«Allora il popolo si radunò (…) sulla piazza
antistante alla Porta delle Acque» (Nehemia 8:1)
ACCOGLIENZA E LODE
Nel nome del Padre, che abita in silenzio il
cuore più nascosto di ogni dolore, nel cui solco getta il seme da cui
fioriscono, per la bontà della Sua mano, inattese, ripetute primavere, in cui
trovano sollievo e ristoro i nostri passi stanchi e le nostre speranze deluse.
Nel nome del Figlio, la cui Parola intrisa di
dolcezza e il cui gesto pronto vengono a fasciare esistenze ferite, per tornare
a donarci uno sguardo fiducioso su vite così spesso incerte e sospese, che Gesù
accompagna e rinfranca con passo lieve e sicuro
E nel nome dello Spirito di Dio, soffio che
genera la vita e la ridesta nei cuori ogniqualvolta sembra affievolirsi, vento
che sospinge i nostri passi verso sentieri inediti, forza che ci innerva e ci
sostiene, donandoci respiro e rinnovato vigore. Amen
Invocazione (Salmo 10:17) - (David Maria Turoldo)
«O Eterno, Tu esaudisci il desiderio degli
umili»
Signore, per Te solo io canto onde ascendere
lassù
dove solo Tu sei, gioia infinita
E in gioia si muta il mio pianto quando
incomincio a invocarTi
e solo di Te godo, paurosa vertigine
Io sono la Tua ombra, sono il profondo disordine
e la mia mente è l'oscura lucciola nell'alto
buio
che cerca di Te, inaccessibile Luce
Di Te si affanna questo cuore
conchiglia ripiena della Tua eco, o infinito
Silenzio
(Tratto da O sensi miei, BUR,
Milano, 1993, p. 167)
TESTO PER LA PREDICAZIONE
“Allora tutto il popolo si radunò come un sol uomo sulla piazza antistante
alla Porta delle Acque e disse a Esdra, lo scriba, di portare il libro
dell’insegnamento di Mosè, di cui Dio aveva fatto dono a Israele” (Nehemia 8:1)
MEDITAZIONE
Ogni storia, personale e comunitaria, possiede dei momenti che la segnano
in maniera peculiare e, spesso, indelebile: attimi in cui si sperimenta,
talvolta, lo smarrimento, oppure si ricorda con nostalgia una carezza, avendo
quasi l’impressione di avvertirla nuovamente a sfiorarci sottopelle. Nei
labirinti della memoria questi ricordi si rincorrono e si intrecciano, sino a
darci come l’impressione che ogni dolore ci abbia raggiunto soltanto perché
potessimo avvertire quella carezza che lo segue e che gli dona, per un istante,
la parvenza di un senso.
Per il popolo di Israele questo taglio sul vivo ebbe il volto dell’esilio:
una quarantena vera e propria, che abbracciò quattro decenni, lo spazio di una
generazione. In un lasso di tempo così lungo, molte sono le cose che accadono e
più ancora le ripercussioni che gli avvenimenti hanno sugli animi: i figli di
alcuni dei deportati in Babilonia si integrarono nel nuovo contesto, finirono
con l’amarne i luoghi e la cultura, e non desiderarono fare ritorno a
Gerusalemme. Del resto, ormai, dell’antica città dei padri non possedevano che
l’eco lontana di racconti sospesi tra memoria e mito, più simili a favole che a
storie degne di credito: il loro universo, nel frattempo, era cambiato e aveva
assunto il volto affascinante di Babilonia, con i suoi giardini pensili e
quell’inebriante fragranza di spezie che ne inondava i vicoli. Perché
lasciarla? Non ve ne era motivo. E difatti, nel cuore di quella terra fertile
abbracciata tra due fiumi, fiorì l’altra storia di Israele, quella che i testi
biblici non narrano, che prese poi forma nelle sinagoghe e nelle loro scuole,
dove si imparava a leggere e a interpretare il testo biblico con fantasia e
libertà, sino a dar vita a quel mosaico variopinto, fatto di infinite e vivaci
discussioni, che prese il nome di Talmud.
Altri, nel frattempo, decisero invece di far ritorno a Gerusalemme: tutto,
però, era stato distrutto della città amata; in particolare le mura e il
tempio. Ecco che allora gli esuli, di rientro da una quarantena sfibrante, si
risolvono immediatamente a metter mano a quel cumulo di macerie, per dedicarsi
a una delle arti più nobili e rinfrancanti che la vita ci offre di
sperimentare: la ricostruzione, che non riguarda soltanto edifici e
strade, ma – prima ancora, forse – stati d’animo, tradizioni, speranze infrante.
Ce la racconta in maniera vivida e carica d’emozione un libro ricco di
descrizioni dettagliate, che va sotto il nome del governatore che guiderà il
ritorno degli esuli: Nehemia. All’inizio del capitolo otto dell’omonimo libro,
leggiamo:
"Allora tutto il popolo si radunò come un sol uomo sulla piazza
antistante alla Porta delle Acque e disse a Esdra, lo scriba, di portare il
libro dell’insegnamento di Mosè, di cui Dio aveva fatto dono a Israele"
A celebrare il ritorno e la ricostruzione c’è il ritrovarsi, che prevede,
come in ogni festa che si rispetti, un regalo da scartare: questo dono è
rappresentato dal libro che reca tra le sue righe parole che attendono di
staccarsi dalle pagine per librarsi in volo e raggiungere cuori in cui dimorare
e continuare a scavare – come più tardi avrebbe detto Gesù – fiumi
d’acqua viva. C’è un aspetto curioso, però, a dominare la scena: l’apertura
del dono viene fatta all’aperto, nonostante i lavori di ricostruzione del
tempio abbiano già avuto termine. Così come noi oggi, sia pure di ritorno da un
esilio assai più breve, Israele si riunisce all’aperto, e non entro lo spazio,
per così dire, “consacrato” all’azione cultuale: e questo, probabilmente,
perché gli insegnamenti di cui si darà lettura riguardano la vita assai prima
che il culto.
Sono parole rivolte agli animi per rinfrancarli e farli vibrare, parole che
cercano la vastità del cielo per danzare e cuori pronti all’ascolto come spazi
sconfinati, da ampliare costantemente. Il Dio biblico manterrà sempre i tratti
del Dio che predilige gli spazi aperti, come aveva fatto quando parlò ad Abramo
e a Mosè, e come farà attraverso le labbra di Gesù, infaticabile viandante che,
sotto la volta del cielo, annuncerà a pescatori e contadine il volto di un Dio
più grande del tempio, restio ad accettare i vincoli del sacro. La Parola si
spande nelle libere distese di cieli aperti e di quei cuori che, figli suoi, ne
conservano la vastità e l’anelito: senza l’invito all’ascolto e alla ricerca
sempre rinnovata di un senso, lo stesso spazio del tempio non sarebbe che un
involucro vuoto, a rivestire il nulla. Corpo di Dio è la Parola, come Lui
pregnante e sottile, densa di significato e inafferrabile, nata per
intraprendere il viaggio – mai concluso, sempre in atto – da cuore a cuore.
Gli esuli rincasati in una Gerusalemme irriconoscibile sotto il manto delle
sue macerie, la riedificano e, una volta rimessa in piedi, mettono mano a una
più difficile e delicata opera di ricostruzione: quella di animi gettati nello
sconforto, che vengono rinfrancati all’aria aperta attraverso l’ascolto di una
Parola libera e incontenibile, che insieme sprona e accarezza. Il luogo scelto
non è casuale: una porta, spazio di confine, feritoia che consente l’ingresso
come l’uscita. E noi siamo questo: esseri di confine, perennemente sospesi su
soglie che, talvolta, la vita ci costringe ad attraversare, chiamandoci ad
abbandonare lo spazio rassicurante di quelle mura che, in verità, non danno se
non l’illusione del riparo. La Parola dischiude varchi nelle mura, dà respiro e
apertura, ci fa comprendere che oltre la cinta ci sono universi, storie, che
chiedono ascolto e asilo e che portano novità.
Ecco perché la chiesa non è il tempio, ma la comunità riunita sulla soglia,
attenta a non chiudere quegli spiragli che le donano respiro e uno sguardo più
ampio, capace di travalicare mura che ne restringono gli orizzonti.
E la porta, nel nostro testo, possiede un nome: è chiamata Delle
Acque, perché l’ascolto della Parola farà scaturire zampilli che
ristoreranno una sete antica, che domanda, inesausta, il senso: quello stesso
che sfugge e si inabissa quando un dolore muto lo ricopre, quello stesso che
riemerge inatteso, improvviso, quando il soffio di Dio riattizza le braci
sopite di una speranza infranta. La Parola che affiora da quegli insegnamenti
antichi che tornano a risuonare sulla soglia di una porta è come acqua di
sorgente che disseta, come fonte che chiama a sé per tornare, ogni volta di
nuovo, ad attingere a lei per abbeverarsi. Potrà capitare che, per un tempo, continui
a scorrere inavvertita sotto la superficie intatta della roccia: ma non si
estinguerà; attenderà, soltanto, di essere portata nuovamente alla
luce.
Ci reca, dolce, l’eco di questo riaffiorare Donata Doni, là dove scrive:
Ti cerco nelle radici della mia pena, nella notte dei sensi,
nel bagliore che accende la mente e il cuore
Disperi la mia vita. Non sei mai bella come la struggente voglia di
cercarti,
né semplice come la roccia, l’acqua, lo stelo,
né vera come l’anima che manifesti.
Ma sei tutto, Parola: dolore dell’uomo, amore di Dio
Alessandro Esposito – Domenica 7 Giugno 2020
PREGHIERA
DI INTERCESSIONE
In
questo tempo durante il quale molte sono state le risorse che sono venute a
mancare, anche la vita della nostra comunità è risultata più esposta a quella
fragilità che intesse di sé ogni realtà. Siamo tornati, così, a scoprire il
valore delle piccole cose, del gesto gratuito e spontaneo che permette a ciò
che è minimo di continuare a sussistere. Per questo oggi mettiamo insieme i
piccoli granelli che in tempo di difficoltà siamo riusciti a serbare, perché,
nel riprendere la gioiosa fatica del cammino, quanto sapremo condividere si
riveli capace di scacciare via la preoccupazione, rendendo leggeri i nostri
passi lungo il sentiero di un evangelo vissuto e annunciato come comunità di
discepole e di viandanti. Amen
BENEDIZIONE
(Isaia
43:2-4)
Quando
dovrai attraversare le acque, Io sarò con te
e
quando attraverserai i fiumi essi non ti sommergeranno
Quando
camminerai nel fuoco non rimarrai bruciato
e
la fiamma non ti consumerà
Perché
Io sono il Signore, il tuo Dio
Perché
tu sei prezioso ai Miei occhi
e
Io ti amo
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