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23/05/2020

Verbania, sabato 23 Maggio 2020




Buongiorno a tutte e a tutti.

Non vi è alcuna realtà, probabilmente, che in seno alla complessa e contraddittoria storia umana abbia incontrato più difficoltà a prender forma della libertà. In questo la fede e le chiese non fanno eccezione e, a più riprese, hanno cercato di mettersi al riparo da ciò che è sempre parso come un elemento indomito e, per ciò stesso, potenzialmente pericoloso. I testi biblici, al contrario, ne sono attraversati a più riprese e dalle loro pagine la libertà spicca ogni volta di nuovo il suo volo per ricevere inatteso, anelato asilo presso il nido di cuori audaci. Ed è al cuore – come il nostro incerto – di Nicodemo che Gesù si rivolge quando, al versetto 8 del capitolo 3 dell’evangelo giovanneo, pronuncia parole al contempo semplici e inafferrabili:

«Il vento soffia dove vuole e tu ne ascolti canto, ma non sai da dove provenga né dove si ritiri: così è anche ognuno che del vento sia figlia o figlio»

Noi e Dio, come nel racconto delle origini narrato nella Genesi, siamo accomunati dal vento, in cui si intrecciano, senza poter mai davvero attecchire, le instabili radici Sue e nostre. In quella pagina antica, difatti, noi prendiamo vita quando un soffio che da Dio proviene ci attraversa e ci vivifica, mettendo ogni cosa, dentro di noi, in subbuglio: e di questo alito perennemente inquieto rechiamo per tutta la vita l’indelebile impronta tatuata sottopelle. Ma è questa irrequietezza lo specchio della nostra somiglianza con Dio, la traccia di una similitudine che è intessuta di indomita, irrevocabile libertà.
Non ho mai compreso perché, nelle traduzioni di cui disponiamo, la medesima parola venga prima, per ben due volte, resa con il termine vento, per poi, nell’ultima occorrenza, diventare improvvisamente “spirito”.
In realtà, nelle parole che Gesù rivolge a Nicodemo, il termine che ricorre è sempre lo stesso: per questo io preferisco mantenerlo. Il Dio di Gesù odora di vento e ne possiede la stessa incontenibile effervescenza, che ne fa, di volta in volta, lieve carezza o soffio impetuoso.
E la sua è fragranza di libertà, di cui, come del vento, siamo figlie e figli e che rappresenta il cuore pulsante ed eternamente inquieto di quella fede che, ogni giorno, siamo chiamate e chiamati ad apprendere, trasformandola in volo.
In questo nessuno come i bimbi può esserci maestro, come ci ricorda, con la sua consueta leggerezza, lo scrittore uruguayano Eduardo Galeano:

I prigionieri politici, in Uruguay, non possono parlare senza permesso, né fischiettare, sorridere, cantare, accelerare il passo o salutare un altro prigioniero. Allo stesso modo, non possono disegnare né ricevere disegni che ritraggano farfalle, stelle o uccellini. Didaskò Perez, maestro di scuola, imprigionato e torturato, riceve una domenica la visita della figlia Milay, di cinque anni, che porta con sé, per fargliene dono, il disegno di un uccellino. Gli inflessibili censori lo strappano all’ingresso del carcere davanti ai suoi occhi. La domenica successiva, Milay ha con sé il disegno di un albero: le permettono di portarlo all’interno, gli alberi non sono proibiti. Didaskò elogia quell’opera d’arte e domanda a Milay che cosa siano quei cerchietti variopinti che fanno capolino tra la chioma fitta dei rami: “Sono arance? Che frutti sono?”. La bimba gli fa segno di tacere. E in segreto gli sussurra: “Non vedi che sono occhi? Gli occhi degli uccellini che ti ho portato di nascosto”.[1]

Una volta ancora
Incerti, titubanti
Osiamo il volo
A cui – ridestàti –
Ci inviti
E in questo eterno
Inesausto ondeggiare
Ci riscopriamo
– Con Te, come Te –
Intessuti
Di vento


[1] Galeano, Eduardo «Pajaros prohibidos», in: Memorias del fuego, Siglo XXI, Buenos Aires, 1990.

Pastore Alessandro Esposito

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