Tutte e
tutti noi sappiamo che, la tradizione cristiana, in questa settimana si ricorda
la sofferenza di Gesù, ed è per questo motivo che, la ragione principale per la
quale in questi giorni ci vengono riproposti i testi biblici sulla Passione di
Gesù, cioè la via che porta alla mattina di Pasqua e alla risurrezione è una
sola, questa via passa per il Giovedì Santo e il Venerdì Santo, che la
tradizione ricorda quale: “La lavanda dei Piedi” e l’“Ultima Cena”, che
sancisce anche l’ultimo incontro di Gesù con i suoi discepoli, dopo di che,
come dice la scrittura avverrà la cattura di Gesù, quindi, una strada che passa
obbligatoriamente per Giovedì, Venerdì e Sabato, se non comprendiamo meglio
questi giorni, non comprenderemo nemmeno la Pasqua; nella mentalità odierna si
cerca di “avere tutto e subito”, arrivare al successo senza passare per la
porta stretta, se usassimo questa mentalità anche per la Pasqua, nel senso di
non passare per il “Calvario” (Golgota), ecco che perderemmo il senso della
presenza di Cristo nella nostra vita.
Questa sera
lascerò che sia lo scritto del Pastore Alessandro Esposito a condurci per mano
in questa prima serata dedicata alla “Lavanda dei Piedi” con il testo di Marco
capitolo 14 versetto 32 e poi i versetti da 35 a 36 interamente tradotti dall’ebraico
e la sua predicazione.
E vengono in un campo, chiamato
Getsemani. E dice ai suoi discepoli: “Sedete qui, fin quando preghi” (...) Ed
essendo andato un po' più avanti, si gettò a terra e pregava perché, se fosse
possibile, passasse da lui quell'ora. E diceva: “Abbà, Padre, tutto ti è
possibile: allontana da me questo calice. Pure, non come voglio io, ma come Tu
vuoi”
(Marco 14:32.35-36)
Cammina, Gesù, come ha fatto sempre.
Lo fa insieme con le donne e con gli uomini che da tempo, ormai, lo seguono in
questo perenne itinerare. Soltanto il paesaggio è cambiato: dalle aperte
campagne della Galilea al cielo chiuso di Gerusalemme, stretto fra i muri dei
vicoli. Senso di soffocamento, di oppressione: mura che restringono la libertà
dello sguardo e dei movimenti. Gesù si sente animale in gabbia dentro la città:
e allora decide di uscirne, di andare in cerca di quella terra profumata che
per lui è tutto: è cresciuto tra i suoi odori; quelli artificiali della città
non gli appartengono, lo nauseano. Cerca rifugio tra gli ulivi antichi, tra i
loro tronchi nodosi, che recano come ferite i segni del tempo. Corre là, a
sentire la frescura della notte, a percepire la brezza che accarezza i rami e
gioca con le foglie. Sa che tra quegli alberi potrà udire più distintamente la
voce silenziosa di Dio, le vibrazioni con cui il suo cuore sobbalza per poi,
d'improvviso, acquietarsi. Ha bisogno d'aria, Gesù; di quel vento della sera
che gli accarezza il volto e i ricordi; di quelle tenebre che proteggono le
nostre solitudini quando anche nel cuore, piano, si fa notte. Ed è notte nel
cuore di Gesù, ed è solitudine.
Esce con i suoi da Gerusalemme; ma da
solo va incontro a quel buio che gli altri, ancora, non vedono. Solo: perché
soli stiamo dinanzi a Dio quando il cerchio della vita sta per stingersi. Solo:
perché ci sono luoghi dell'anima, istanti dell'esistenza, in cui non c'è spazio
se non per Dio e per il Suo silenzio dentro di noi.
Giunti in quel podere carico di
fragranze, Gesù chiede ai suoi di sedersi: che lo attendano là. Lui ha bisogno
di ritagliarsi i suoi istanti con Dio, di stare un po' con Lui, con Lei: senza
interferenze, stretto come in un abbraccio intimo e segreto. Soli, come si
desidera stare con l'amato. Allora va un po' più avanti, si inoltra tra gli
ulivi, tra le figure che i rami disegnano per terra, nella notte, quando la
luna intesse con loro la sua trama d'ombre e di luce. Così, tra luce ed ombra,
Gesù va incontro a Dio: e cerca di afferrare la Sua voce nel respiro della
sera.
Ecco che però, avanzando a passi
lenti, pesanti, d'improvviso Gesù cade a terra: è prostrato, nell'animo prima
che nel corpo, e lascia che Dio lo veda in tutta la sua fragilità. Non ne ha
vergogna, non si nasconde, non simula; sa che dinanzi a Lui può mostrarsi così
com'è: smarrito, sopraffatto dalla paura e dalla tristezza. Sa che Dio non gli
rinfaccerà questa sua debolezza. Anzi: gli aprirà le braccia, lo accoglierà in
grembo, lo conforterà. Così: nudo, spogliato di sé, Gesù si getta a terra come
tra le braccia di Dio. E tutt'intorno è silenzio: solo il canto del vento tra
le foglie, solo la notte che bisbiglia.
Nell'orto del Getsemani, alle porte
di Gerusalemme, Gesù e Dio sono stretti in un abbraccio notturno: l'ultimo,
prima che le tenebre scendano a coprire ogni bagliore, ogni scampolo di luce.
Sussurra Gesù, non grida: appena
muove le labbra per dar voce alla sua supplica. “Padre”, chiama quel suo Dio
amato, nel quale ha riversato, come acqua in un otre, tutta la propria vita,
“Padre”, gli dice, quasi a volerlo commuovere, a domandargli ragione di quello
che gli sembra, ormai, un destino inevitabile. Soffre Gesù, e il volto gli si
riga di lacrime: “Passi da me questo calice, Padre! Traghettami al di là di
quest'ora cupa, di questo dolore che mi stringe l'anima come in una morsa.
Tendi verso di me il Tuo braccio e soccorrimi: non abbandonarmi negli istanti
interminabili della mia angoscia. Mai come oggi Ti ho avvertito lontano e mai
così vicino da percepirti come un palpito, uno sfiorarmi di dita invisibili a
lenire quel dolore che, in silenzio, mi divora. Tu, assente presenza, orma
impressa sulla sabbia del cuore che, muta, dice del Tuo passaggio. Tu, come
vento tra le foglie di questi ulivi: lieve canto notturno, carezza della sera.
Ti avverto, invisibile e intenso, come l'Amore: intima, inconfessabile certezza
del cuore”. Parla Gesù, stretto al Padre: nell'ora del suo smarrimento lo
chiama, ne va in cerca. Non attende risposta, non gli rinfaccia il silenzio:
semplicemente, gli confida il suo dolore, il timore che lo invade tra le pieghe
dell'anima. Non gli chiede nient'altro che ascolto: muta, intensa presenza,
invisibile agli occhi, percepibile al cuore.
L'ora s'avvicina: Gesù lo sa, lo
avverte. Come accade all'animale braccato che d'improvviso comprende di non aver
più scampo. Vengono a prenderlo, come si fa con i malfattori. Vengono a
gridargli, muta, la loro rabbia, l'insofferenza che ingenerano in loro le sue
parole irriverenti, i suoi insegnamenti scomodi, la sua indigesta pietà.
Lo metteranno a tacere, non potrà più
nuocere. Eppure, in quella brezza notturna, in quel sussurro del vento tra le
foglie, Gesù intuisce, come d'incanto, che non c'è bavaglio in grado di
sopprimere una voce. Quanto ha detto impregna l'aria e altri cuori: quanto ha
annunciato gli sopravvivrà. Danzerà, in spazi aperti e irraggiungibili, l'eco
della sua parola: si introdurrà nelle insenature dell'anima, attraverserà, in
segreto, i mari e percorrerà, in fragoroso silenzio, le terre al di là
dell'orizzonte.
Dà le spalle a Gerusalemme, Gesù,
mentre si abbandona all'abbraccio del Padre. Allora, lento, si volta ad
osservare il volto notturno della città antica: persino lei sembra dormire in
pace. Poi, alza di nuovo lo sguardo al cielo, muta carezza sugli occhi: e
sembra scorgere il volto di Dio dietro i rami, a varcare la notte. Sorride Gesù
a quella timida promessa d'aurora, a quel tiepido raggio di sole che schiude,
come un fiore, le sue labbra:
“L'ora è giunta, Padre: e trema
l'anima mia al pensiero di non udire più il canto del vento, di non tornare a
sentire la carezza della sera. Mi invade la nostalgia di questa terra che esala
profumi, delle voci amiche che hanno vinto la mia solitudine, di quei volti
amati a cui mi lega il misterioso laccio del ricordo. E sorrisi, e lacrime:
mani che s'intrecciano, piedi impolverati e l'odore del sole sulla pelle.
Questo e altro che dire non so è ciò
che piango questa notte: questo quanto il cuore non si rassegna a lasciare,
questo lo strappo che avverto nell'intimo e che colma l'anima di una tristezza ignota,
di uno sconforto muto. Ecco perché mai come questa notte, Padre, ho desiderato
la vita, quella stessa che, un giorno lontano, Tu mi hai donata. Pure, non come
voglio io, ma come Tu vuoi”.
[Predicazione per il Giovedì di
Passione – 9 aprile 2020]
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