«Fa’
che io possa conoscere, o Dio, il mio limite e la misura dei miei giorni:
toccherò con mano quanto io sia fragile» (Salmo 39:5)
Smarriti,
destabilizzate: attraversati nell’intimo dall’inatteso che, improvviso e
indesiderato, è venuto a turbare una serenità soltanto apparente, che non ha
tardato a mostrare il suo lato d’ombra, sotto il cui velo si celava un’angoscia
antica come noi, che si può esorcizzare per un tempo, ma mai estinguere, poiché
la portiamo tatuata nelle viscere, impressa in quell’intimità che siamo soliti
disertare ma che poi, inevitabilmente, affiora in superficie. E proprio lì, in
superficie, siamo ormai trascinati da un’abitudine irriflessa a condurre le
nostre vite, segnate da un intorpidimento che chiamiamo tranquillità e che al
primo accenno di brezza rivela tutta la sua illusorietà.
L’instabilità,
la precarietà, sono il tratto distintivo della nostra esistenza; le vite che
conduciamo ci portano a stornare il pensiero da questa verità, non certo a
cambiarla: raccontando a noi stesse, a noi stessi, una storia che non è,
cerchiamo di metterci al riparo dall’inesorabile, salvo, poi, precipitare nel
baratro non appena le prime nubi si addensano all’orizzonte, minacciando una
quiete che credevamo immutabile.
Quella
del salmista è una voce che giunge da un’umanità identica alla nostra nella sua
fragilità, ma profondamente diversa riguardo alla consapevolezza di
quell’effimero di cui noi, pur essendo parte, vagheggiamo una stolta e vana
dimenticanza.
La
richiesta contenuta in queste parole è quella di una coscienza del limite, di
quella misura che noi abbiamo avventatamente tramutato in smisuratezza: per
questo crediamo di conoscere, quando, in verità, ci sfugge l’essenziale, per il
semplice fatto che abbiamo «perso ogni misura». Ce ne dà testimonianza l’ansia
incontrollata e malcelata che, prima che dalle strade, emerge dagli sguardi,
dai non detti come dalle parole che sfuggono, dallo sgomento che assale una
civiltà, la nostra, che era persuasa di avere tutto sotto controllo, certa che le
tempeste potessero abbattersi solamente sulle vite degli altri, distanti,
ignote, indifferenti.
Per
il salmista, invece, conoscere significa «toccare con mano»: è un sapere
esperienziale, il suo, che si confronta con i chiaroscuri di un’esistenza il
cui senso ci sfugge continuamente, proprio perché eccede la misura, sempre
troppo piccola, del nostro sapere, che soltanto la nostra presunzione è capace
di disconoscere, in un delirio di onnipotenza che dovrebbe suscitare ilarità se
non fosse funesto e tragico.
Il
salmista sa soltanto quel che sente: noi, civiltà dal sentimento
anestetizzato, non sappiamo per il semplice fatto che non siamo più
capaci di avvertire nell’intimo una gioia o un turbamento che siano autentici,
figli di quello sconcerto che nasce dal guardare con onestà a ciò che siamo,
esseri sospesi, fragili, effimeri. Ma è possibile vivere davvero con questa
consapevolezza? – domanderà qualcuno. Ma è forse vita quella che ha perso non
soltanto ogni familiarità, ma persino ogni contatto con ciò che si agita in noi
nel profondo? Vale davvero qualcosa muoversi perennemente entro il perimetro
artificiale di una finzione a cui poi si cerca ostinatamente di credere,
sapendo che basterà un istante di lucidità a far franare questo castello di
carte? – domando io.
Il
salmista chiede a Dio una consapevolezza che nasca dal saper accogliere la vita
con tutte le sue insanabili contraddizioni, con quell’incertezza che la
determina e di cui noi per primi siamo intessuti. Quando saremo capaci di
farlo, forse, anche nel turbamento scorgeremo l’ombra di un senso e lasceremo
che sia la vita, che proviene da Dio, ad ammaestrare i nostri cuori con la sua
schiettezza. Sarà il nostro contatto con lei a restituirci una misura, a farci
riscoprire fragili ma per ciò stesso preziosi, ad aprire i nostri occhi su
un’umanità che eccede i confini ristretti del nostro piccolo io. E sarà allora,
quando ci scopriremo ancora capaci di scorgere il volto dell’altro, che Dio
potrà tornare a specchiare il Suo, di volto, nella semplicità silenziosa e
coerente del gesto condiviso, da cui tornerà a fiorire quella speranza che,
oggi, sembriamo aver smarrito.
(Alle
mie comunità - Domenica 8 Marzo 2020 - Alessandro Esposito)
Nessun commento:
Posta un commento