«1 Si avvicinarono a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2 I farisei e gli scribi mormoravano: “Costui riceve i peccatori e mangia con loro”. 3 Allora egli raccontò loro questa parabola: 4 “Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? 5 Ritrovandola, se la mette in spalla tutto contento, 6 va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: “Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la mia pecora che era perduta!”. 7 Così, vi dico, ci sarà più gioia davanti a Dio per un peccatore convertito che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (Luca 15:1-7)
Qualcuno sconsiglia vivamente che un pastore si lasci andare a certe “confessioni intime” dinanzi alla propria comunità, ma ormai sapete bene che, personalmente, sono piuttosto restio ad accogliere questo genere di suggerimenti. Felice delle relazioni d'affetto e di fiducia che siamo stati capaci di costruire insieme in questi due anni, mi sento libero di dirvi che questo racconto dell'evangelo secondo Luca mi tocca profondamente. L'evangelo coinvolge necessariamente chi è chiamato ad annunciarlo, prima ancora che i suoi uditori e le sue uditrici. Di più: credo che un buon ascolto sia in una certa misura reso possibile dal coinvolgimento che il predicatore o la predicatrice è in grado di trasmettere. L'evangelo provoca, coinvolge, suscita emozioni spesso contrastanti: e questo perché il suo è un annuncio che si cala nei vissuti personali, li scuote, li interroga. Sì: l'evangelo emoziona; e questo perché esso rende testimonianza di un Dio che si lascia commuovere. Di questo Dio ci racconta la nostra parabola di oggi.
La situazione iniziale viene descritta brevemente ma assai chiaramente: mentre Gesù predicava, ovverosia, mentre raccontava di questo Dio e del suo costante mettersi in relazione con le donne e con gli uomini, molti pubblicani e peccatori, dice il testo, si avvicinavano per ascoltarlo. I pubblicani, al tempo di Gesù, erano coloro i quali riscuotevano le imposte per conto del potere occupante: è evidente, dunque, che non potevano essere ben visti dagli abitanti della regione. I cosiddetti “peccatori”, poi, erano tutti quanti coloro che, per svariati motivi, venivano additati come trasgressori della “legge”: in parole povere, tutti quanti si discostavano da una condotta irreprensibile della propria vita. Scribi e farisei, veri e propri “guardiani dell'ortodossia”, sono ovviamente facili all'indignazione: “Ma com'è possibile” -si chiedono- “che questo sedicente profeta proveniente da Nazareth si intrattenga con persone simili? Una cosa del genere non si è mai vista! Un uomo pio non si mischierebbe mai a gente come questa!”.
Non è un segreto, credo: i guardiani dell'ortodossia esistono anche oggi; e, immancabilmente, vengono ad offrire il loro ritratto di Dio, in tutto e per tutto simile alle più belle statue della scultura greca: perfetto e pietrificato. Un Signore inflessibile, da compiacere attraverso un'esistenza impeccabile, come un abito immacolato: un Dio invadente, soffocante, opprimente, sempre pronto al giudizio, a mettere in evidenza inevitabili imperfezioni. Un Dio che genera insoddisfazione e frustrazione, un Dio a cui guardare con timore e dal cui sguardo si cerca riparo. Un Dio lontano, che bisogna fare attenzione a non deludere o scontentare: un Signore accigliato e facilmente irritabile, duro fino all'insensibilità. Uno che certo non perde tempo appresso ai buoni a nulla. Ecco che Gesù, però, presenta di Dio un ritratto distinto: e lo fa, come di consueto, ricorrendo al linguaggio della parabola. A Gesù, infatti, non piace definire Dio, scattarne un'istantanea, immobilizzarlo nella fissità di una formula: ogni volta che parla di Dio, Gesù ama raccontarlo, restituirne il volto nella mobilità della narrazione. È un Dio in movimento, quello delle parabole: un Dio che ha in orrore la staticità con cui alcuni identificano la Sua immagine. Questo Dio descritto da Gesù viene in cerca di noi ogni qualvolta ci sentiamo smarrite, smarriti; di più: sembra che si faccia più vicino proprio in quegli istanti, in quelle situazioni, in cui noi ci sentiamo lontani da tutto e da tutti, persino da noi stesse, da noi stessi. In quei frangenti difficili e delicati il Dio biblico si mette sulle nostre tracce, segue i nostri passi con premura e discrezione, non ci perde di vista: poi, senza alcun rimprovero, senza rinfacciarci nulla, ci prende sulle spalle e ci riconduce a Sé, riconciliandoci con quegli aspetti di noi e delle nostre vite che fatichiamo a comprendere e ad accettare.
Pastore Alessandro Esposito
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