Buongiorno a tutte e a
tutti.
Non vi è alcuna realtà,
probabilmente, che in seno alla complessa e contraddittoria storia umana abbia
incontrato più difficoltà a prender forma della libertà. In questo la
fede e le chiese non fanno eccezione e, a più riprese, hanno cercato di
mettersi al riparo da ciò che è sempre parso come un elemento indomito e, per
ciò stesso, potenzialmente pericoloso. I testi biblici, al contrario, ne sono
attraversati a più riprese e dalle loro pagine la libertà spicca ogni volta di
nuovo il suo volo per ricevere inatteso, anelato asilo presso il nido di cuori
audaci. Ed è al cuore – come il nostro incerto – di Nicodemo che Gesù si
rivolge quando, al versetto 8 del capitolo 3 dell’evangelo giovanneo, pronuncia
parole al contempo semplici e inafferrabili:
«Il vento soffia dove
vuole e tu ne ascolti canto, ma non sai da dove provenga né dove si ritiri:
così è anche ognuno che del vento sia figlia o figlio»
Noi e Dio, come nel
racconto delle origini narrato nella Genesi, siamo accomunati dal vento, in cui
si intrecciano, senza poter mai davvero attecchire, le instabili radici Sue e
nostre. In quella pagina antica, difatti, noi prendiamo vita quando un soffio
che da Dio proviene ci attraversa e ci vivifica, mettendo ogni cosa, dentro di
noi, in subbuglio: e di questo alito perennemente inquieto rechiamo per tutta
la vita l’indelebile impronta tatuata sottopelle. Ma è questa irrequietezza lo
specchio della nostra somiglianza con Dio, la traccia di una similitudine che è
intessuta di indomita, irrevocabile libertà.
Non ho mai compreso
perché, nelle traduzioni di cui disponiamo, la medesima parola venga prima, per
ben due volte, resa con il termine vento, per poi, nell’ultima occorrenza,
diventare improvvisamente “spirito”.
In realtà, nelle parole
che Gesù rivolge a Nicodemo, il termine che ricorre è sempre lo stesso: per
questo io preferisco mantenerlo. Il Dio di Gesù odora di vento e ne possiede la
stessa incontenibile effervescenza, che ne fa, di volta in volta, lieve carezza
o soffio impetuoso.
E la sua è fragranza di
libertà, di cui, come del vento, siamo figlie e figli e che rappresenta il
cuore pulsante ed eternamente inquieto di quella fede che, ogni giorno, siamo
chiamate e chiamati ad apprendere, trasformandola in volo.
In questo nessuno come i
bimbi può esserci maestro, come ci ricorda, con la sua consueta leggerezza, lo
scrittore uruguayano Eduardo Galeano:
I prigionieri politici,
in Uruguay, non possono parlare senza permesso, né fischiettare, sorridere,
cantare, accelerare il passo o salutare un altro prigioniero. Allo stesso modo,
non possono disegnare né ricevere disegni che ritraggano farfalle, stelle o
uccellini. Didaskò Perez, maestro di scuola, imprigionato e torturato, riceve
una domenica la visita della figlia Milay, di cinque anni, che porta con sé,
per fargliene dono, il disegno di un uccellino. Gli inflessibili censori lo
strappano all’ingresso del carcere davanti ai suoi occhi. La domenica
successiva, Milay ha con sé il disegno di un albero: le permettono di portarlo
all’interno, gli alberi non sono proibiti. Didaskò elogia quell’opera d’arte e
domanda a Milay che cosa siano quei cerchietti variopinti che fanno capolino
tra la chioma fitta dei rami: “Sono arance? Che frutti sono?”. La bimba gli fa
segno di tacere. E in segreto gli sussurra: “Non vedi che sono occhi? Gli occhi
degli uccellini che ti ho portato di nascosto”.[1]
Una
volta ancora
Incerti,
titubanti
Osiamo
il volo
A
cui – ridestàti –
Ci
inviti
E
in questo eterno
Inesausto
ondeggiare
Ci
riscopriamo
–
Con Te, come Te –
Intessuti
Di
vento
Pastore Alessandro Esposito
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