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10/05/2011

Ecumenismo e pace: la sfida di Kingston

di Luigi Sandri

Roma (NEV), 20 aprile 2011 – Proponiamo in anteprima un editoriale che verrà pubblicato sul numero di maggio di "Confronti", mensile di fede, politica e vita quotidiana (www.confronti.net). L’autore è redattore della rivista.


Imprevisti eventi – i rivolgimenti nei popoli arabi, il dramma della Libia, la catastrofe nucleare in Giappone – che si aggiungono a decennali conflitti irrisolti, come quello che incombe su Gerusalemme e dintorni, renderanno ancora più serrato, e difficile, il compito della Convocazione internazionale ecumenica sulla pace (IEPC, in sigla inglese), che si celebrerà dal 17 al 25 di questo mese di maggio a Kingston, in Giamaica, sul tema “Gloria a Dio e pace sulla terra”. Non che le Chiese abbiano l’esclusiva dell’impegno per la pace; tuttavia, ad esse spetta annunciare al mondo l’evangelo della pace, inverandolo con una coerente ortoprassi: ché, se fosse solo la realpolitik la cifra del loro agire, come spesso è accaduto nella storia, le loro parole dai Caraibi suonerebbero davvero pretenziose e stonate.

Con l’appuntamento di Kingston giunge ad un traguardo significativo un cammino, iniziato con la sesta Assemblea ecumenica del Consiglio ecumenico delle chiese (CEC), svoltasi a Vancouver nel 1983. L’incontro canadese, infatti, avviò il processo conciliare di pace-giustizia-salvaguardia del creato che si intrecciò con le successive grandi tappe del CEC. Il quale, dopo aver lanciato il decennio di solidarietà delle Chiese con le donne, ne propose un altro, per gli anni 2001-2010, quello “per il superamento della violenza”. In Giamaica, dunque, si trarranno le conclusioni di tutto questo impegno, approfondendo in particolare il tema della pace. In vista di Kingston, nella primavera del 2009 fu approntata una prima bozza di lavoro (Gloria a Dio e pace sulla terra, pubblicata in italiano dalle Edizioni Qualevita di Torre dei Nolfi, Aq, a cura del Cipax); rielaborata più volte, è diventata il testo dal quale all’Iepc partirà la riflessione degli oltre mille delegati e rappresentanti delle 349 Chiese del mondo aderenti al CEC e anche di movimenti cattolici nonviolenti, come Pax Christi.

Molte, e assai impegnative, sono le questioni etiche che si pongono a chi si impegni per la pace, quando ci si debba misurare con situazioni di ingiustizia tremenda, o con regimi dittatoriali che opprimono i loro popoli e non esitano a schiacciare con le armi ogni pur legittima protesta. Il tema – oggi di estrema attualità per il caso Libia – tormenta le Chiese, e tutte le persone di buona volontà: quando Caino sta per uccidere Abele, non debbo forse intervenire per impedire al primo di sferrare il suo colpo mortale? Ma sono le armi l’unico mezzo di intervento? Esclusa la “guerra giusta”, è comunque doveroso un “intervento umanitario” che, però, allo stato dei fatti, può essere solo compiuto da eserciti, con aerei e missili devastanti, dato che, purtroppo, un corpo di polizia internazionale – suggerito dal capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite – non esiste? E poi, perché alcuni regimi sono puniti, e altri invece tollerati e, anzi, armati proprio da chi farà poi l’arbitro giustiziere?

Altre domande non riguardano direttamente la pace, ma l’incrociano; in prospettiva futura, dovrà essere il nucleare a fornire l’energia necessaria per superare la dipendenza dal petrolio, oppure la tragedia di Fukushima obbliga non solo il Giappone, ma il mondo intero, ad abbandonare questa pista per cercare fonti alternative e realistiche? È ben evidente come la ricerca affannosa e crescente di fonti energetiche, e anche delle falde acquifere, possa innescare conflitti per possederle o per controllarle. L’urgenza di progettare un futuro sostenibile per la Terra-Madre è, a parole, da tutti condivisa; ma, nel concreto, insaziabile è la voracità dei più forti per continuare a correre come se le risorse fossero infinite e il pianeta potesse sopportare ogni sfregio.

Questo nugolo di interrogativi percorre anche il documento-base di Kingston, dove si intravede la difficoltà di dare risposte “profetiche”. D’altronde, lo stesso testo sorvola sulle responsabilità delle Chiese per aver esse teorizzato, per secoli, la dottrina della “guerra giusta”, per non parlare poi delle violenze istituzionali da esse compiute; e tace dell’assenza, nella sensibilità delle Chiese - salvo, si intende, eccezioni luminose, come Francesco d’Assisi - di una diffusa consapevolezza dell’indifferibile responsabilità anche dei cristiani per la cura e la custodia amorosa del creato, e per l’eco-giustizia. Insomma, nemmeno le Chiese sono innocenti. D’altronde, se proclamare gloria a Dio e pace sulla terra fu facile per gli angeli a Betlemme, sarà più arduo ripeterlo ai Caraibi, per le donne e gli uomini cristiani che là converranno. Le parole, infatti, non bastano più; adesso è il tempo di testimoni credibili, se ce ne sono.

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