Culti

Verbania - C.so Mameli 19
Domenica 21 aprile, Tempio di Intra, dalle h.10 momenti di preghiera e canti, Culto alle h. 11

Omegna - Via F.lli Di Dio 64
Domenica 21 aprile, Tempio di Omegna, Culto alle h. 9 con relativa Cena del Signore

23/06/2020

Chiesa Evangelica Metodista di Intra e Omegna LITURGIA PER IL CULTO PUBBLICO DI DOMENICA 21/06/ 2020 «Essi leggevano il libro dell’insegnamento a piccoli brani e con ricerche del senso» (Nehemia 8:1)


ACCOGLIENZA E LODE

Saluto
Nel nome del Padre, il Dio che si lascia incontrare in quella Parola che affiora sulle sue labbra soltanto per poter raggiungere i nostri cuori, là dove, poi, germoglia in una pioggia di colori

Nel nome del Figlio, che questa Parola ha annunciato e incarnato, spargendola in mille meraviglie sugli animi dei semplici e delle escluse, di cui, insieme col Padre, difende il diritto e protegge la vita, con dolcezza e fermezza

E nel nome dello Spirito di Dio, che quella stessa Parola innerva e vivifica, donandocene, a ogni ascolto, rinnovata, mai conclusa comprensione, che si traduce nel gesto silenzioso e coerente di chi, nella sua vita, la mette in pratica. Amen

Invocazione (Salmo 119:160) - (Luigi Pareyson)
«La verità è il principio della Tua Parola»

«La verità non si offre che alla libertà: ed è attraverso questa via rischiosa, segnata dal dubbio, che essa si consegna ad un'interpretazione, mantenendo sempre, tuttavia, un'irriducibile riserva (...) È soltanto da un'indebita confusione, infatti, che nasce il falso dilemma tra l'unicità della verità e la molteplicità delle formulazioni, come se, unica essendo la verità, ne dovesse esistere un'unica formulazione legittima (...) Eppure l'esperienza più comune basterebbe a metterci in guardia da posizioni del genere, purtroppo così diffuse: un esempio evidentissimo, in tal senso, ci viene fornito dall'esecuzione musicale. Anche in musica, infatti, l'opera è accessibile solamente all'interno di una sua esecuzione.
E anche in musica la molteplicità delle esecuzioni non compromette l'unicità dell'opera (...) L'esistenza dell'opera musicale, difatti, non è quella inerte e muta dello spartito, ma quella viva e sonora dell'esecuzione, la quale, tuttavia, per il suo carattere personale e quindi interpretativo, è sempre nuova e diversa, cioè molteplice (...) Così la verità, lungi dal disperdersi nelle proprie formulazioni, ne alimenta essa stessa la pluralità e, proprio come avviene per l'opera musicale rispetto alle sue esecuzioni, non permette a nessuna di esse di monopolizzarla, né dimora in una soltanto di esse in modo privilegiato ed esclusivo, ma tutte le suscita e tutte le esige»
        
Confessione di peccato (Salmo 119:9)
 «Come potrà un giovane, una giovane, mantenere limpido il suo sentiero? Custodendo le Tue parole»

Cosa è ormai rimasto, o Dio, di limpido? Troppe cose, lo sappiamo bene, si muovono e si celano nel torbido, dove il gioco è quello di rimestare le acque per confondere ogni cosa, chiamando giusto ciò che è iniquo e gettare ogni evento nell’opacità. In questo quadro sconfortante è chi è più giovane a risultare più esposto, a smarrirsi con più facilità: perché regna sovrana l’ambiguità, perché la menzogna si ammanta di credibilità, perché inganno e onestà vengono presentati come equivalenti o, peggio, indifferenti. Come può, allora, il sentiero di chi si è appena messo in cammino lungo la strada affascinante e complessa della vita, mantenersi limpido? Facendo affidamento a quella Tua Parola, o Dio, che denuncia l’ingiustizia, soccorre l’oppresso, si fa accanto a quante avvertono nell’intimo sconcerto e smarrimento, per accompagnarli nella costruzione di un cammino lungo il quale il gesto gratuito si distingue dall’opportunismo e la speranza di relazioni più umane riposa, oltre che nelle Tue, anche nelle nostre mani. Amen

Annuncio del perdono (Salmo 119:25)
«La Tua Parola mi dona la vita»

Quando Tu ci parli, o Dio, carezze ci sfiorano l’anima e i sensi e tutto, dentro di noi, fiorisce: rinverdiscono le speranze infrante, si ridestano le primavere dimenticate, si rivestono di foglie i rami secchi delle nostre delusioni. La Tua Parola, o Dio, è balsamo sul cuore ferito, dono inatteso che dirada le nubi di un cielo plumbeo e riapre ai nostri sguardi orizzonti che credevamo preclusi, squarci d’azzurro che ridanno respiro al nostro affanno, ci restituiscono fiducia e ci fanno avvertire, leggero e sicuro, il suono del Tuo passo a rendere meno cupo lo smarrimento. Amen 

TESTO PER LA PREDICAZIONE (Nehemia 8:8)

Essi leggevano il libro dell’insegnamento a piccoli brani e con ricerche del senso: e così ne rendevano più chiara la lettura

PREDICAZIONE

Domenica scorsa ci siamo lasciati sulla soglia di una porta presso la quale abbiamo condiviso, in un abbraccio ideale con chi rientrava da un lungo esilio, l’esperienza dell’ascolto di pagine antiche e sempre nuove. Il libro da cui esse sono tratte è chiamato, nella tradizione ebraica, Torah, ovverosia Insegnamento, e non, come spesso viene reso in italiano, legge: la differenza non è affatto di poco conto, poiché a una legge si è chiamate e chiamati ad ubbidire, senza che ci venga necessariamente richiesto di comprenderla e di condividerne il contenuto; non così, invece, per l’insegnamento, che, per essere seguito e realizzato, deve prima essere vagliato, compreso e accolto. Per tutta la tradizione ebraica, di cui lo stesso Gesù è figlio e per ciò stesso espressione, il rapporto con le Scritture si configura in questo modo: si tratta di una relazione vivente, di un reciproco, instancabile interrogarsi, che va dal testo a chi lo ascolta e viceversa. Non è materia inerte, il testo: al contrario, è cuore pulsante che alimenta una gioiosa irrequietezza, un desiderio che si rinnova ad ogni nuovo ascolto e non si spegne nella spiegazione, ma si ridesta e si riaccende, ogni volta di nuovo, nel commento. Ogni testo, infatti, ogni racconto, è un invito a scavare, alla ricerca di sensi che fioriscono ad ogni passo, custoditi nel cuore stesso di parole che sono come indizi che ci mettono sulle tracce di una ricerca che non ha fine e che si chiama fede. Credere, difatti, significa rimanere viandanti, mantenere il cuore e la mente aperti a quel dono di novità in cui Dio si lascia incontrare, ma mai identificare una volta per tutte e, men che meno, imprigionare. Fede è freschezza che si alimenta di una lettura sempre rinnovata e mai conclusa, quella stessa che fa sì che, giorno dopo giorno, ci rechiamo presso una fonte che ci dona, al contempo, la sete e l’acqua. Questo è la bibbia: acqua di sorgente che, mentre spegne la sete, torna a ridestarla.
Noi ci accostiamo a questa fonte con le piccole anfore dei nostri cuori, che si ricolmano della sua acqua per poi svuotarsi e tornare ad attingere a lei, incessantemente. La nostra sete può placarsi, ma mai estinguersi: quella stessa Parola che la spegne, difatti, torna anche ad alimentarla.
Ma perché ciò avvenga, le Scritture vanno accostate, interrogate, interpretate: non sempre, difatti, la loro comprensione è immediata, come del resto accade con tutti gli incontri significativi che trasformano le nostre vite e i nostri sguardi. Bisogna sostare nei pressi delle Scritture, radicarsi in loro come l’albero che mette radici profonde per nutrirsene, come narra l’inizio del libro dei salmi. Ed ecco che, sulla soglia della Porta delle Acque, in una Gerusalemme che sta ancora provando a scrollarsi di dosso la polvere delle sue macerie, l’ascolto si fa sosta che acuisce i sensi.
Narra il libro di Nehemia, al versetto 8 dell’ottavo capitolo:
“Essi leggevano il libro dell’insegnamento a piccoli brani e con ricerche del senso: e così ne rendevano più chiara la lettura”
A piccoli sorsi: così un popolo dal cuore ferito per il ricordo ancora vivo di un esilio prolungato e doloroso attinge alla Parola. Non si tratta, per così dire, di una ubriacatura che stordisce, per poi non lasciare di sé che la traccia di uno stordimento fugace e sterile. No: si tratta di un ascolto attento e paziente, che contempla pause, domande, riflessioni, chiarimenti. Su pagine che trasudano senso non si può correre distrattamente: altrimenti, esse scivolano via e non penetrano nel profondo. Forse il tempo scandito da pause che – per un periodo breve a tanti apparso così lungo – hanno rallentato la nostra irrefrenabile corsa, ha provato a insegnarci che un respiro senza pause diventa corto e affannoso.
Eppure, a così poca distanza da eventi che hanno interrotto bruscamente il ritmo sincopato delle nostre vite accelerate, ho come l’impressione che il nostro goffo tentativo sia quello di tornare in tutta fretta a quella follia che chiamiamo “normalità”, guardando al recente passato come a un incubo da cui ci si è risvegliati, ridestandoci, insieme, alla medesima indifferenza.
Un tempo più disteso, inizialmente gradito, ha finito per turbare quante e quanti non sanno che farsene, inquietati più che confortati dalla possibilità di stare troppo a lungo in compagnia di uno sconosciuto che porta casualmente il nostro stesso nome. Così, in men che non si dica, siamo tornati a correre, con l’unico, insensato obiettivo, di allontanarci il più possibile da quell’essere che sembra avere le nostre sembianze e la cui indistinta, ingombrante presenza non fa che metterci a disagio.
L’ascolto della Parola, al contrario, rappresenta lo spazio dell’incontro con Dio così come del ritorno a sé: aspetti distinti, certamente, ma non estranei l’uno all’altro. Il testo biblico, difatti, è insieme sentimento di Dio ed esperienza di sé, avvicinamento all’uno come all’altro. È avventura di autenticità, domandare lieto e inesausto, itinerario che porta a Dio mentre riconduce a sé: nell’ascolto della Parola, infatti, si riabbracciano entrambi questi universi intimi e ignoti, diversi eppure intrecciati. Ricercare incessantemente gli infiniti sensi che il testo biblico custodisce e, se opportunamente accolto e interrogato, sprigiona, significa al contempo gettare una luce su di sé, su quel mistero inesauribile che siamo a noi stesse, a noi stessi. Leggiamo e rileggiamo la bibbia per comprenderla meglio, senza dubbio, ma anche – e questo spesso ce lo dimentichiamo – per comprenderci meglio.
Perché questo viaggio affascinante e interminabile possa avere inizio, dobbiamo riacquisire familiarità con una Parola indomita e viva, libera e provocatoria, che si agita dentro e sotto le pagine di ogni testo che ci raggiunge e ci interpella. Di questo narra il bellissimo comento del biblista ebreo francese David Banon, che, nel suo splendido libro La lettura infinita, scrive, anche per noi, queste parole:
“Le Scritture non dovrebbero essere oggetto di devozione o sacralizzazione, pratiche, generalmente, legate al culto dei morti; non un “testamento”, dunque, quanto, piuttosto, un fidanzamento: un’esperienza di vita, di scoperte, di incontri, di imprevisti, di novità. Un’avventura del senso (…) Non si tratta di un pacchetto sigillato che si passa di mano in mano e di generazione in generazione senza aprirlo, ma di un tesoro inesauribile, a cui attingere a piene mani”.
[Tratto da: David Banon, La lettura infinita, Jaca Book, Milano, 2009, cit. pp. 70-71 – orig. francese del 1987]

Un libro, insomma, che parla a noi perché parla di noi: pagine su cui fare ritorno ogni giorno di nuovo, perché ogni giorno hanno qualcosa da dire a quel cambiamento che siamo e che la bibbia ci aiuta ad accogliere e a comprendere, aiutandoci in quel cammino costante in cui consiste una fede da apprendere a ogni passo, in compagnia di quel Dio, come noi, amante dei sentieri e degli incontri di cui ogni cammino è costellato.

Alessandro Esposito – domenica 21 giugno 2020


BENEDIZIONE (Giuseppe Centore)
 Di silenzio in silenzio la tua anima cresca
come una linea tra la neve e il sole
come una cosa salda in un paese d'ombre
Ed abbia la tua voce odore d'erba dopo la pioggia
E ciò che dalla vita hai ricevuto
profondità sofferta o estasi goduta
ti sia nella memoria come una primavera ripetuta



21/06/2020

DOMENICA 21 GIUGNO 2020


Buongiorno e buona domenica a tutte e a tutti, quest’oggi è la 3ª domenica dopo Pentecoste e questo è il versetto biblico che ne fa da riscontro “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo.” (Matteo 11:28)
SALUTO e ACCOGLIENZA
Il nostro aiuto, la nostra speranza e la nostra consolazione sono in Dio che ci ha creati e che ci salva in Gesù Cristo. Amen
ASCOLTO DELLA PAROLA
Preghiera di illuminazione
Grazie, Signore nostro, perché la tua parola ci raggiunge con tutta la sua ricchezza e con la meravigliosa notizia del tuo invito. Tutti sono chiamati alla comunione con te: quelli che stanno facendo un faticoso cammino di fede, quelli che si sentono estranei alla vita delle chiese, quelli che sono resi indifferenti dal vuoto spirituale del nostro tempo. Tu vuoi raggiungere tutti, a tutti vuoi donare il pane vero della comunione con te. Fa’ che anche noi percepiamo nuovamente l’invito che proviene dalla tua parola. Non vogliamo smettere di cercarti mentre tu ti lasci trovare; di invocarti mentre sei vicino. Vogliamo nutrirci con la verità che tu ci doni generosamente, senza condizioni. Perché la tua parola non delude, ma porta sempre a…effetto le tue promesse. Donaci lo Spirito, perché la tua parola compia anche in noi la sua opera, e noi possiamo rispondere con fede e allegrezza. Nel nome di Gesù. Amen.
TESTO PER LA MEDITAZIONE
Luca 14,  (12 – 14) . 15 - 22
12 Diceva pure a colui che lo aveva invitato: «Quando fai un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i vicini ricchi; perché essi potrebbero a loro volta invitare te, e così ti sarebbe reso il contraccambio; 13 ma quando fai un convito, chiama poveri, storpi, zoppi, ciechi; 14 e sarai beato, perché non hanno modo di contraccambiare; infatti il contraccambio ti sarà reso alla risurrezione dei giusti».
Parabola del gran convito
15 Uno degli invitati, udite queste cose, gli disse: «Beato chi mangerà pane nel regno di Dio!» 16 Gesù gli disse: «Un uomo preparò una gran cena e invitò molti; 17 e all'ora della cena, mandò il suo servo a dire agli invitati: "Venite, perché tutto è già pronto". 18 Tutti insieme cominciarono a scusarsi. Il primo gli disse: "Ho comprato un campo e ho necessità di andarlo a vedere; ti prego di scusarmi". 19 Un altro disse: "Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego di scusarmi". 20 Un altro disse: "Ho preso moglie, e perciò non posso venire". 21 Il servo tornò e riferì queste cose al suo signore. Allora il padrone di casa si adirò e disse al suo servo: "Va' presto per le piazze e per le vie della città, e conduci qua poveri, storpi, ciechi e zoppi". 22 Poi il servo disse: "Signore, si è fatto come hai comandato e c'è ancora posto".
MEDITAZIONE
Proprio la menzione della “risurrezione dei giusti” provoca la reazione di un invitato che esclama queste parole: “Beato chi mangerà pane nel regno di Dio!”. Chiaramente, colui che dice questo, annovera se stesso tra i “beati” di cui parla. Non ha minimamente colto l’esigenza né l’urgenza della provocazione di Gesù. E Gesù ci pensa lui a fargliela cogliere…
   È La parabola del “gran convito”, che elimina ogni equivoco sull’urgenza della decisione da prendere, percorsa come è, lungo il suo svolgimento da queste espressioni: “è l’ora”, “tutto è già pronto” , “bisogna fare presto”.
Il racconto poi, molto sobrio e molto animato, oppone fra di loro due gruppi: coloro che – invitati – hanno fatto la scelta di non partecipare al banchetto, e quelli che alla fine, in maniera inaspettata, beneficeranno della scelta dei primi.
Ma come vanno le cose in questa parabola?
L’etichetta dell’epoca prescriveva che un invito a un banchetto pervenisse con un anticipo sufficiente per permettere al destinatario di prevenire un eventuale impedimento. Le scuse dell’ultimo minuto presentate dai vari invitati al servo incaricato di ricordare che ormai ogni cosa è pronta, nella sensibilità dell’epoca, sono quanto mai urtanti.
Giustamente, allora – dice Gesù: “Il padrone di casa si adirò”. È una collera che richiama alla mente di chi ascolta un motivo ricorrente negli scritti profetici: il rifiuto di Israele di accogliere l’appello a convertirsi e l’annuncio del giudizio di Dio su quel rifiuto. Qui è la dichiarazione finale: “Io vi dico che nessuno di quegli uomini che erano stati invitati, assaggerà la mia cena”, che funge da giudizio, ma – all’epoca della stesura del vangelo – anche da constatazione di come le cose effettivamente sono andate: tutti quelli (i “molti” invitati alla “gran cena”) che, in Israele e fuori di Israele, sono rimasti o resteranno chiusi al messaggio di Cristo, subiranno le conseguenze del loro rifiuto. E anche se poi dovessero ripensarci ed andare al banchetto… beh, troveranno tutti i posti occupati da una corte di mendicanti e di poveri malati…
Perché intanto, il padrone di casa non s’è arreso: vuole fare il suo banchetto e lo farà! E manda un’altra volta in giro il servo che, instancabile, si aggira “per le piazze e per le vie” per reclutare gente da condurre alla festa: prima percorre tutta la città, poi passa alla campagna circostante (per molti commentatori, questo doppio “va e vieni” prefigura la predicazione apostolica, nel libro degli Atti prima rivolta “in casa” ad Israele e poi “fuori casa” ai non ebrei ).
E quando “i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi” (notate come questa lista è tale e quale a quella degli invitati da privilegiare che Gesù ha presentato a colui che l’aveva invitato) hanno riempito la sala del banchetto, il padrone, che voleva proprio questo: “Va’ … e costringili a entrare, affinché la mia casa sia piena”, è pronto a fare festa assieme a loro, e così gode pienamente la “beatitudine” annunciata da Gesù: “Quando fai un convito, chiama poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato, perché non hanno modo di contraccambiare; infatti il contraccambio ti sarà reso alla risurrezione dei giusti”.

Sorelle e fratelli, se gli ebrei del tempo di Gesù avevano le loro regole di comportamento, le loro etichette, il loro protocollo, le loro inclusioni ed esclusioni, noi siamo un po’ tutti darwiniani. Questo vuol dire che, anche se normalmente non ce ne rendiamo conto, la concorrenza e la competitività sono scritte nel nostro DNA. Le leggi dell’evoluzione, infatti, implicano che ogni forma di vita si procura il suo posto e lo difende, se necessario distruggendo l’altro e nutrendosi dell’altro. La regola universale è proprio questa: difendere il mio spazio vitale, e per questo attrezzarmi e combattere contro chi me lo vuole toglier via. Al nostro livello umano, questa regola si traduce in una serie di comportamenti individuali e sociali: ambizione o frustrazione, costrizione o umiliazione, potere o discriminazione. Insomma, al di là delle tante belle parole che ci diciamo, la nostra è un’etica segnata dalla violenza.
L’Evangelo di Gesù sostituisce a tutto questo la pratica dell’apertura all’altro e del servizio, che assicura a ciascuno il suo posto e smorza le rivalità. Anche il richiamo della pagina di oggi ai convitati bramosi di occupare i primi posti, va in pieno in questo senso. La parola che conta è quella sorridente del padrone di casa che ti dice con affetto: “Amico, vieni più avanti”.
Dev’essere anche la nostra parola: liberati dall’accoglienza incondizionata di Dio dalla “lotta per lo spazio vitale”, riceviamo da lui la missione di offrire un posto al banchetto della vita ai feriti dalla vita, ai fragili e indifesi, anticipando così anche per loro la gioia del Regno di Dio.
E anche, insieme, rendendo piena e autentica la nostra gioia. Perché coloro che si limitano a rapportarsi solo alla cerchia dei parenti e degli amici, e che si preoccupano solo di se stessi e dei propri bisogni, si privano della vera ricchezza della vita, che consiste nello scoprire quelli che sono “totalmente altri” e la ricchezza della loro diversità.
La collera del “padrone di casa” davanti al rifiuto degli invitati, e la sua decisione di chiamare quelli sino ad allora esclusi, come abbiamo visto, gli hanno fatto scoprire una nuova “beatitudine”. Vogliamo anche noi scoprire e vivere la “beatitudine” annunciata da Gesù? Cambiamo allora la nostra mentalità e i nostri comportamenti: spezziamo il cerchio chiuso dei soliti legami e la rete dei rapporti fondati sul “do ut des” (“io do affinché tu dia”)e impegniamoci invece alla sequela di Gesù in un servizio agli altri che sia senza preconcetti e senza limiti prefissati. Osiamo la sorpresa della condivisione e della gioia della condivisione. Sbarazziamoci dello spirito di possesso che spesso ci fa trovare delle scuse che ci rendono tanto simili a quegli invitati che hanno detto di no: “Ho comprato un campo e ho la necessità di andarlo a vedere…”; “Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli…”; “Ho preso moglie e non posso venire…”, e aderiamo a un nuovo modo di avere relazioni. Impariamo l’agape cantato dall’Apostolo nel suo “inno all’amore”: l’amore disinteressato, benevolo, generoso, senza partito preso (cfr. 1° Corinzi 13).
Così daremo al regno annunciato da Gesù una visibilità vera, concreta e procureremo veramente a noi stessi ed agli altri una gioia reale. Sì, nella prospettiva spalancata dall’Evangelo, l’apertura agli altri non è un’alienazione ma un invito a gustare fin da adesso la pienezza della vita.
E insieme finalmente, potremo costruire un mondo nuovo. È l’ultimo pensiero che sgorga dalla pagina di oggi.
Le parole e le immagini forti dell’“invitato scomodo” Gesù, sono una consegna. Ci chiamano a rovesciare l’ordine delle priorità: operare a fondo perduto piuttosto che difendere ostinatamente i propri interessi, preferire le gioie condivise ai piaceri egoisti, privilegiare le relazioni umane anziché i beni materiali.
Sempre ricordando che, al di là dei comportamenti personali, l’attenzione ai più deboli è una priorità collettiva. La nostra società non può ignorare i cosiddetti “perdenti”, né i paesi sviluppati non tener conto delle popolazioni alla deriva… Indirizzate nella pagina di oggi ad una tavolata di farisei, le parole di Gesù si dilatano ad una dimensione universale e stigmatizzano le pratiche politiche, economiche, sociali che mantengono o accrescono lo scarto fra ricchi e poverissimi, privilegiati e miserabili, a scapito di una visione generosa e solidale dei rapporti fra gli umani.
Non si tratta, beninteso, di instaurare il Regno di Dio su questa terra… Si tratta di inalare la speranza del Regno nel nostro quotidiano, e così di permetterle di agire sulla visione e sui valori che determinano il nostro impegno nella chiesa e nella società, anche nell’immediato, a corto termine…
Ed è proprio della nostra teologia riformata difendere con una forza particolare la sovranità di Dio sul mondo. Proprio questa sovranità del nostro Dio la cui accoglienza incondizionata sfida gli interessi partigiani e le logiche interessate (ricordiamo ancora una volta il padrone che dice sorridendo a colui che è all’ultimo posto: “Amico, vieni più avanti”), ci dà il coraggio e la pertinenza per intervenire nel dibattito odierno sulla possibilità di una società diversa e più umana.
Sì, difesi con forza e convinzione, i vecchi e sempre nuovi concetti biblici della pace e della giustizia per tutti, potranno giocare pienamente il loro ruolo… essere un lievito di speranza per un mondo che non riesce più a sperare. AMEN

PREGHIERA DI INTERCESSIONE

Signore, intercediamo per i fratelli e le sorelle che aspettano da noi consigli, parole che confortano e che edificano, gesti che sollevano dagli affanni e dalle ingiustizie. Sono tanti, Signore, nelle nostre città e nelle contrade del nostro paese quelli che cercano una porta aperta, un’occasione di riscatto e di liberazione. Signore, tu ci hai accolti, ci hai ascoltato, e a nostra volta possiamo condurre a te tutte queste creature; donaci perciò coraggio e sapienza nell’accoglierle affinché, nell’incontro con noi, possano scoprire te, il Signore, da cui viene la consolazione eterna. Ti chiediamo questa grazia nel nome di Gesù. Amen

BENEDIZIONE
Conservatevi nell’amore di Dio, aspettando la misericordia del nostro Signore Gesù Cristo per aver la vita eterna. A colui che può preservarvi da ogni caduta e farvi comparire irreprensibili e con gioia davanti alla sua gloria, al Dio unico, nostro Salvatore per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore, siano gloria, maestà, forza e potere prima di ogni tempo, ora e per tutti i secoli. (Giuda 21. 24. 25) Amen


(Liturgia e predicazione curata da Giampaolo Castelletti, domenica 21 giugno 2020.  Tutte le citazioni bibliche, salvo diversamente indicato, sono tratte dalla versione Nuova Riveduta, a cura della Società Biblica di Ginevra, prima edizione 1994)



16/06/2020

Chiesa Evangelica Metodista di Intra e Omegna LITURGIA PER IL CULTO PUBBLICO DI DOMENICA 7/06/ 2020


«Allora il popolo si radunò (…) sulla piazza antistante alla Porta delle Acque» (Nehemia 8:1)


ACCOGLIENZA E LODE

Nel nome del Padre, che abita in silenzio il cuore più nascosto di ogni dolore, nel cui solco getta il seme da cui fioriscono, per la bontà della Sua mano, inattese, ripetute primavere, in cui trovano sollievo e ristoro i nostri passi stanchi e le nostre speranze deluse.

Nel nome del Figlio, la cui Parola intrisa di dolcezza e il cui gesto pronto vengono a fasciare esistenze ferite, per tornare a donarci uno sguardo fiducioso su vite così spesso incerte e sospese, che Gesù accompagna e rinfranca con passo lieve e sicuro

E nel nome dello Spirito di Dio, soffio che genera la vita e la ridesta nei cuori ogniqualvolta sembra affievolirsi, vento che sospinge i nostri passi verso sentieri inediti, forza che ci innerva e ci sostiene, donandoci respiro e rinnovato vigore. Amen

Invocazione  (Salmo 10:17) -  (David Maria Turoldo)
«O Eterno, Tu esaudisci il desiderio degli umili»

Signore, per Te solo io canto onde ascendere lassù
dove solo Tu sei, gioia infinita
E in gioia si muta il mio pianto quando incomincio a invocarTi
e solo di Te godo, paurosa vertigine
Io sono la Tua ombra, sono il profondo disordine
e la mia mente è l'oscura lucciola nell'alto buio
che cerca di Te, inaccessibile Luce
Di Te si affanna questo cuore
conchiglia ripiena della Tua eco, o infinito Silenzio

(Tratto da O sensi miei, BUR, Milano, 1993, p. 167)


TESTO PER LA PREDICAZIONE

“Allora tutto il popolo si radunò come un sol uomo sulla piazza antistante alla Porta delle Acque e disse a Esdra, lo scriba, di portare il libro dell’insegnamento di Mosè, di cui Dio aveva fatto dono a Israele”  (Nehemia 8:1)


MEDITAZIONE

Ogni storia, personale e comunitaria, possiede dei momenti che la segnano in maniera peculiare e, spesso, indelebile: attimi in cui si sperimenta, talvolta, lo smarrimento, oppure si ricorda con nostalgia una carezza, avendo quasi l’impressione di avvertirla nuovamente a sfiorarci sottopelle. Nei labirinti della memoria questi ricordi si rincorrono e si intrecciano, sino a darci come l’impressione che ogni dolore ci abbia raggiunto soltanto perché potessimo avvertire quella carezza che lo segue e che gli dona, per un istante, la parvenza di un senso.
Per il popolo di Israele questo taglio sul vivo ebbe il volto dell’esilio: una quarantena vera e propria, che abbracciò quattro decenni, lo spazio di una generazione. In un lasso di tempo così lungo, molte sono le cose che accadono e più ancora le ripercussioni che gli avvenimenti hanno sugli animi: i figli di alcuni dei deportati in Babilonia si integrarono nel nuovo contesto, finirono con l’amarne i luoghi e la cultura, e non desiderarono fare ritorno a Gerusalemme. Del resto, ormai, dell’antica città dei padri non possedevano che l’eco lontana di racconti sospesi tra memoria e mito, più simili a favole che a storie degne di credito: il loro universo, nel frattempo, era cambiato e aveva assunto il volto affascinante di Babilonia, con i suoi giardini pensili e quell’inebriante fragranza di spezie che ne inondava i vicoli. Perché lasciarla? Non ve ne era motivo. E difatti, nel cuore di quella terra fertile abbracciata tra due fiumi, fiorì l’altra storia di Israele, quella che i testi biblici non narrano, che prese poi forma nelle sinagoghe e nelle loro scuole, dove si imparava a leggere e a interpretare il testo biblico con fantasia e libertà, sino a dar vita a quel mosaico variopinto, fatto di infinite e vivaci discussioni, che prese il nome di Talmud.
Altri, nel frattempo, decisero invece di far ritorno a Gerusalemme: tutto, però, era stato distrutto della città amata; in particolare le mura e il tempio. Ecco che allora gli esuli, di rientro da una quarantena sfibrante, si risolvono immediatamente a metter mano a quel cumulo di macerie, per dedicarsi a una delle arti più nobili e rinfrancanti che la vita ci offre di sperimentare: la ricostruzione, che non riguarda soltanto edifici e strade, ma – prima ancora, forse – stati d’animo, tradizioni, speranze infrante. Ce la racconta in maniera vivida e carica d’emozione un libro ricco di descrizioni dettagliate, che va sotto il nome del governatore che guiderà il ritorno degli esuli: Nehemia. All’inizio del capitolo otto dell’omonimo libro, leggiamo:

"Allora tutto il popolo si radunò come un sol uomo sulla piazza antistante alla Porta delle Acque e disse a Esdra, lo scriba, di portare il libro dell’insegnamento di Mosè, di cui Dio aveva fatto dono a Israele"

A celebrare il ritorno e la ricostruzione c’è il ritrovarsi, che prevede, come in ogni festa che si rispetti, un regalo da scartare: questo dono è rappresentato dal libro che reca tra le sue righe parole che attendono di staccarsi dalle pagine per librarsi in volo e raggiungere cuori in cui dimorare e continuare a scavare – come più tardi avrebbe detto Gesù – fiumi d’acqua viva. C’è un aspetto curioso, però, a dominare la scena: l’apertura del dono viene fatta all’aperto, nonostante i lavori di ricostruzione del tempio abbiano già avuto termine. Così come noi oggi, sia pure di ritorno da un esilio assai più breve, Israele si riunisce all’aperto, e non entro lo spazio, per così dire, “consacrato” all’azione cultuale: e questo, probabilmente, perché gli insegnamenti di cui si darà lettura riguardano la vita assai prima che il culto.
Sono parole rivolte agli animi per rinfrancarli e farli vibrare, parole che cercano la vastità del cielo per danzare e cuori pronti all’ascolto come spazi sconfinati, da ampliare costantemente. Il Dio biblico manterrà sempre i tratti del Dio che predilige gli spazi aperti, come aveva fatto quando parlò ad Abramo e a Mosè, e come farà attraverso le labbra di Gesù, infaticabile viandante che, sotto la volta del cielo, annuncerà a pescatori e contadine il volto di un Dio più grande del tempio, restio ad accettare i vincoli del sacro. La Parola si spande nelle libere distese di cieli aperti e di quei cuori che, figli suoi, ne conservano la vastità e l’anelito: senza l’invito all’ascolto e alla ricerca sempre rinnovata di un senso, lo stesso spazio del tempio non sarebbe che un involucro vuoto, a rivestire il nulla. Corpo di Dio è la Parola, come Lui pregnante e sottile, densa di significato e inafferrabile, nata per intraprendere il viaggio – mai concluso, sempre in atto – da cuore a cuore.
Gli esuli rincasati in una Gerusalemme irriconoscibile sotto il manto delle sue macerie, la riedificano e, una volta rimessa in piedi, mettono mano a una più difficile e delicata opera di ricostruzione: quella di animi gettati nello sconforto, che vengono rinfrancati all’aria aperta attraverso l’ascolto di una Parola libera e incontenibile, che insieme sprona e accarezza. Il luogo scelto non è casuale: una porta, spazio di confine, feritoia che consente l’ingresso come l’uscita. E noi siamo questo: esseri di confine, perennemente sospesi su soglie che, talvolta, la vita ci costringe ad attraversare, chiamandoci ad abbandonare lo spazio rassicurante di quelle mura che, in verità, non danno se non l’illusione del riparo. La Parola dischiude varchi nelle mura, dà respiro e apertura, ci fa comprendere che oltre la cinta ci sono universi, storie, che chiedono ascolto e asilo e che portano novità.
Ecco perché la chiesa non è il tempio, ma la comunità riunita sulla soglia, attenta a non chiudere quegli spiragli che le donano respiro e uno sguardo più ampio, capace di travalicare mura che ne restringono gli orizzonti.
E la porta, nel nostro testo, possiede un nome: è chiamata Delle Acque, perché l’ascolto della Parola farà scaturire zampilli che ristoreranno una sete antica, che domanda, inesausta, il senso: quello stesso che sfugge e si inabissa quando un dolore muto lo ricopre, quello stesso che riemerge inatteso, improvviso, quando il soffio di Dio riattizza le braci sopite di una speranza infranta. La Parola che affiora da quegli insegnamenti antichi che tornano a risuonare sulla soglia di una porta è come acqua di sorgente che disseta, come fonte che chiama a sé per tornare, ogni volta di nuovo, ad attingere a lei per abbeverarsi. Potrà capitare che, per un tempo, continui a scorrere inavvertita sotto la superficie intatta della roccia: ma non si estinguerà; attenderà, soltanto, di essere portata nuovamente alla luce.  
Ci reca, dolce, l’eco di questo riaffiorare Donata Doni, là dove scrive:
Ti cerco nelle radici della mia pena, nella notte dei sensi,
nel bagliore che accende la mente e il cuore
Disperi la mia vita. Non sei mai bella come la struggente voglia di cercarti,
né semplice come la roccia, l’acqua, lo stelo,
né vera come l’anima che manifesti.
Ma sei tutto, Parola: dolore dell’uomo, amore di Dio

Alessandro Esposito – Domenica 7 Giugno 2020


PREGHIERA DI INTERCESSIONE
In questo tempo durante il quale molte sono state le risorse che sono venute a mancare, anche la vita della nostra comunità è risultata più esposta a quella fragilità che intesse di sé ogni realtà. Siamo tornati, così, a scoprire il valore delle piccole cose, del gesto gratuito e spontaneo che permette a ciò che è minimo di continuare a sussistere. Per questo oggi mettiamo insieme i piccoli granelli che in tempo di difficoltà siamo riusciti a serbare, perché, nel riprendere la gioiosa fatica del cammino, quanto sapremo condividere si riveli capace di scacciare via la preoccupazione, rendendo leggeri i nostri passi lungo il sentiero di un evangelo vissuto e annunciato come comunità di discepole e di viandanti. Amen

BENEDIZIONE (Isaia 43:2-4)
Quando dovrai attraversare le acque, Io sarò con te
e quando attraverserai i fiumi essi non ti sommergeranno
Quando camminerai nel fuoco non rimarrai bruciato
e la fiamma non ti consumerà
Perché Io sono il Signore, il tuo Dio
Perché tu sei prezioso ai Miei occhi
e Io ti amo

07/06/2020

DOMENICA 7 GIUGNO 2020


Buongiorno e buona domenica a tutte e a tutti, quest’oggi è la 1ª domenica dopo Pentecoste, la Domenica della Trinità, auguro a tutte e a tutti una buona lettura.

SALUTO e ACCOGLIENZA
“Per favore, non rubatemi la mia serenità. E la gioia che nessun tempio ti contiene, o nessuna chiesa t’incatena: Cristo sparpagliato per tutta la terra, Dio vestito di umanità: Cristo sei nell’ultimo di tutti come nel più vero tabernacolo: Cristo dei pubblicani, delle osterie, dei postriboli, il Tuo nome è colui che-fiorisce-sotto-il-sole.” Amen        
 (David Maria Turoldo)


ASCOLTO DELLA PAROLA

Preghiera di illuminazione
Signore nostro Dio, ti supplichiamo, per l’amore di Gesù Cristo, luce
del mondo, di rischiarare le nostre menti, i nostri cuori e di donarci il tuo Spirito Santo, perché ci guidi nella conoscenza della verità e ci santifichi.
Concedici di intendere con attenzione la tua parola, di comprenderne il significato e di conformare la nostra vita alle istruzioni che essa ci dona, che quello che udremo sia alla gloria del tuo nome, e serva alla nostra consolazione e alla nostra salvezza.
Per Gesù Cristo, nostro Signore.” Amen.

Questa domenica vorrei lasciare che sia il Pastore Paolo Ricca a guidarci con la sua meditazione dal titolo: “La Trinità: una storia d’amore”

TESTO PER LA MEDITAZIONE
“Salutatevi gli uni gli altri con un santo bacio. Tutti i santi vi salutano. La grazia del Signor Gesù Cristo e l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi”.  (II Corinzi 13, 12-13)

MEDITAZIONE

Cari Fratelli e Sorelle, il saluto conclusivo di questa lettera dell’apostolo Paolo siamo abituati a sentirlo alla fine del culto come benedizione finale. Oggi invece lo sentiamo al centro del culto come testo della predicazione, perché oggi, secondo il calendario liturgico della Chiesa antica, è la domenica Trinitatis, la Domenica della Trinità, e questo saluto è la formula più trinitaria del Nuovo Testamento, dopo quella contenuto nell’ordine missionario di Gesù che prima della Ascensione comandò ai discepoli di evangelizzare uomini e donne «di tutte le nazioni», battezzandoli «nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Matteo 28,19).
E che cosa ci dice questa formula? Ci dice due cose. La prima è che il problema N. 1 della Bibbia non è se Dio esista o non esista, che invece viene spesso sollevato nell’opinione pubblica. Semmai la domanda è se esista o non esista l’uomo, cioè se sia ancora degno di essere chiamato «uomo» la creatura che porta questo nome, creata, a suo tempo, a immagine di Dio. La grande domanda della Bibbia non è se Dio ci sia o non ci sia, ma chi sia e come sia. E la seconda cosa che questa formula ci dice è la risposta alla domanda: Chi è Dio? Come è Dio? E la risposta è questa: per dire chi è Dio non basta dire una cosa, ad esempio che è Padre, ma devi dire anche che è Figlio, e poi non basta neppure dire che è Padre e Figlio, devi dire ancora un’altra cosa, e qui c’è la sorpresa, la grande sorpresa: ci aspetteremmo che il terzo nome di Dio sia «Madre», e così Dio sarebbe Padre, Madre e Figlio, sarebbe perfetto, il modello divino della cellula umana originaria e fondamentale da cui tutti proveniamo. In questa Trinità: Padre, Madre, Figlio, ci riconosceremmo facilmente tutti, e questa sarebbe sicuramente la Trinità, se Dio l’avessimo inventato noi. Ma non siamo noi che abbiamo inventato Dio, è Dio che ha inventato noi, perciò la Trinità non è Padre, Madre, Figlio, ma è, a sorpresa, Padre, Figlio, Spirito Santo! Ora è vero che nella lingua ebraica lo «Spirito» è femminile e costituisce l’elemento femminile in Dio, e vero che il Padre è, nella Bibbia, una figura molto materna, questo sì. Ma pur essendo molto materno, Dio è Padre e non Madre.
Un’altra volta vi spiegherò perché Dio è Padre e non Madre, oggi non c’è tempo. Oggi dobbiamo riflettere sulla Trinità così com’è, cioè come risulta dalla Sacra Scrittura e in particolare da questo testo dell’apostolo Paolo, che certo non dice tutto sulla Trinità, anzi dice il minimo, ma è un minimo che contiene l’essenziale. E qual è questo minimo essenziale? È anzitutto questo, che nella formula di Paolo la Trinità non comincia dal Padre, ma dal Figlio: «La grazia del Signore Gesù Cristo» è il primo articolo. Siamo abituati altrimenti: sia il Credo Apostolico sia il Credo Niceno, detto «ecumenico», cominciano dal Padre: «Credo in Dio Padre, Creatore del cielo e della terra…» Sarebbe più corretto cominciare dal Figlio, come fa l’apostolo Paolo, perché è vero che è il Padre che manda il Figlio, ma è il Figlio che rivela il Padre. È Gesù la porta della Trinità. È a partire da lui che la concezione tradizionale di Dio è stata letteralmente rivoluzionata. Si trattava infatti di combinare il monoteismo ebraico, irrinunciabile, con la fede nell’uomo Gesù riconosciuto come Dio. La Trinità è stata e continua ad essere una rivoluzione teologica. Ecco perché c’è voluto tanto tempo per elaborarla. Non era per niente facile concepirla e ancora meno formularla. Solo il Concilio di Nicea nel 325 ci è riuscito, dopo una discussione pubblica infuocata durata decenni. Questo traguardo, così faticosamente raggiunto, è parso talmente importante che la Trinità è stata stabilita come dogma, cioè come articolo di fede, non di scuola, cioè non come una dottrina opinabile e facoltativa, ma come un principio basilare, un caposaldo, una colonna portante della religione cristiana, che proprio per questo articolo di fede si distingue profondamente da tutte le altre grandi religioni del mondo.
Ma questa dottrina è stata fin dall’antichità e continua a essere molto contestata non solo dagli Ebrei e dai Musulmani, ma anche da un settore dello stesso cristianesimo che la rifiuta del tutto. Esiste anche una Chiesa, diffusa soprattutto negli Stati Uniti (ma con  radici europee), che si chiama Unitariana, che sostiene appunto che Dio è uno, ma non è trino, e non è trino proprio perché è uno, e che può vantare alcuni «padri nobili», come gli italiani del XVI secolo Gian Paolo Alciati, Valentino Gentili, Fausto e Lelio Socino, e altri ancora, e il medico spagnolo Michele Serveto, arso vivo in quanto antitrinitario nella Ginevra di Calvino il 27 ottobre 1553. La dottrina trinitaria non è dunque innocente neppure lei, ha fatto delle vittime, e non poche. Rendiamo omaggio alle vittime di una Trinità capita male e applicata peggio, perché concepita come possibile fonte di violenza e di morte, invece che come circolazione di amore.
Ma torniamo al nostro testo che, pur nella sua estrema concisione, è come una finestra aperta nel cielo di Dio, che ci consente di vedere con l’«occhio interiore», cioè con lo sguardo dell’anima, non più «da dietro» come Mosè mentre la gloria di Dio passava davanti a lui (Esodo 33,22), ma davanti, con Gesù, nella nuvola, sul monte Tabor (Marco 9,7) – di vedere, dicevo, cose che non avevamo mai pensato, né immaginato e neppure sognato, per capire le quali non basta la nostra piccola intelligenza, neppure quella della fede, e non basta la nostra debole pietà, per quanto sincera e devota possa essere: sono «cose nascoste», direbbe Gesù (Matteo 11,26), cioè quelle che l’apostolo Paolo chiama «le cose profonde di Dio», che «occhio non ha vedute, che orecchio non ha udito e che non sono salite nel cuore dell’uomo, ma che Dio ha preparato per quelli che lo amano e a noi le ha rivelate per mezzo dello Spirito che scruta le cose profonde di Dio» (I Corinzi 2, 9-10).
Affacciamoci dunque alla finestra aperta nel cielo di Dio dal nostro testo e vediamo che cosa ci dice sulla Trinità. Come ho già detto, sulla Trinità ci dice il minimo, però il minimo essenziale, non speculando su quelli che possono essere i rapporti interni tra Padre, Figlio e Spirito Santo, ma riassumendo in una parola – una sola, essenziale – quella che è l’opera, anzi di più, quella che è la natura profonda di ciascuno di questi tre nomi di Dio. Di Gesù, la parola-chiave è «grazia». Se uno vi dicesse: «Tu che sei cristiano o cristiana, dimmi in una parola, una sola, non due, che cosa rappresenta Gesù per l’umanità», rispondete senza esitare come l’apostolo Paolo: «grazia!». È «grazia» la sua venuta, «grazia» la sua vita e il suo insegnamento, somma «grazia» la sua morte e la sua risurrezione, «grazia» la sua ascensione alla destra di Dio dove intercede per noi, sì, «grazia» dice l’essenziale di Gesù, che è tante altre cose, però quella è sicuramente la cosa principale, che non riassume solo il significato di tutta la sua opera, ma svela anche qual è la natura profonda della sua persona. Un discorso analogo si deve fare per Dio Padre. Qui la parola-chiave è «amore». Se uno vi dicesse: «Tu che credi in Dio, dimmi in una parola – una sola, non due – chi è Dio, cioè che cosa devo pensare quando sento o pronuncio questa parola» rispondete senza esitare come l’apostolo Paolo: «amore»! Certo, di Dio si possono dire tante altre cose, ma «amore» le dice tutte, le comprende tutte, le riassume tutte, le abbraccia tutte; è la parola dopo la quale non c’è nulla da aggiungere, la parola iniziale e finale, che apre e chiude il discorso su Dio. Dio ama: amare è il suo fare tanto quanto è il suo essere; è il suo fare perché è il suo essere. Così pure sullo Spirito Santo ci sarebbe moltissimo da dire (domenica scorsa abbiamo celebrato Pentecoste!), ma la parola-chiave, essenziale, qui è «comunione». Pensate a quello che è successo a Pentecoste: uomini e donne di ogni nazione che parlavano lingue diverse, si capivano come se avessero parlato la stessa lingua. Una cosa mai accaduta sulla terra! Questa infatti è l’opera dello Spirito: creare comunione dove c’è separazione, unità dove c’è divisione, pace dove c’è guerra o conflitto. La Chiesa è comunione proprio perché è il «tempio dello Spirito» (I Corinzi 3,16): comunione di diversi, di ebrei e pagani, di uomini e donne, di bianchi e neri, di schiavi e liberi, di ricchi e poveri. Sì, la comunione è ciò che lo Spirito crea, perché è ciò che lo Spirito è. Figlio, Padre e Spirito Santo: grazia, amore e comunione. Questo è l’essenziale della Trinità, che noi oggi confessiamo e celebriamo: non celebriamo solo la Domenica della Trinità, celebriamo la Trinità stessa, perché crediamo appunto in un Dio che è eternamente in sé stesso Padre, Figlio e Spirito Santo.
Potremmo fermarci qui, ma grande è il desiderio di sostare ancora un po’ sulla soglia alla quale ci ha condotti il nostro testo, per cercare di balbettare ancora qualcosa in presenza della «cose profonde di Dio». Questo mio balbettare si svolgerà in due tempi: nel primo dirò molto semplicemente quello che ho capito della Trinità; nel secondo solleverò tre domande, che non sono nel nostro testo, ma sono sorte in me riflettendo sul nostro testo.
1.     I. Che cosa ho capito della Trinità? Ho capito che la Trinità è una storia di amore. È un altro modo, più bello, di dire che Dio è amore. Ma la Trinità non è un modo di dire, è un modo di essere Dio. Non dunque un dogma oscuro e astruso, non una dottrina complicata di nessuna utilità, non un mistero incomprensibile da accettare a occhi chiusi, ma – lo ripeto – una storia di amore. Padre, Figlio, Spirito Santo sono le tre forme dell’amore divino. Padre, l’amore che crea; Figlio, l’amore che redime; lo Spirito Santo, l’amore che ricrea, rinnova, risuscita. Padre, l’amore sopra di noi; Figlio, l’amore accanto a noi; lo Spirito Santo, l’amore dentro di noi. Padre, colui che ama; Figlio, colui che è amato; lo Spirito, l’amore che li unisce. Che la Trinità sia una storia di amore, lo si può intuire dal fatto, forse casuale, ma forse no, che il versetto che precede quello trinitario (come se questi due versetti si richiamassero a vicenda), parla di baci, e il bacio – lo sappiamo – se non è quello di Giuda, è un classico modo per dire: «Ti amo!». «Salutatevi gli uni gli altri con un santo bacio» dice Polo, e Pietro precisa: «con un bacio d’amore» (I Pietro 5,13). Il primo bacio che abbiamo ricevuto è quello di nostra madre quando siamo nati. Il primo bacio che abbiamo dato è quello di quando perla prima volta ci siamo innamorati: anche quelli erano «santi baci» perché erano «baci d’amore». Questo è quello che ho capito della Trinità: è la trascrizione e descrizione della natura profonda di Dio, che è amore, attraverso tre nomi, che sono, appunto, i nomi della vita di amore che Dio vive in sé e della storia di amore che Dio vive con noi. Forse è pensando alla vita d’amore che Dio vive in sé che Agostino, in un brano famoso delle sue Confessioni, chiama Dio «Bellezza tanto antica e tanto nuova»[1]. La Trinità è bella. Bellezza che suscita stupore, Amore che suscita amore, Mistero che suscita domande.
2.     Veniamo allora alle domande. Sono tante. Ne ho selezionate tre sole, immaginando che potrebbero essere anche le vostre. La prima: È davvero possibile essere uno e nello stesso tempo tre? La Trinità non mette forse in serio pericolo l’unità e l’unicità di Dio? La seconda: Che cosa significa, propriamente, che Dio è uno? E che cosa significa che è trino, cioè trinitario? La terza: Qual è il dono specifico, particolare, che Dio mi fa come Padre? E qual è quello che mi fa come Figlio? E quello che mi fa come Spirito?
[1]. La risposta alla prima domanda non è difficile. È possibile che Dio sia nello stesso tempo uno e trino come è possibile a ciascuno di noi essere nello stesso tempo molte cose pur essendo un’unica persona. Ad esempio, una stessa persona può essere nello stesso tempo figlio dei suoi genitori, padre dei suoi figli, marito di sua moglie, fratello di fratelli e sorelle, amico di amici, e così via. Con i genitori si comporterà come figlio, con i figli come padre, con la moglie come marito, con fratelli e sorelle come fratello, con amici e amiche come amico, e così via. È sempre la stessa persona in diversi modi di essere (non solo modi di dire!) e diversi ruoli, secondo le diverse relazioni della sua vita. Così Dio è uno, ma in tre diversi modi di essere (non modi di dire!). La Trinità significa che Dio ci ama in modi diversi. Ci ama come Padre perché ci ha creati, e la creazione è un atto d’amore; anche noi siamo nati da un atto d’amore dei nostri genitori; ci ama come Figlio, incarnandosi e assumendo la nostra natura per guarirla e redimerla; ci ama come Spirito, che ha soffiato su di noi portandoci alla fede e alla vita nuova. Tre diversi modi di amare, ma è sempre l’unico Dio che ama. La Trinità non pregiudica minimamente il monoteismo, anzi lo esalta manifestando la sua ricchezza, purché però non adoperiamo più, quando parliamo della Trinità, la parola «persona», e non diciamo più «un Dio in tre persone», perché il termine «persona», nel IV secolo, significava «maschera»: era la maschera che l’attore indossava per interpretare un certo personaggio, e che cambiava cambiando il personaggio da interpretare. Ma oggi «persona» vuol dire «individuo»; dire «tre persone» equivale a dire «tre individui», cioè tre diversi soggetti, e allora salta il monoteismo: sono tre divinità, e non più una. Diciamo dunque: un Dio in tre diversi modi di essere Dio. Dio è uno, i modi di esserlo sono tre. Non solo è possibile, ma è anche bello che Dio sia, insieme, uno e tre.
[2]. Veniamo alla seconda domanda: Che cosa diciamo quando diciamo che Dio è uno? Diciamo due cose. La prima è che Dio non è doppio, non è un Giano bifronte, non dice una cosa e ne pensa un’altra, non è ambiguo, non è equivoco. Diciamo anche che è unico, che non ce ne sono altri, ma soprattutto che di lui ci si può fidare, è fedele alla sua Parola, mantiene le promesse. Ma dicendo che Dio è uno, diciamo anche un’altra cosa, la seconda, e cioè che Dio unifica, è il meeting point dell’umanità. Purtroppo, però non è così, non lo è mai stato e non lo è neppure oggi. Dio dovrebbe unire l’umanità, invece la divide. Non Dio la divide, ma lei si divide nel nome di Dio! Ciascuna religione crede in Dio a modo suo, ed è come se ci fossero tanti dèi quanto sono le religioni. Che triste spettacolo! Un triste spettacolo è la divisione tra i cristiani, ma non meno triste è la divisione tra i credenti delle diverse religioni. Tutti o molti dicono che c’è un solo Dio, ma nessuno ci crede veramente. Tutti o molti si dichiarano monoteisti, ma si comportano come politeisti, e di fatto lo sono.
E ora l’altra domanda, sorella della precedente: Che cosa diciamo quando diciamo che Dio è trinitario? Diciamo una cosa fondamentale, anzi la cosa fondamentale, quella di gran lunga più importante per varcare la soglia del mistero di Dio, e anche per amarlo: Dio è trinitario perché è relazione, lo è in sé, nella sua vita interna, nella sua natura profonda. «Relazione»: questo è il senso della Trinità e la chiave per capirla; questa è la parola che dischiude il mistero di Dio, che è mistero di luce... Ma «relazione» è anche la parola-chiave della vita, perché tutto è relazione: lo è la fede, lo è l’amore, lo è la Chiesa, lo è l’esistenza umana, proprio perché Dio è relazione e la Trinità è lì a testimoniarlo nella maniera più bella e convincente.
[3]. E veniamo alla terza e ultima domanda: Qual è il dono particolare che Dio ci dà come Padre, poi come Figlio, e poi come Spirito? Che cosa possiamo aspettarci dalla Trinità? La risposta sarà telegrafica: Il dono particolare del Padre è la vita, la sua grande invenzione. Il dono particolare del Figlio che è il Dio dal volto umano, è la nuova umanità, quella alla quale siamo chiamati. Infine, il dono particolare dello Spirito è la libertà: «Il Signore è lo Spirito, e dov’è lo Spirito del Signore ivi è libertà» (II Corinzi 3,17). Lo Spirito è Dio in libertà. Se sei un uomo libero, una donna libera, vuol dire che lo Spirito Santo ha soffiato su di te. Il più bel dono che Dio possa fare a chiunque è proprio questo: la libertà.
È tempo di concludere. Abbiamo celebrato – spero – la Trinità. Abbiamo imparato e capito che la Trinità è una storia d’amore e che Padre, Figlio e Spirito Santo sono i tre nomi dell’amore di Dio. E se volete sapere com’è questo amore, udite come lo descrive l’apostolo Paolo: «… l’amore non sospetta il male, non gode dell’ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa. L’amore non verrà mai meno» (I Corinzi 13, 5-7). Amen.

[1]  Agostino, Confessioni, X, 27. «Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! Ecco, Tu eri dentro di me, io stavo al di fuori: e qui ti cercavo e, informe nella mia irruenza, mi buttavo su queste cose belle che Tu hai creato. Tu eri con me, io non ero con Te, tenuto lontano da Te proprio da quelle creature che non esisterebbero se non fossero in Te. Mi chiamasti, gridasti, e vincesti la mia sordità …».

PREGHIERA DI INTERCESSIONE

Padre nostro, che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno,
sia fatta la tua volontà, come in cielo anche in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
e rimetti a noi i nostri debiti,
come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori
e non esporci alla tentazione,
ma liberaci dal Male.
Tuo è il Regno, la potenza e la gloria nei secoli dei secoli.
Amen.


BENEDIZIONE
“Fratelli e sorelle, rallegratevi, ricercate la perfezione, siate consolati,
abbiate un medesimo sentimento, vivete in pace. La grazia del Signore Gesù Cristo e l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi.”  Amen.
(2 Corinzi 13, 11.13)
Amen


(Liturgia curata da Giampaolo Castelletti, domenica 7 giugno 2020. Meditazione di Paolo Ricca. Tutte le citazioni bibliche, salvo diversamente indicato, sono tratte dalla versione Nuova Riveduta, a cura della Società Biblica di Ginevra, prima edizione 1994)