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10/03/2020

Alle mie comunità - Domenica 8 Marzo 2020 - Alessandro Esposito


«Fa’ che io possa conoscere, o Dio, il mio limite e la misura dei miei giorni: toccherò con mano quanto io sia fragile» (Salmo 39:5)

Smarriti, destabilizzate: attraversati nell’intimo dall’inatteso che, improvviso e indesiderato, è venuto a turbare una serenità soltanto apparente, che non ha tardato a mostrare il suo lato d’ombra, sotto il cui velo si celava un’angoscia antica come noi, che si può esorcizzare per un tempo, ma mai estinguere, poiché la portiamo tatuata nelle viscere, impressa in quell’intimità che siamo soliti disertare ma che poi, inevitabilmente, affiora in superficie. E proprio lì, in superficie, siamo ormai trascinati da un’abitudine irriflessa a condurre le nostre vite, segnate da un intorpidimento che chiamiamo tranquillità e che al primo accenno di brezza rivela tutta la sua illusorietà.
L’instabilità, la precarietà, sono il tratto distintivo della nostra esistenza; le vite che conduciamo ci portano a stornare il pensiero da questa verità, non certo a cambiarla: raccontando a noi stesse, a noi stessi, una storia che non è, cerchiamo di metterci al riparo dall’inesorabile, salvo, poi, precipitare nel baratro non appena le prime nubi si addensano all’orizzonte, minacciando una quiete che credevamo immutabile.
Quella del salmista è una voce che giunge da un’umanità identica alla nostra nella sua fragilità, ma profondamente diversa riguardo alla consapevolezza di quell’effimero di cui noi, pur essendo parte, vagheggiamo una stolta e vana dimenticanza.
La richiesta contenuta in queste parole è quella di una coscienza del limite, di quella misura che noi abbiamo avventatamente tramutato in smisuratezza: per questo crediamo di conoscere, quando, in verità, ci sfugge l’essenziale, per il semplice fatto che abbiamo «perso ogni misura». Ce ne dà testimonianza l’ansia incontrollata e malcelata che, prima che dalle strade, emerge dagli sguardi, dai non detti come dalle parole che sfuggono, dallo sgomento che assale una civiltà, la nostra, che era persuasa di avere tutto sotto controllo, certa che le tempeste potessero abbattersi solamente sulle vite degli altri, distanti, ignote, indifferenti.
Per il salmista, invece, conoscere significa «toccare con mano»: è un sapere esperienziale, il suo, che si confronta con i chiaroscuri di un’esistenza il cui senso ci sfugge continuamente, proprio perché eccede la misura, sempre troppo piccola, del nostro sapere, che soltanto la nostra presunzione è capace di disconoscere, in un delirio di onnipotenza che dovrebbe suscitare ilarità se non fosse funesto e tragico.
Il salmista sa soltanto quel che sente: noi, civiltà dal sentimento anestetizzato, non sappiamo per il semplice fatto che non siamo più capaci di avvertire nell’intimo una gioia o un turbamento che siano autentici, figli di quello sconcerto che nasce dal guardare con onestà a ciò che siamo, esseri sospesi, fragili, effimeri. Ma è possibile vivere davvero con questa consapevolezza? – domanderà qualcuno. Ma è forse vita quella che ha perso non soltanto ogni familiarità, ma persino ogni contatto con ciò che si agita in noi nel profondo? Vale davvero qualcosa muoversi perennemente entro il perimetro artificiale di una finzione a cui poi si cerca ostinatamente di credere, sapendo che basterà un istante di lucidità a far franare questo castello di carte? – domando io.
Il salmista chiede a Dio una consapevolezza che nasca dal saper accogliere la vita con tutte le sue insanabili contraddizioni, con quell’incertezza che la determina e di cui noi per primi siamo intessuti. Quando saremo capaci di farlo, forse, anche nel turbamento scorgeremo l’ombra di un senso e lasceremo che sia la vita, che proviene da Dio, ad ammaestrare i nostri cuori con la sua schiettezza. Sarà il nostro contatto con lei a restituirci una misura, a farci riscoprire fragili ma per ciò stesso preziosi, ad aprire i nostri occhi su un’umanità che eccede i confini ristretti del nostro piccolo io. E sarà allora, quando ci scopriremo ancora capaci di scorgere il volto dell’altro, che Dio potrà tornare a specchiare il Suo, di volto, nella semplicità silenziosa e coerente del gesto condiviso, da cui tornerà a fiorire quella speranza che, oggi, sembriamo aver smarrito.

(Alle mie comunità - Domenica 8 Marzo 2020 - Alessandro Esposito)

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