Gesù, ma anche nel significato letterale di colui o colei che impara da Gesù.

Essere cristiani significa essere alla scuola di Gesù e della sua parola per tutta la vita.

Però, attenzione: non è che si continua a cercare perché non si trova mai. Al contrario, si continua a cercare perché si trova sempre!

Perché nella Parola di Dio si trova sempre la grazia di Dio che è antica e sempre nuova, e si trova sempre qualcosa di nuovo e di prezioso per imparare a vivere il proprio discepolato.

Ogni giorno si trova qualcosa, e ogni giorno si cerca qualcosa di nuovo, perché il tesoro non è mai scoperto del tutto. E soprattutto ogni giorno ci si accorge di essere stati di nuovo trovati dal Signore, con la sua parola di grazia e speranza.

Alla ricerca di questa saggezza appartiene anche l’esortazione a non ubriacarsi. La ragione è che il vino porta alla dissolutezza.

Io credo che questa esortazione non abbia soltanto un valore morale, ma che voglia dirci che il cristiano non deve perdere il controllo di sé e della realtà. Se ti ubriachi perdi il controllo e non sei più tu che guidi le tue scelte.

Ed è curioso che dopo il discorso sul vino venga il discorso sullo Spirito. Quasi a dire che la vita del cristiano deve essere condotta dallo Spirito e non dal vino, o meglio solo dallo Spirito e da nient’altro.

L’ubriacatura ti toglie lucidità e qui si potrebbe aprire il discorso sulle dipendenze di ogni genere, dall’alcol, al fumo alle droghe, che ti tolgono lucidità e tu non sei più padrone di te stesso, ti consegni e diventi schiavo di un padrone che poi fa ti di te quello che vuole.

Non fatelo, dice l’apostolo, consegnatevi soltanto allo Spirito per rimanere liberi e farvi guidare verso la saggezza di Cristo, e non al vino o ad altre sostanze per farvi guidare fuori dalla realtà.

Lo spirito di Dio invece non ti allontana dalla realtà, ma ti aiuta a continuare a cercare la volontà di Dio, anche quando i “giorni sono malvagi”, come dice l’apostolo.

Per opporsi al male che ci circonda, è necessario essere sobri e poter ascoltare la voce dello Spirito.

2. Lasciamo per ultimo il tema della gratitudine e vediamo questa esortazione: “Sottomettetevi gli uni agli altri”.

Calvino commentando questo versetto scriveva che “...non c’è nulla di più contrario allo spirito umano che il sottomettersi agli altri...”.

E in effetti non è un invito allettante quello che ci viene rivolto qui. Noi vorremmo, al contrario, essere padroni di noi stessi, altroché essere sottomessi agli altri!

Eppure proprio qui sta la rivoluzione portata dal cristianesimo, rivoluzione ancora largamente inattuata, perché largamente rifiutata, dai cristiani stessi.

L’evangelo scardina la logica del predominio e propone quella della sottomissione reciproca: “gli uni agli altri”. E proprio il fatto che la sottomissione è reciproca, esclude il predominio.

“Sottomettetevi gli uni agli altri nel timore di Cristo”, ovvero nella sottomissione di tutti a Cristo e alla sua volontà.

Se al di sopra di tutti c’è Cristo, al di sotto di lui non c’è nessun predominio. Dove Cristo è Signore, non ci sono altri signori e dunque si può essere liberamente servi gli uni degli altri.

Siamo chiamati a sotto-metterci, ovvero a metterci sotto, considerare l’altro al di sopra di noi; quando siamo davanti al prossimo dobbiamo mettere tra parentesi noi stessi, metterci sotto di lui, perché nel prossimo è Cristo stesso che ci viene incontro.

Tutt’altro che facile, ma è questo – e niente meno di questo - che ci chiede il Signore.

3. E infine la gratitudine. La gratitudine per il perdono che Dio ci offre in Cristo da cui nasce la vita nuova fatta di fiducia e di speranza, di libertà e di servizio, di amore e riconciliazione.

La gratitudine a Dio perché ci ha offerto la possibilità di vivere questa vita nuova piena di senso e di gioia.

Gratitudine non perché va tutto bene, ma perché anche quando va male, c’è una parola a cui aggrapparsi e che ci aiuta a guardare avanti e a guardare oltre ciò che non va nella nostra vita.

Tutti noi conosciamo persone che non hanno molti motivi per essere grati, e persone che hanno invece molti motivi per essere tristi o arrabbiati, o addirittura disperati.

Noi non possiamo restituire la salute a chi sta male o dare un lavoro a chi lo ha perso, ma possiamo condividere la parola che dona speranza e che crea comunione.

È ben diverso vivere un lutto o una malattia senza speranza e senza comunione, oppure con speranza e circondati dalla comunione delle sorelle e dei fratelli.

Questo è il senso delle parole: parlandovi con salmi, inni e cantici spirituali, cantando e salmeggiando con il vostro cuore al Signore.

La comunione che il Signore ci dona da vivere si esprime nel canto e nella preghiera gli uni per gli altri e gli uni con gli altri.

Comunione che non termina certo quando finisce il culto, ma anzi nel culto nasce e cresce.

Per tutto questo possiamo essere grati al Signore e dunque cercare di comportarci con saggezza, tornare sempre alla scuola della sua parola per cercare di capire quale sia la sua volontà del Signore, imparare a sottometterci - metterci sotto - gli uni agli altri, nell’amore e nella condivisione, e dunque vivere il grande dono della comunione e della speranza.

Questo è il tempo di Dio, l’occasione che il Signore ci dà, di vivere guidati dal suo Spirito e dalla sua parola. Siamo saggi, e non lasciamocelo sfuggire.

06/10/2022

Predicazione di domenica 2 ottobre 2022 su Deuteronomio 8,7-18 a cura di Marco Gisola

 

7 ... il SIGNORE, il tuo Dio, sta per farti entrare in un buon paese: paese di corsi d’acqua, di laghi e di sorgenti che nascono nelle valli e nei monti; 8 paese di frumento, d’orzo, di vigne, di fichi e di melagrane; paese di ulivi e di miele; 9 paese dove mangerai del pane a volontà, dove non ti mancherà nulla; paese dove le pietre sono ferro e dai cui monti scaverai il rame. 10 Mangerai dunque e ti sazierai e benedirai il SIGNORE, il tuo Dio, a motivo del buon paese che ti avrà dato. 11 Guàrdati dal dimenticare il SIGNORE, il tuo Dio, al punto da non osservare i suoi comandamenti, le sue prescrizioni e le sue leggi che oggi ti do; 12 affinché non avvenga, dopo che avrai mangiato a sazietà e avrai costruito e abitato delle belle case, 13 dopo che avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento, il tuo oro e abbondare ogni tua cosa, 14 che il tuo cuore si insuperbisca e tu dimentichi il SIGNORE, il tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù; 15 che ti ha condotto attraverso questo grande e terribile deserto, pieno di serpenti velenosi e di scorpioni, terra arida, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te acqua dalla roccia durissima; 16 che nel deserto ti ha nutrito di manna che i tuoi padri non avevano mai conosciuta, per umiliarti e per provarti, per farti, alla fine, del bene. 17 Guàrdati dunque dal dire in cuor tuo: La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno procurato queste ricchezze. 18 Ricòrdati del SIGNORE tuo Dio, poiché egli ti dà la forza per procurarti ricchezze, per confermare, come fa oggi, il patto che giurò ai tuoi padri.

 

Ringraziare oppure dimenticare. Due modi di vivere opposti, due alternative davanti a cui è posto Israele e noi con lui.

Il popolo d’Israele sta per entrare nella terra promessa, descritta come “un buon paese: paese di corsi d’acqua, di laghi e di sorgenti che nascono nelle valli e nei monti; paese di frumento, d’orzo, di vigne, di fichi e di melagrane; paese di ulivi e di miele; paese dove mangerai del pane a volontà, dove non ti mancherà nulla; […] Mangerai dunque e ti sazierai e benedirai il SIGNORE, il tuo Dio, a motivo del buon paese che ti avrà dato”.

Mangerai, ti sazierai e benedirai il Signore. Questa è la volontà di Dio, il progetto di Dio per Israele: mangiare, saziarsi e benedire il Signore, cioè ringraziarlo, vivere nella gratitudine.

Israele sarà capace di farlo? Sarà capace di benedire il Signore, cioè ringraziarlo per tutti i suoi doni, quando avrà la pancia piena?

Oppure dimenticherà chi è che gli ha dato tutto questo – e qui possiamo dirlo, letteralmente – ben di Dio? Dimenticherà che è Dio che gli ha dato questa terra e questi frutti? Dio conosce il suo popolo e sa che il rischio che esso lo dimentichi è molto alto.

E infatti lo ammonisce: “Guàrdati dunque dal dire in cuor tuo: La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno procurato queste ricchezze”. Dimenticare Dio significa che Israele potrebbe affermare, e dunque pensare, questo, che è lui stesso l’artefice di tutto ciò che ha.

Dimenticare Dio vuol dire che a Dio si sostituisce “io”. Non più Dio: “Dio mi ha donato”, ma io: “io mi sono guadagnato /conquistato/ meritato”.

Dunque: ringraziare Dio, oppure dimenticare Dio e quindi inorgoglirsi, eliminare Dio dalla propria vita e sostituirlo con l’ “io”.

Queste sono le alternative davanti alle quali si trova Israele e davanti alla quale ci troviamo tutti noi: ringraziare o dimenticare, Dio o io.

Oggi nel calendario liturgico che segue il lezionario tedesco, seguito da “Un giorno una parola”, è la festa del ringraziamento per il raccolto (solo che purtroppo Un giorno Una parola non lo scrive…).

Una domenica in cui ci si dovrebbe fermare a ringraziare il Signore per tutti i doni che ci dà attraverso la terra, cioè tutti i frutti della terra, ed è dunque un riconoscimento che ciò che mangiamo e che viene ovviamente anche dal lavoro dell’essere umano, è originariamente dono di Dio, che ha creato tutto ciò.

E questo è anche il tempo chiamato “tempo per il creato” una iniziativa ecumenica che viene portata avanti ormai da diversi anni, da quando le chiese – forse un po’ in ritardo - hanno iniziato proprio a riconsiderare il fatto che il mondo è stato creato da Dio e dunque è suo e non è nostro, perché a noi lo ha affidato per coltivarlo e custodirlo e non consumarlo o distruggerlo.

Le chiese ortodosse celebrano il 1° settembre la festa della creazione, la chiesa cattolica il 4 ottobre ricorda Francesco di Assisi – che per loro è un santo, mentre per noi è un credente che è stato particolarmente sensibile alle creature come dono di Dio.

E in mezzo a queste due giornate in genere cade la festa del ringraziamento per il raccolto che è tipicamente protestante.

Solo che nella società dove molti – io per primo – non sanno fare l’orto e dove si comprano tutto l’anno verdure che sono fuori stagione e che vengono magari dall’altra parte del mondo con enormi costi ambientali per il trasporto, abbiamo perso un po’ questa sensibilità e dunque questa riconoscenza a Dio per i frutti della terra che sono un suo dono.

Il nostro brano di oggi del Deuteronomio ci richiama a questa gratitudine. Ma non lo fa per motivi ecologici (a quei tempi avevano tanti problemi ma non quello ambientale, come abbiamo noi oggi), ma per motivi teo-logici: non riconoscere che i frutti della terra sono dono di Dio, prima che frutto del proprio lavoro, porta a inorgoglirsi e a dimenticare Dio.

E se si dimentica Dio rimane solo l’ “io”, l’essere umano al centro dell’universo. Un errore, anzi un peccato di cui oggi tocchiamo con mano le conseguenze pratiche proprio anche sul piano ambientale.

C’è un altro aspetto di questo brano su cui vorrei fermarmi un momento.

In questo brano Dio promette a Israele non solo il necessario, ma promette abbondanza: mangerai a sazietà, avrai pane in abbondanza, parla del bestiame che si moltiplica e persino di oro e argento.

Ci potremmo chiedere: ma dov’è la sobrietà evangelica in questo brano? In effetti non c’è sobrietà, qui si parla piuttosto di abbondanza.

Da brani come questi è nata anche una teologia che viene chiamata “teologia della prosperità” e che in poche parole dice: più Dio mi benedice, più ho beni in abbondanza.

In pratica la ricchezza come segno della benedizione di Dio. E dunque se sono povero è perché non sono benedetto.

Una teologia pericolosa, perché rischia di giustificare le differenze tra ricchi e poveri e anzi di dare ai poveri la colpa della loro povertà. Mentre sappiamo che la colpa della estrema povertà dei poveri è della abnorme ricchezza dei ricchi.

Su questo direi due cose:

1. Dio vuole il nostro bene, vuole la nostra serenità, la nostra gioia e vuole anche il nostro bene dal punto di vista materiale.

Non dimentichiamoci che chi ascolta queste parole è un popolo che sta vagando nel deserto da quasi quarant’anni, un popolo che sta per entrare nella terra promessa ma che prima era schiavo.

Prima Israele era schiavo, e dunque non possedeva nulla e soprattutto non aveva la libertà. La terra promessa da Dio con tutti i suoi frutti e il benessere che Dio promette è segno e frutto di questa libertà. Uno schiavo non ha nulla;

Le persone libere invece hanno non solo la libertà, ma nell’ottica di Dio, hanno anche tutto ciò che serve loro per vivere bene, a partire dalla terra che possono lavorare.

Dio vuole, vorrebbe, che noi non solo viviamo ma viviamo bene. Dio non vuole che qualcuno viva di stenti. Dio vuole che il suo popolo sia libero e che - mentre prima gli mancava tutto – ora non gli manchi più nulla e dunque viva nella gioia.

Questo è il senso della promessa dell’abbondanza.

2. Ma c’è un secondo aspetto fondamentale: questo Dio lo promette a tutti i membri del popolo d’Israele. Non soltanto a qualcuno.

Tutti devono godere dei frutti della terra e della abbondanza dei frutti. Tutti devono stare bene. Possiamo anche dire che queste promesse rispecchiano un ideale, ma è l’ideale di Dio:

Tutti hanno la libertà, tutti hanno un pezzo di terra da lavorare e – se non dimenticano Dio – da questa terra avranno abbondanza.

Questa è la promessa di Dio per tutti. Non solo per qualcuno a scapito di altri.

Questa è la volontà di Dio per il suo popolo, per tutti i membri del suo popolo.

Questa volontà – basta leggere i libri dei profeti per constatarlo – il popolo non l’ha mai realizzata.

L’uguaglianza tra tutti i membri del popolo è rimasto un ideale, la volontà di Dio è rimasta inattuata, perché qualcuno – anche nell’antico Israele, come in tutti i popoli e in tutte le società – ha preso ciò che non gli spettava e lo ha tolto ad altri.

I profeti si scagliano molto duramente contro chi sfrutta i poveri, chi opprime, chi si arricchisce a scapito degli altri.

Accade nell’antico Israele esattamente quello che accade oggi - anzi che accade da sempre – a livello mondiale: ci sarebbe abbondanza per tutti, le risorse basterebbero perché tutta la popolazione mondiale, persino ora che siamo oltre sette miliardi, vivesse bene.

Ma qualcuno, una minoranza, si accaparra i beni della maggioranza. È così da sempre ed è così ancora oggi, quando una piccola parte della popolazione mondiale ha più ricchezza di tutto il resto degli abitanti del mondo.

Dio vuole il bene dei suoi figli e delle sue figlie, ma di tutti i suoi figli e di tutte le sue figlie. Non vuole il benessere di qualcuno e il malessere, anzi la miseria, di qualcun altro. La prosperità di qualcuno e la miseria di qualcun altro non è la volontà Dio ma anzi è il suo contrario.

Dio ci riempie di doni, il suo creato è meraviglioso e ricchissimo di meraviglie e di risorse. Dio invita il suo popolo, come fece con Adamo ed Eva, a godere dei frutti della terra, a trarne non solo nutrimento, ma anche gioia.

Ma “guardati – ci dice - dal dimenticare Dio al punto da trascurare i suoi comandamenti”, cioè la sua volontà. Guardati dal pensare: questo è mio, questo mi è dovuto, questo l’ho fatto io.

Nel rapporto col creato, nei rapporti economici, nel rapporto col prossimo in generale abbiamo due strade davanti a noi: ringraziare Dio o dimenticare Dio.

Dimenticare Dio vuol dire vivere come se ci fossi solo io, solo noi, solo le persone che mi stanno a cuore e porta allo sfruttamento sia del creato, sia del prossimo.

Essere grati, essere riconoscenti, significa invece riconoscere che la terra è per noi, ma non è nostra; che i doni di Dio sono anche per noi, ma non solo per noi, perché sono per tutti e che il bene degli uni non può significare privazione per altri.

Anche noi come l’antico Israele siamo stati liberati da Dio, che ci ha riempito di doni e ci invita a goderne nella gioia e nella gratitudine, ricordandoci che lui il creatore e il donatore, e che il suo dono è per tutti.

Il Signore ci aiuti a non dimenticarlo e a ringraziarlo ogni giorno che egli ci dà da vivere.

28/09/2022

Culto di domenica 25 settembre, sedicesima dopo Pentecoste, tenuto a Intra con Omegna

 

GALATI 5, 25 – 6, 10

Galati 5, 25 - 26

25 Perciò, se ora viviamo per la potenza dello Spirito Santo, anche la nostra vita deve essere guidata dallo Spirito Santo! 26 Non cerchiamo onori e popolarità, che portano a gelosie e provocazioni.

Galati 6, 1 - 10

1 Fratelli, se scoprite che qualcuno di voi sta commettendo un errore, voi che siete guidati dallo Spirito dovete aiutarlo con dolcezza e umiltà a ritornare sulla strada giusta, tenendo presente che la prossima volta potrebbe capitare anche a voi. 2 Aiutatevi nelle difficoltà e nei problemi, ubbidirete così alla legge di Cristo. 3 Se qualcuno crede di essere troppo importante per sottomettersi a questo insegnamento, s'inganna, anzi non vale proprio niente.
4 Ciascuno si assicuri piuttosto di fare del suo meglio, perché allora avrà la soddisfazione personale di un lavoro ben fatto e non avrà bisogno di paragonarsi a nessun altro. 5 Ognuno di noi deve sopportare i propri errori, i propri pesi, perché nessuno di noi è perfetto! 6 Quelli che imparano la Parola di Dio devono retribuire i propri insegnanti. 7 Non fatevi illusioni, non ci si può beffare di Dio: quello che si semina si raccoglie. 8 Chi vive per soddisfare i propri desideri corrotti, seminerà del male e senza dubbio mieterà la corruzione e la morte spirituale. Chi, invece, semina le buone cose dello Spirito, mieterà dallo Spirito Santo la vita eterna9 Non stanchiamoci allora di fare il bene, perché, a suo tempo, se non ci scoraggiamo e rinunciamo, avremo un raccolto di benedizioni. 10 Questa è la ragione per cui, man mano che si presenta l'occasione, dobbiamo fare sempre del bene a tutti e, in primo luogo, ai nostri fratelli nella fede.

 

 

 

 

Care amiche…care sorelle…cari amici…cari fratelli…oggi abbiamo letto una gran parte della lettera scritta ai Galati  dall’Apostolo Paolo al Cap. 5 e poi i primi 10 vv del Cap. 6, il motivo di questa lettura è dovuta al fatto che nella Parola del Signore (Bibbia), non vi è un altro brano simile che ci mostri…un contrasto molto netto tra lo stile di vita di un credente ancora sotto gli impulsi della natura umana e quindi “schiavo del peccato” (cfr. Gv 8:14) e un credente traboccante di Spirito Santo…il quale serve solo Dio (Rm 1:9). In questi versetti appena letti…Paolo rileva attentamente le 2 differenze presenti nella natura umana e afferma che lo Spirito di Dio e la natura umana peccaminosa…sono opposti e in netto contrasto tra di loro…tanto che per evidenziare la cosa…aggiunge una lista specifica di azioni che sono prodotte dalla natura umana ribelle e peccaminosa opponendola ad un’altra natura umana che invece fa risaltare il “Frutto dello Spirito” ed i suoi effetti.

Questo contrasto è evidente per il fatto che le azioni prodotte dal Frutto dello Spirito, fanno risaltare una condotta che pone Dio al centro della vita del credente ed è governata da un atteggiamento spirituale dove vi è uno spiccato carattere mite, simile a quello di Cristo…questo carattere mite…si sviluppa nei credenti nella misura in cui essi concedono allo Spirito Santo la libertà di cambiare la loro vita.

Per mezzo della Potenza di questo soffio vitale, i credenti sono in grado di combattere e vincere il potere del peccato, godendo i benefici di un’intima e personale comunione con Dio.                          

In contrapposizione alle opere peccaminose della carne, il Frutto dello Spirito comprende vari atteggiamenti da adottare verso quei fratelli incappati in azioni peccaminose, tanto che Paolo nella parte finale del v.1 scrive queste parole: “voi, che siete spirituali, rialzatelo con spirito di mansuetudine” nel senso che:  “voi che siete guidati dallo Spirito dovete aiutarlo con dolcezza e umiltà a ritornare sulla strada giusta”, così che…quel credente…quei credenti che hanno commesso peccati gravi o violazioni morali allontanandosi dalle vie consigliate dal Cristo, vengano guidati a ristabilirsi spiritualmente per rinnovare al Cristo la loro devozione.

Questo cammino, non è privo di difficoltà, può anche essere necessario usare della disciplina, la quale deve essere esercitata con fermezza ma “con dolcezza e umiltà”, ricordandosi però che nessuno è immune da cadute, tra cui anche coloro che sono traboccanti di Spirito Santo.   

In questo cammino, bisogna che “portiamo i pesi gli uni degli altri” cioè “Aiutarsi nelle difficoltà e nei problemi, questo significa che dobbiamo caricarci le preoccupazioni, i problemi e le responsabilità gravose dei fratelli, dobbiamo assistere il fratello o i fratelli nella malattia, nel dolore o nelle difficoltà finanziarie, ma anche pregare intensamente e con costanza affinchè possano avere un aiuto tangibile e pratico, quindi…con queste parole, l'apostolo Paolo ci dice che nessuno deve essere lasciato solo, questo è anche il senso della Chiesa, della comunità dei credenti, una chiesa che si fa accogliente e solidale, piuttosto che giudice e carnefice…

La Chiesa esiste perché ha una missione da compiere…che è quella di essere un luogo di condivisione di ogni persona con le proprie caratteristiche e diversità, il luogo in cui può avvenire la riconciliazione nonostante le molteplici culture di pensiero e di spiritualità, cosicché quando la chiesa esclude i diversi o le persone, tradisce la sua vocazione, perché ha smesso di amare e di aiutare le persone nelle difficoltà e nei problemi. L’amore, invece, riconosce sempre l’altra come una sorella l’altro come un fratello con cui condividere la propria storia, la vita, le sofferenze, le gioie….e condividere i pesi degli altri è una qualità particolarmente gradita al Signore. (Sl 55:22 / 1° P 5:7) soprattutto…Paolo ci fa capire che: “finché ne abbiamo l’opportunità, facciamo del bene a tutti, ma specialmente ai fratelli in fede”. Questo versetto del testo…vuole indicare un programma di vita cristiana che è allo stesso tempo semplice ed esigente, così come tutta la Parola del Signore è sempre semplice ed esigente. È semplice perché è comprensibile ed è alla nostra portata. È esigente perché non ammette trattative o esitazioni. Questa parola ci parla con una stupefacente concretezza, tanto da dirci che “man mano che si presenta l'occasione, dobbiamo fare sempre del bene a tutti e, in primo luogo, ai nostri fratelli nella fede.”, nel senso che…il tempo dev’essere colto…compreso e vissuto…e non sprecato, e oggi…questo è il cammino di ogni persona spirituale.

Al tempo dell’Apostolo Paolo vi erano degli oppositori della sua predicazione i quali dicevano:

Questa è solamente teoria! Non basta!...Perchè devi diventare…devi fare…”, ma ancora oggi…vi sono persone che continuano a dirlo…tanto che…anni fa…è uscito un libro (Libro nero delle chiese) dove sono elencati tutti i peccati commessi da tutte le Chiese, dalla loro nascita fino ai giorni nostri. È un libro dove si parla delle morti che le chiese hanno tante volte provocato, in effetti pochi giorni fa abbiamo ricordato il martirio di Fra Dolcino avvenuto nel 1307.

Ora…il Vangelo risponde a questa sfida in due parole.

La prima: il libro nero esiste, è Storia, ma è Storia anche l’opera di Gesù Cristo, il cui libro della vita ha coperto il libro della morte con la sua misericordia.

 

Secondo: “dobbiamo sempre fare del bene a tutti, principalmente ai fratelli nella fede”

 

Ebbene…fare del bene a tutti, principalmente ai fratelli nella fede…ma non è anche questa teoria!?

No….perchè con questa frase, si intende principalmente fare del bene ai fratelli nella fede e a coloro che, come descritto nel v.6 insegnano la Parola di Dio; quindi…Paolo ci dice che è anche nostro dovere…sostenere con supporto finanziario e materiale quanti servono il Signore con dedizione¹, come i Pastori, i missionari e quanti sono impegnati nel servizio cristiano². Rifiutare loro l’aiuto, avendone i mezzi…significa “seminare” egoismo e “raccogliere” la morte spirituale (vv. 7-9). Provvedere invece…il necessario a chi serve nel ministero della Parola, rientra nei doveri di fare il bene “ai fratelli nella fede” (v.10).    

Se li sosteniamo fedelmente…ovviamente secondo le nostre possibilità e per amore di Cristo…mieteremo a suo tempo (v.9) tra cui la vita eterna (v.8).

Ma…nel “facciamo del bene a tutti”…è anche sottointesa la Chiesa come casa…come famiglia che condivide il pane della parola di Dio, la chiesa come casa aperta che invita, che si fa trovare. Alla chiesa come luogo di riflessione, di fraternità, di libertà, Chiesa aperta a tutti e aperta per tutti. Nel dono di noi stessi…della nostra testimonianza…del nostro aiuto…della nostra fatica…del nostro denaro…del nostro tempo…del nostro affetto e del nostro ascolto.

25 Perciò, se ora viviamo per la potenza dello Spirito Santo, anche la nostra vita deve essere guidata dallo Spirito Santo facendo del bene a tutti

Nulla da togliere e nulla da aggiungere...

 

Lasciamo quindi che lo Spirito ci faccia camminare nella strada del bene di Dio. Sarà faticoso, ma Dio ci promette un raccolto che ci stupirà:

Vivremo…comprenderemo…proveremo…condivideremo…crederemo… faremo…vedremo e riceveremo insieme cose meravigliose…stupefacenti, che non ci possiamo nemmeno aspettare.

Oggi abbiamo compreso, almeno me lo auguro…che  “Aiutarsi nelle difficoltà e nei problemi, significa riconoscere sempre una donna, un uomo, come una sorella e un fratello e che non deve essere mai lasciato solo, anzi dobbiamo condividere la sua propria storia, la vita, le sofferenze, le gioie. 

Aiutarsi nelle difficoltà e nei problemi significa anche Aiutare nelle difficoltà e nei problemi il mondo, cioè…chi muore a motivo della fame o di chi attraversa i mari per fuggire dalla guerra…da violenze sociali…politiche…o dalla povertà estrema…può significare partecipare alla lotta per la fame nel mondo…partecipare affinché siano riconosciuti i diritti delle persone costrette a lasciare tutti i loro affetti perché vittime di egoismo…odio e guerre. Se non ci saremo su questa scena, continueremo a ritenere difficile applicare la Parola di Dio, ma se ci saremo, avremo cominciato ad Aiutare nelle difficoltà e nei problemi gli altri alla gloria di Dio e per il bene di tutti.

 

AMEN!

 ¹ 1° Co 9:14 / 1° Ti 5:18  -  ² 1° Co 9:14 / 3° Gv 6-8  -  Parole 1303

Giampaolo Castelletti

 

 


14/09/2022

Culto Evangelico di domenica 11 settembre 2022 tenuto a Intra (con Omegna) e Luino

 

Luca 10, 25-37

25 Ed ecco, un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova, dicendo: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?» 26 Gesù gli disse: «Nella legge che cosa sta scritto? Come leggi?» 27 Egli rispose: «Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutta la forza tua, con tutta la mente tua, e il tuo prossimo come te stesso». 28 Gesù gli disse: «Hai risposto esattamente; fa’ questo, e vivrai». 29 Ma egli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?» 30 Gesù rispose: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico, e s’imbatté nei briganti che lo spogliarono, lo ferirono e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31 Per caso un sacerdote scendeva per quella stessa strada, ma quando lo vide, passò oltre dal lato opposto. 32 Così pure un Levita, giunto in quel luogo, lo vide, ma passò oltre dal lato opposto. 33 Ma un Samaritano, che era in viaggio, giunse presso di lui e, vedendolo, ne ebbe pietà; 34 avvicinatosi, fasciò le sue piaghe versandovi sopra olio e vino, poi lo mise sulla propria cavalcatura, lo condusse a una locanda e si prese cura di lui. 35 Il giorno dopo, presi due denari, li diede all’oste e gli disse: "Prenditi cura di lui; e tutto ciò che spenderai di più, te lo rimborserò al mio ritorno". 36 Quale di questi tre ti pare essere stato il prossimo di colui che s’imbatté nei ladroni?» 37 Quegli rispose: «Colui che gli usò misericordia». Gesù gli disse: «Va’, e fa’ anche tu la stessa cosa».

 

Che cosa devo fare? Chi è il mio prossimo? Domande, care sorelle e cari fratelli, che il dottore della legge pone a Gesù, ma che in fondo sono le domande che ci facciamo tutti, domande che si fanno e si sono fatti tutti i credenti – ebrei o cristiani, le stesse domande – da sempre.

Che cosa vuole Dio da me, che cosa devo fare per vivere una vita giusta e piena di senso? Così potremmo parafrasare l’espressione “per ereditare la vita eterna”. La vita eterna è l’esito di una vita terrena vissuta nell’ascolto e nell’obbedienza alla volontà di Dio.

Gesù risponde alla prima domanda del dottore della legge con un’altra domanda che lo rimanda alla Scrittura: che cosa leggi nella legge? - gli chiede - ovvero nella Torah, nell’insegnamento che Dio aveva dato al popolo attraverso Mosè.

E lui risponde con precisione citando i due comandamenti dell’amore per Dio e dell’amore per il prossimo – che si trovano rispettivamente nel libro del Deuteronomio e nel libro del Levitico, due versetti che già i rabbini del suo tempo mettevano insieme per riassumere tutta la Torah.

Gesù dunque fa rispondere il dottore della legge stesso alla domanda che aveva posta, e lui dà una risposta perfettamente in linea con le Scritture di Israele.  «Hai risposto esattamente; fa’ questo, e vivrai» reagisce Gesù.

È molto significativo il fatto che la risposta di Gesù – o la risposta del dottore della legge con cui Gesù concorda – sia una risposta profondamente ebraica, radicata nelle scritture ebraiche. È importante sottolinearlo, dopo che per secoli e secoli la fede ebraica è stata ritenuta dai cristiani inferiore o addirittura superata.

Quando ci si chiede che cosa dobbiamo fare per ereditare la vita eterna, cioè per vivere in obbedienza alla volontà di Dio una vita piena e giusta, la risposta del dottore della legge e di Gesù è la stessa. La risposta ebraica e quella cristiana sono la stessa risposta. Anzi: la risposta cristiana è ebraica!

Ed è una risposta fatta da due risposte. Ama Dio e ama il prossimo. La risposta in realtà sono due risposte e non possono che essere due, perché una risposta per un credente non basta. Se ami il prossimo e non ami Dio non sei un credente; ma anche se ami Dio e non ami il prossimo non sei un credente.

Sarebbe più facile avere una risposta soltanto: o solo Dio o solo il prossimo. E invece no, nella fede entri in una relazione triangolare, non in una relazione a due, ma in una relazione a tre: tu, Dio e il prossimo. E non puoi eliminarne uno senza eliminare anche l’altro.

Ecco dunque la risposta alla prima domanda “che cosa devo fare?”: ama Dio e ama il prossimo. È la risposta che il dottore della legge sapeva già, e infatti è lui stesso a rispondersi.

Gesù qui non porta una nuova dottrina, una nuova idea per ereditare la vita eterna, cioè per vivere una vita piena e giusta sotto lo sguardo di Dio. la risposta è sempre quella: ama Dio e ama il prossimo.

Anche noi la sappiamo già, la risposta, ma abbiamo bisogno ogni tanto di rifarci la domanda e di ricevere nuovamente la risposta: ama Dio e ama il prossimo, tutti e due, non solo uno.

Tienili insieme Dio e il prossimo, ama Dio, che ti perdona e ti salva e ama il prossimo, colui incontro al quale Dio ti invia nel mentre che ti perdona e ti salva.

Già, ma chi è il mio prossimo? C’è bisogno di concretizzare il comandamento, non basta rispondere un generico “tutti”. Risposta teologicamente perfetta, ma troppo teorica.

E qui Gesù risponde con una storia, una parabola. Gesù non dà definizioni – come forse il dottore della legge si aspetterebbe – ma racconta una storia. Una storia che parla di strada, di cammino e di un incontro, o meglio di due incontri mancati e di un incontro realizzato.

La risposta non la si trova a tavolino, la si trova per la strada. E per la strada passa chi passa, e non è per forza chi vorremmo o chi ci aspetteremmo noi.

Quella del samaritano è una parabola che spiazza, spiazza sopratutto il dottore della legge; possiamo provare a immaginarci la sua faccia, quando inizia a sentire le parole di Gesù e sente che il sacerdote e il levita non si fermano davanti all’uomo ferito e passano oltre.

E quando sente che invece un samaritano, cioè un membro di una popolazione rivale di Israele e pure giudicata eretica, lui sì, si ferma e presta al ferito le cure di cui aveva bisogno, avrà iniziato a sudare freddo!

La parabola di Gesù non vuole insegnare soltanto chi è il prossimo, ma anche che cos’è l’amore. Il samaritano vede l’uomo ferito e si ferma; l’amore inizia col vedere, ovvero col guardare in un certo modo. il testo dice che “ebbe pietà” di quell’uomo.

“Pietà” in italiano suona male, altri traducono “ebbe compassione”, comunque è un verbo che significa letteralmente “essere toccati fino alle viscere” e che in Luca ha spesso Dio e Gesù come soggetti. Lo sguardo del samaritano è dunque uno sguardo come quello di Dio!

Da questo sguardo nascono fatti concreti. Il samaritano “si prende cura” della vittima dell’aggressione in modo molto concreto, che gli costa anche qualcosa:

mette non solo il suo tempo, ma anche il suo olio, il suo vino, lo carica sulla sua cavalcatura, e poi ci mette anche il suo denaro per pagare la locanda. Amare costa! Costa tempo, fatica e denaro.

L’amore nasce da quello sguardo che vede un essere umano ferito e nulla più. L’amore non si chiede chi sia quell’uomo ferito, quale sia la sua storia e quali siano le sue idee: è un essere umano e basta. L’amore  è gratuito e non chiede nulla in contraccambio.

Quell’uomo ferito era samaritano come lui o ebreo? O forse pagano? Era protestante o cattolico? Cristiano o musulmano, o buddista, o ateo? Bianco o nero? Era ricco o povero? Di destra o di sinistra?

Era un essere umano, una persona, e questo è bastato al samaritano per averne pietà, com-passione, gli è bastato per partecipare al suo dolore e fare qualcosa.

 

Gesù non definisce l’amore, lo racconta. E non definisce nemmeno il prossimo, lo racconta.

Ma alla fine della parabola, Gesù spiazza ulteriormente il dottore della legge e noi con lui: non gli fa la morale della favola, dicendogli: “ecco hai visto, il tuo prossimo è quell’uomo ferito, è qualunque uomo ferito che incontri per caso, ecc. ecc. Che già sarebbe stata una bella lezione!

Gesù fa di nuovo una domanda al dottore della legge, rovesciando i termini della questione. Non chiede chi è il prossimo del samaritano, come forse ci aspetteremmo.

Chiede «Quale di questi tre ti pare essere stato il prossimo di colui che s’imbatté nei ladroni?» Chiede chi è stato il prossimo dell’uomo ferito.

Non chiede chi è il prossimo da aiutare, ma chi è il prossimo che ha aiutato. Rovescia la domanda del dottore della legge. Lui aveva chiesto: chi è il mio prossimo? Gesù chiede: di chi sei tu prossimo? Di chi tu puoi diventare prossimo, farti prossimo?

Insomma: prossimo non lo si è, lo si diventa. Lo si diventa per la strada, nell’incontro, quando il nostro sguardo e i nostri piedi non passano oltre chi si incontra, ma si fermano e incontrano veramente l’altra persona. Il sacerdote e il levita hanno scelto di non diventare prossimi dell’uomo ferito, il samaritano invece sì, e si è fermato.

La parola prossimo come sappiamo vuol dire “vicino”, è quindi un termine relazionale; è la relazione che fa diventare vicini e dunque prossimi l’uno dell’altro.

La “prossimità” si vive in una relazione; a volte si sarà nel ruolo dell’uomo ferito, a volte in quello del samaritano, la relazione non è mai a senso unico.

La parabola ci insegna dunque che il prossimo non lo si sceglie, ma lo si incontra, e quindi non corrisponde ai nostri criteri o ai nostri gusti, ma è colui/colei che Dio stesso sceglie per noi.

Il dottore della legge risponde alla domanda conclusiva di Gesù mostrando di aver seguito Gesù nel suo discorso e forse possiamo pensare che nel dialogo con Gesù egli abbia davvero cambiato prospettiva.

La sua risposta letteralmente suona così: “colui che fece misericordia con lui”: c’è dunque il verbo fare, c’è la misericordia e c’è la relazione = con lui.

Ecco gli ingredienti dell’amore del prossimo: la concretezza, perché l’amore nella Bibbia non è mai solo sentimento, ma è sempre fatti, azione.

La misericordia, cioè lo sguardo che nasce dalle viscere, guardare come Dio guarda e dunque vedere non un samaritano, un ebreo, un protestante, un cattolico, un bianco, un nero, un uomo, una donna, ecc. ma un essere umano.

E la relazione, senza la quale non c’è amore e non c’è prossimo, non si diventa prossimi.

L’ultima parola di Gesù è un invito (rivolto anche a noi) a “fare la stessa cosa”, cioè non più a cercare di definire chi sia il prossimo e chi no, ma ad andare a farsi prossimo di chi Dio ci manda incontro. E non è solo un invito, ma anche un invio: “va’ e fa la stessa cosa”.

Che cosa devo fare? Chi è il mio prossimo? Alla fine la risposta arriva: Vai!

Questo devi fare: devi andare e farti prossimo di chi incontri. Chi sia non importa, non lo scegli tu, perché è Dio che lo sceglie per te.

Tu vai, fermati e guardalo con misericordia. E il Signore ti darà – molto più spesso di quanto pensi – di essere tu guardato con misericordia dal tuo prossimo.

Marco Gisola