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16/06/2020

Chiesa Evangelica Metodista di Intra e Omegna LITURGIA PER IL CULTO PUBBLICO DI DOMENICA 7/06/ 2020


«Allora il popolo si radunò (…) sulla piazza antistante alla Porta delle Acque» (Nehemia 8:1)


ACCOGLIENZA E LODE

Nel nome del Padre, che abita in silenzio il cuore più nascosto di ogni dolore, nel cui solco getta il seme da cui fioriscono, per la bontà della Sua mano, inattese, ripetute primavere, in cui trovano sollievo e ristoro i nostri passi stanchi e le nostre speranze deluse.

Nel nome del Figlio, la cui Parola intrisa di dolcezza e il cui gesto pronto vengono a fasciare esistenze ferite, per tornare a donarci uno sguardo fiducioso su vite così spesso incerte e sospese, che Gesù accompagna e rinfranca con passo lieve e sicuro

E nel nome dello Spirito di Dio, soffio che genera la vita e la ridesta nei cuori ogniqualvolta sembra affievolirsi, vento che sospinge i nostri passi verso sentieri inediti, forza che ci innerva e ci sostiene, donandoci respiro e rinnovato vigore. Amen

Invocazione  (Salmo 10:17) -  (David Maria Turoldo)
«O Eterno, Tu esaudisci il desiderio degli umili»

Signore, per Te solo io canto onde ascendere lassù
dove solo Tu sei, gioia infinita
E in gioia si muta il mio pianto quando incomincio a invocarTi
e solo di Te godo, paurosa vertigine
Io sono la Tua ombra, sono il profondo disordine
e la mia mente è l'oscura lucciola nell'alto buio
che cerca di Te, inaccessibile Luce
Di Te si affanna questo cuore
conchiglia ripiena della Tua eco, o infinito Silenzio

(Tratto da O sensi miei, BUR, Milano, 1993, p. 167)


TESTO PER LA PREDICAZIONE

“Allora tutto il popolo si radunò come un sol uomo sulla piazza antistante alla Porta delle Acque e disse a Esdra, lo scriba, di portare il libro dell’insegnamento di Mosè, di cui Dio aveva fatto dono a Israele”  (Nehemia 8:1)


MEDITAZIONE

Ogni storia, personale e comunitaria, possiede dei momenti che la segnano in maniera peculiare e, spesso, indelebile: attimi in cui si sperimenta, talvolta, lo smarrimento, oppure si ricorda con nostalgia una carezza, avendo quasi l’impressione di avvertirla nuovamente a sfiorarci sottopelle. Nei labirinti della memoria questi ricordi si rincorrono e si intrecciano, sino a darci come l’impressione che ogni dolore ci abbia raggiunto soltanto perché potessimo avvertire quella carezza che lo segue e che gli dona, per un istante, la parvenza di un senso.
Per il popolo di Israele questo taglio sul vivo ebbe il volto dell’esilio: una quarantena vera e propria, che abbracciò quattro decenni, lo spazio di una generazione. In un lasso di tempo così lungo, molte sono le cose che accadono e più ancora le ripercussioni che gli avvenimenti hanno sugli animi: i figli di alcuni dei deportati in Babilonia si integrarono nel nuovo contesto, finirono con l’amarne i luoghi e la cultura, e non desiderarono fare ritorno a Gerusalemme. Del resto, ormai, dell’antica città dei padri non possedevano che l’eco lontana di racconti sospesi tra memoria e mito, più simili a favole che a storie degne di credito: il loro universo, nel frattempo, era cambiato e aveva assunto il volto affascinante di Babilonia, con i suoi giardini pensili e quell’inebriante fragranza di spezie che ne inondava i vicoli. Perché lasciarla? Non ve ne era motivo. E difatti, nel cuore di quella terra fertile abbracciata tra due fiumi, fiorì l’altra storia di Israele, quella che i testi biblici non narrano, che prese poi forma nelle sinagoghe e nelle loro scuole, dove si imparava a leggere e a interpretare il testo biblico con fantasia e libertà, sino a dar vita a quel mosaico variopinto, fatto di infinite e vivaci discussioni, che prese il nome di Talmud.
Altri, nel frattempo, decisero invece di far ritorno a Gerusalemme: tutto, però, era stato distrutto della città amata; in particolare le mura e il tempio. Ecco che allora gli esuli, di rientro da una quarantena sfibrante, si risolvono immediatamente a metter mano a quel cumulo di macerie, per dedicarsi a una delle arti più nobili e rinfrancanti che la vita ci offre di sperimentare: la ricostruzione, che non riguarda soltanto edifici e strade, ma – prima ancora, forse – stati d’animo, tradizioni, speranze infrante. Ce la racconta in maniera vivida e carica d’emozione un libro ricco di descrizioni dettagliate, che va sotto il nome del governatore che guiderà il ritorno degli esuli: Nehemia. All’inizio del capitolo otto dell’omonimo libro, leggiamo:

"Allora tutto il popolo si radunò come un sol uomo sulla piazza antistante alla Porta delle Acque e disse a Esdra, lo scriba, di portare il libro dell’insegnamento di Mosè, di cui Dio aveva fatto dono a Israele"

A celebrare il ritorno e la ricostruzione c’è il ritrovarsi, che prevede, come in ogni festa che si rispetti, un regalo da scartare: questo dono è rappresentato dal libro che reca tra le sue righe parole che attendono di staccarsi dalle pagine per librarsi in volo e raggiungere cuori in cui dimorare e continuare a scavare – come più tardi avrebbe detto Gesù – fiumi d’acqua viva. C’è un aspetto curioso, però, a dominare la scena: l’apertura del dono viene fatta all’aperto, nonostante i lavori di ricostruzione del tempio abbiano già avuto termine. Così come noi oggi, sia pure di ritorno da un esilio assai più breve, Israele si riunisce all’aperto, e non entro lo spazio, per così dire, “consacrato” all’azione cultuale: e questo, probabilmente, perché gli insegnamenti di cui si darà lettura riguardano la vita assai prima che il culto.
Sono parole rivolte agli animi per rinfrancarli e farli vibrare, parole che cercano la vastità del cielo per danzare e cuori pronti all’ascolto come spazi sconfinati, da ampliare costantemente. Il Dio biblico manterrà sempre i tratti del Dio che predilige gli spazi aperti, come aveva fatto quando parlò ad Abramo e a Mosè, e come farà attraverso le labbra di Gesù, infaticabile viandante che, sotto la volta del cielo, annuncerà a pescatori e contadine il volto di un Dio più grande del tempio, restio ad accettare i vincoli del sacro. La Parola si spande nelle libere distese di cieli aperti e di quei cuori che, figli suoi, ne conservano la vastità e l’anelito: senza l’invito all’ascolto e alla ricerca sempre rinnovata di un senso, lo stesso spazio del tempio non sarebbe che un involucro vuoto, a rivestire il nulla. Corpo di Dio è la Parola, come Lui pregnante e sottile, densa di significato e inafferrabile, nata per intraprendere il viaggio – mai concluso, sempre in atto – da cuore a cuore.
Gli esuli rincasati in una Gerusalemme irriconoscibile sotto il manto delle sue macerie, la riedificano e, una volta rimessa in piedi, mettono mano a una più difficile e delicata opera di ricostruzione: quella di animi gettati nello sconforto, che vengono rinfrancati all’aria aperta attraverso l’ascolto di una Parola libera e incontenibile, che insieme sprona e accarezza. Il luogo scelto non è casuale: una porta, spazio di confine, feritoia che consente l’ingresso come l’uscita. E noi siamo questo: esseri di confine, perennemente sospesi su soglie che, talvolta, la vita ci costringe ad attraversare, chiamandoci ad abbandonare lo spazio rassicurante di quelle mura che, in verità, non danno se non l’illusione del riparo. La Parola dischiude varchi nelle mura, dà respiro e apertura, ci fa comprendere che oltre la cinta ci sono universi, storie, che chiedono ascolto e asilo e che portano novità.
Ecco perché la chiesa non è il tempio, ma la comunità riunita sulla soglia, attenta a non chiudere quegli spiragli che le donano respiro e uno sguardo più ampio, capace di travalicare mura che ne restringono gli orizzonti.
E la porta, nel nostro testo, possiede un nome: è chiamata Delle Acque, perché l’ascolto della Parola farà scaturire zampilli che ristoreranno una sete antica, che domanda, inesausta, il senso: quello stesso che sfugge e si inabissa quando un dolore muto lo ricopre, quello stesso che riemerge inatteso, improvviso, quando il soffio di Dio riattizza le braci sopite di una speranza infranta. La Parola che affiora da quegli insegnamenti antichi che tornano a risuonare sulla soglia di una porta è come acqua di sorgente che disseta, come fonte che chiama a sé per tornare, ogni volta di nuovo, ad attingere a lei per abbeverarsi. Potrà capitare che, per un tempo, continui a scorrere inavvertita sotto la superficie intatta della roccia: ma non si estinguerà; attenderà, soltanto, di essere portata nuovamente alla luce.  
Ci reca, dolce, l’eco di questo riaffiorare Donata Doni, là dove scrive:
Ti cerco nelle radici della mia pena, nella notte dei sensi,
nel bagliore che accende la mente e il cuore
Disperi la mia vita. Non sei mai bella come la struggente voglia di cercarti,
né semplice come la roccia, l’acqua, lo stelo,
né vera come l’anima che manifesti.
Ma sei tutto, Parola: dolore dell’uomo, amore di Dio

Alessandro Esposito – Domenica 7 Giugno 2020


PREGHIERA DI INTERCESSIONE
In questo tempo durante il quale molte sono state le risorse che sono venute a mancare, anche la vita della nostra comunità è risultata più esposta a quella fragilità che intesse di sé ogni realtà. Siamo tornati, così, a scoprire il valore delle piccole cose, del gesto gratuito e spontaneo che permette a ciò che è minimo di continuare a sussistere. Per questo oggi mettiamo insieme i piccoli granelli che in tempo di difficoltà siamo riusciti a serbare, perché, nel riprendere la gioiosa fatica del cammino, quanto sapremo condividere si riveli capace di scacciare via la preoccupazione, rendendo leggeri i nostri passi lungo il sentiero di un evangelo vissuto e annunciato come comunità di discepole e di viandanti. Amen

BENEDIZIONE (Isaia 43:2-4)
Quando dovrai attraversare le acque, Io sarò con te
e quando attraverserai i fiumi essi non ti sommergeranno
Quando camminerai nel fuoco non rimarrai bruciato
e la fiamma non ti consumerà
Perché Io sono il Signore, il tuo Dio
Perché tu sei prezioso ai Miei occhi
e Io ti amo

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