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Verbania - C.so Mameli 19
Domenica 21 aprile, Tempio di Intra, dalle h.10 momenti di preghiera e canti, Culto alle h. 11

Omegna - Via F.lli Di Dio 64
Domenica 21 aprile, Tempio di Omegna, Culto alle h. 9 con relativa Cena del Signore

23/09/2018

“Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo”



Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo, che un uomo, dopo averlo trovato, nasconde; e per la gioia che ne ha, va e vende tutto quello che ha, e compra quel campo. 45 Il regno dei cieli è anche simile a un mercante che va in cerca di belle perle; 46 e, trovata una perla di gran valore, se n’è andato, ha venduto tutto quello che aveva, e l’ha comperata. 47 Il regno dei cieli è anche simile a una rete che, gettata in mare, ha raccolto ogni genere di pesci; 48 quando è piena, i pescatori la traggono a riva, poi si mettono a sedere e raccolgono il buono in vasi, e buttano via quello che non vale nulla. 49 Così avverrà alla fine dell’età presente. Verranno gli angeli, e separeranno i malvagi dai giusti 50 e li getteranno nella fornace ardente. Lì sarà il pianto e lo stridore dei denti. 51 Avete capito tutte queste cose?. Essi risposero: «Sì».
52 Allora disse loro: «Per questo, ogni scriba che diventa un discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa il quale tira fuori dal suo tesoro cose nuove e cose vecchie».  (Matteo 13 , 44 – 52)


Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo”, ed “è anche simile a un mercante che va in cerca di belle perle”… Così, in parabole, Gesù ha parlato ai discepoli e poi – come scritto – ha chiesto loro: “Avete capito tutte queste cose?”. E la risposta è stata un pronto “Sì”. 
Come i discepoli, la chiesa ha risposto anche lei sempre di “Sì” a questa domanda del Signore: “Sì, Signore, noi abbiamo capito le tue parabole, e adesso le spieghiamo noi agli altri nel tuo nome”. 
Ma come e cosa ha capito la chiesa delle due prime, brevi, fulminanti storie del “tesoro nascosto” e della “perla preziosa”? 
Per secoli le ha lette e le ha spiegate alla luce della frase, presente in tutte e due: “Va e vende tutto quello che ha”, come un’altra versione dell’ammonimento di Gesù al “giovane ricco” :“Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli (vedete?… c’è il “tesoro” anche qui…). Poi vieni e seguimi” (Matteo 19,21): solo se rinunci a tutto ciò che hai, potrai davvero, nel caso del “giovane ricco”, seguire Gesù, essere suo discepolo… oppure, nelle nostre due parabole, potrai acquistare “il regno dei cieli”. 
A noi viene subito in mente Valdo di Lione, la cui scelta di povertà sembra sia nata proprio dall’ascolto di queste parole… e sembra che questa sia stata anche l’esperienza di Francesco d’Assisi. E tutti e due, Valdo e Francesco, “sono andati e hanno venduto tutto”, “nudi, hanno seguito un Cristo nudo”. 
E prima di loro e dopo di loro, tanti altri cristiani e cristiane hanno vissuto come “la parola di Gesù per loro” quell’invitoe l’hanno messo in pratica come la norma per la loro vita. Credenti che hanno saputo lasciarci un grande esempio: sono stati, per la grazia di Dio, “luce del mondo” “sale della terra” (cfr Matteo 5, 13 ss.). 
Ma se tutto questo vale pienamente per il “va’ e vendi” di Gesù al giovane ricco, io non so se possiamo fare con la stessa sicurezza il medesimo discorso per le nostre due parabole, e perciò dire che sono essenzialmente un invito del Signore ad un discepolato radicale… c’è come una pulce nell’orecchio, rappresentata dall’apertura delle due parabole: “Il regno dei cieli è simile a”… Con queste parole introduttive Gesù ci dice che il tema di queste sue piccole/grandi storie è appunto il “regno dei cieli”
Ma cos’è il “regno dei cieli” 
Forse, in maniera semplice, potremmo dire così: il “regno dei cieli” o – come lo chiamano gli altri evangelisti – il “regno di Dio”(Matteo, da bravo ebreo, usa “cieli” per non nominare il nome dell’Altissimo), è il “regnare” di Dio, è cioè Dio che esercita fattivamente la sua sovranità. Quando allora Gesù parla del “regno”, e già all’inizio della sua predicazione dice: “Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Matteo 4, 17), annuncia che nella sua persona, Dio sta per operare e anzi già opera con sovrana onnipotenza e, di più e soprattutto, che proprio perché è presente e opera attraverso lui, questo dispiegamento di potenza sarà tutto nel segno dell’amore, della sua misericordia verso gli uomini. Com’è scritto in Giovanni: “Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna” (Giovanni 3, 16)
Ma allora, se il “regno dei cieli” è Dio impegnato nella sua opera d’amore, quando Gesù ci dice che esso“ è simile a un tesoro nascosto nel campo, che un uomo, dopo averlo trovato, nasconde; e per la gioia che ne ha, va e vende tutto quello che ha, e compra quel campo”, e poi che “è anche simile a un mercante che va in cerca di belle perle; e, trovata una perla di gran valore, se n’è andato, ha venduto tutto quello che aveva, e l’ha comperata”, di chi sta parlando? Chi è l’”uomo che trova un tesoro, e va e vende tutto quello che ha”? E chi è “il mercante” che ugualmente “va e vende tutto” per acquistare la “perla di gran valore”? Siamo proprio sicuri che siano due immagini del credente che deve dare via “tutto quello che ha” per procurarsi il “regno dei cieli”? o non potrebbero essere, queste figure, due inattese, sorprendenti, bellissime immagini di Dio? 
A rileggere il testo partendo proprio da quel ripetuto: “Il regno dei cieli è simile a…”, questa interpretazione “capovolta” è possibile almeno quanto l’altra tradizionale. Ma allora, se è così, qui Gesù ci sta dicendo che non conta quello che noi possiamo fare… non conta nemmeno quello, pure straordinario, che hanno fatto Valdo o Francesco quando “sono andati e hanno dato via tutto quello che avevano”… no, qui conta quello che Dio ha fatto e fa per noi! 
E cosa fa per noi? e come ci considera? Se è proprio lui, Dio, che Gesù ci rappresenta nell’“uomo” e nel “mercante” di queste due parabole, allora il “tesoro” e la “perla di gran valore” siamo noi! Ma allora noi siamo “preziosi” per il Signore! Siamo così preziosi che lui, Dio, “spinto dalla gioia” di averci trovato, “va e vende tutto quello che ha” pur di poterci avere… Sì, Dio “è andato e ha venduto tutto”: ha dato il suo stesso Figlio “per comprarci”. Come dirà poi Paolo: “siamo stati acquistati a caro prezzo!” (cfr 1 Corinzi 6, 20)… 
Qui allora abbiamo una bellissima rivelazione dell’amore di Dio, della sua pura grazia. Ed in questa rivelazione della grazia, torna ad avere importanza un elemento di queste parabole che invece nella lettura tradizionale s’era un po’ disseccato, rattrappito: “Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo, che un uomo, dopo averlo trovato, nasconde; e per la gioia che ne ha, va e vende tutto quello che ha, e compra quel campo”. Sì, qui ritorna ad esplodere “la gioia”, che era stata sostituita con l’impegno e la grinta richiesti a chi deve saper dare via tutto per il “regno dei cieli”. Ed è la stessa gioia, lo stesso sorriso divino che ricolma di sé altre parabole di Gesù: è la gioia del pastore che trova la sua “pecora smarrita”, e quella della donna che invita a fare festa le vicine perché ha in mano la sua “dracma” che temeva di aver perso, e l’altra incontenibile del “padre” che da lontano scorge il proprio figlio “che era perduto e che era come morto” avvicinarsi timoroso a casa, e “gli corre incontro, lo abbraccia e lo bacia e lo ribacia” (cfr Luca 15, 2 ss.). 
E in risposta alla gioia del Signore, c’è la nostra “gioia”: la meraviglia incredula e stupita di chi fa la scoperta d’essere – proprio lui, lei! – un “tesoro” una “perla” a cui Dio tiene… deve credere questo e ci può credere… e allora il “regno” è suo! Perché lui è del Signore che per lui ha dato tutto, che ci ha dato Gesù che ci racconta queste due brevi storie, luminose della grazia di Dio. 
Grazie alla bella iniziativa degli Itinerari interculturali, abbiamo ospitato nelle nostre chiese tante persone, abbiamo raccontato loro, e ci siamo raccontati, la nostra storia, la nostra spiritualità, la nostra teologia. Abbiamo ricordato la Riforma e i suoi principi… 
In fondo la Riforma è nata proprio da una lettura della Bibbia simile a quella che abbiamo fatto oggi, “capovolta” rispetto a quella tradizionale: la lettura sorpresa e riconoscente di chi ha creduto e ha capito che al cuore dell’evangelo non c’è quello che dobbiamo fare noi per guadagnare il “regno dei cieli”, ma quello che Dio ha fatto per acquistare noi! 
Così molti cristiani hanno ritrovato la gioia di una fede che è il riflesso luminoso della gioia di Dio che non si stanca di cercarci e quando ci ha trovato ne è felice, perché ci ama e ci vuole, e proprio col suo amarci e con il suo volerci ci rende quei “tesori” e quelle “perle” che non siamo, ci stima ben di più di quanto non valiamo… 
Gesù oggi ci ha raccontato anche un’altra parabola, di un colore diverso, un colore inquietante, così com’è inquietante l’ambiente in cui ci porta: “Il regno dei cieli è anche simile a una rete gettata in mare…”. 
Dal campo del tesoro, dalle strade percorse dal mercante, eccoci adesso“in mare”. Per gli Ebrei il mare è sempre stato un profondo angoscioso mistero: un universo che ricorda “le acque che coprivano la superficie dell’abisso” del caos, prima ancora che l’universo fosse fatto (cfr Genesi 1, 2), è un universo sconosciuto: ne vedi solo le onde, ma cosa c’è al di sotto, quello non puoi saperlo. In quel periodo, il mare in Israele era chiamato così: “il mondo delle cose nascoste”. 
Ora, dal “mondo delle cose nascoste”, emerge una rete. E quella rete porta con sé un giudizio. Perché lì tra quelle maglie, mescolati insieme, ci sono “il buono” “il cattivo”, “quel che non vale nulla”. Questa mescolanza sarà poi separata, e “quello che non vale” sarà “gettato via nella fornace ardente”. Là – è l’ultima parola da brivido che chiude la parabola – “sarà pianto e stridore di denti”. 
Anche questa parabola, è compresa con le due che la precedono nella domanda di Gesù ai discepoli: “Avete capito tutte queste cose”?. E anche per Gesù, la risposta dei discepoli prima e della chiesa poi è stata: “Sì”
Ma anche qui, come ha capito la chiesa questa parabola? Abbiamo ascoltato come Gesù la spiega: “Così avverrà alla fine dell’età presente. Verranno gli angeli, e separeranno i malvagi dai giusti”. Se “il regno dei cieli” è il “regnare di Dio nel suo amore”, se tu rifiuti la sua offerta di amore, allora quell’offerta rifiutata diventa il tuo giudizio di condanna. E Gesù qui, parla della terribile possibilità di questo giudizio e di questa condanna, che avverrà attraverso una doppia “separazione” :“alla fine dell’età presente”, “i malvagi” saranno prima “separati dai buoni”, e poi da Colui che loro stessi hanno rifiutato, per andare nel luogo simbolico della disperazione: “la fornace ardente” in cui “sarà pianto e stridore di denti”. 
Ma, se mai questa possibilità dovesse verificarsi, “avverrà” solo alla fine dell’età presente”, e ad opera degli “angeli”. Ed invece la chiesa non ha avuto esitazioni a anticipare questa “fine” al tempo che viveva nella storia, né ha avuto esitazioni a fare suo il compito degli “angeli”. E ha “separato” lei “i malvagi dai giusti”, li ha giudicati e condannati senza battere ciglio. Quanta parte della storia del cristianesimo è caratterizzata anche dalle scomuniche, dalle sanzioni, dalle condanne e dalle esclusioni? “Extra ecclesiam nulla salus”, “Fuori della chiesa non c’è salvezza”. Già poco dopo l’epoca apostolica, questa formula è stata decisiva per esprimere il modo con cui la chiesa ha guardato a se stessa come alla comunità che giudica ed esclude nel nome del Signore. 
Ma se “il regno dei cieli”, a cui la parabola “è simile”, anche qui, Dio instaura in Gesù il suo regno d’amore, allora non è fuori della chiesa che non c’è salvezza, ma al di fuori di Gesù! E lui, Gesù, è incomparabilmente più grande della chiesa. E a lui, in unione col Padre, spetta il giudizio! Sta a lui, e non a noi, “separare fra i buoni e i malvagi”; a lui che sa quel che c’è veramente nel cuore di ogni uomo di chiesa e non di chiesa. 
 E questa parabola di Gesù ci riconferma in questa posizione. Ci ricorda che noi siamo “rete”, e quello che possiamo e che dobbiamo fare è “raccogliere ogni genere di pesci, buoni e cattivi”. Il giudizio appartiene al Signore e solo a lui, e per quello si servirà degli “angeli”, e non di noi…
Questo discorso del giudizio che appartiene solo a Dio, vale per tutti coloro che, nella chiesa e nella vita, noi incontriamo anche a livello della nostra esistenza quotidiana, noi dobbiamo imparare che il Signore ci chiama ad “accogliere e raccogliere” e a evitare i giudizi, che appartengono a lui, che, unico, conosce i nostri cuori.
Vorrei ricordare un episodio della vita di Lutero (che fra l’altro, accusato nel 1519 dal suo avversario Johannes Eck di essere un Hussita, prima negò con sdegno, poi incuriosito lesse le opere di Hus, e alla fine dichiarò: “Che cosa strana! Sono davvero un hussita, e neanche lo sapevo!”). Nel 1521, un monaco e teologo, Johannes Bugenaghen, sino ad allora prudentemente interessato alle sue idee, lesse il suo scritto "La cattività babilonese della chiesa", e, sconvolto dalla rivoluzione che quell’opera introduceva nel modo di pensare e di vivere i sette sacramenti tradizionali della chiesa, fra l’altro riducendoli a due, la gettò a terra con parole di spavento e di collera. Poi però la riprese, la rilesse più volte, e alla fine confessò: “Il mondo sinora è stato cieco”. E uscì dal suo convento, si recò a Wittenberg, e divenne uno dei principali collaboratori del Riformatore. Aveva scoperto la “novità” che smascherava le lacune del “vecchio”, e portava alla luce la verità. 
Il “nuovo” e il “vecchio”… È il tema dell’ultima parola di Gesù di oggi: “Ogni scriba che diventa un discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa il quale tira fuori dal suo tesoro cose nuove e cose vecchie”.
Viviamo tempi niente affatto facili, come credenti e come cittadini… tempi oscuri, di crisi politica, economica, religiosa e morale… Il pericolo che si corre nei momenti difficili è cercare vie d’uscita ai due estremi. Da un lato c’è la tentazione di richiudersi nel “vecchio”: rimpiangere il passato come “l’età dell’oro” e intestardirsi a fare sempre e soltanto quel che s’è sempre fatto: viva “l’antico usato”, senza voli e avventure che non sai dove portano. Ma se si fa così, crediamo di star sempre sulle nostre posizioni, e invece ci sgretoliamo a poco a poco, come una vecchia statua esposta al sole, alla pioggia ed al vento. 
Dall’altro lato, si sceglie invece di buttarsi in avanti: se siamo in crisi, è segno che quel che finora siamo stati, non funziona! E allora, “rinnoviamoci!” e buttiamo via il vecchio. Tutto sia nuovo per avere tempi nuovi! E certo questa strada è migliore di quella del conservatorismo: anche nella parola di Gesù che abbiamo appena riletto, se ci fate caso, il “discepolo del regno tira fuori dal suo tesoro” prima le “cose nuove”, e poi le “vecchie”: ascoltare Gesù, imparare da lui, è essenzialmente avere a che fare con il “nuovo”: una nuova inattesa rivelazione di Dio, un nuovo rapporto con se stessi e col mondo, un nuovo senso che illumina la vita… Anche oggi abbiamo fatto l’esperienza di come la Scrittura possa sempre sorprenderci, aprirci nuove comprensioni e nuove strade… 
E però, dopo le “cose nuove”, dobbiamo tirare fuori anche le “cose vecchie”. Se ci stacchiamo dal tronco che ci porta, finiamo a terra come foglie ingiallite. Crediamo di volare, ed invece cadiamo solamente…
Diamo retta quindi a Gesù. Tiriamo fuori “dal nostro tesoro”, con coraggio e lungimiranza, ma anche con calma e pazienza, “cose nuove e cose vecchie”. È il segreto che Gesù oggi ci insegna: il “nuovo” e il “vecchio”, non solo non si oppongono, come spesso pensiamo, ma anzi appartengono allo stesso “tesoro” e, di più, si rafforzano a vicenda. Se le “nuove” non vengono ad animare le cose vecchie, le “cose vecchie” muoiono. E al contrario, le “cose nuove” hanno un senso e raggiungono lo scopo solo nella misura in cui trovano origine e senso nelle “vecchie”. 
Solo che, dobbiamo imparare a non confondere, come a volte ci capita di fare, quel che è vecchio e quel che è nuovo. E dobbiamo imparare a articolarli. 
E ancora una volta torniamo alla Riforma, che oggi abbiamo più volte ricordato: i Riformatori hanno rinnovato una parte importante della chiesa e della società del loro tempo, non buttandosi avanti in maniera spericolata, ma tornando al più vecchio del vecchio: per ridare alla chiesa del loro tempo quella “forma” che secondo loro aveva perso, sono andati alle fonti, sono andati alla Bibbia (è il senso del “sola Scriptura”), perché lì, in quelle antiche, venerande pagine hanno riscoperto e “tirato fuori” il “nuovo”, il soffio d’aria fresca che rende tutto limpido e spazza via il “vecchiume” anche moderno...
Finiamo con la prima parabola di oggi: “Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo, che un uomo, dopo averlo trovato, nasconde; e per la gioia che ne ha, va e vende tutto quello che ha, e compra quel campo”. 
Noi abbiamo tutti un po’ la sensazione di essere a terra, coperti dalla polvere. Ma arriva “un uomo”, ci trova e sorride felice. E corre via con gioia e per noi dà via tutto quello che ha. E poi torna, ci prende nelle mani, ci solleva e ci scuote, e manda via la polvere e il vecchiume, ci fa brillare al sole come nuovi.
Quell’“uomo” è il nostro Dio. Noi siamo il suo “tesoro”. Gesù ce l’assicura, ci rinnova la gioia e lo stupore. 
Avete, abbiamo capito tutte queste cose?”. Se “Sì”, allora veramente “beati noi” !
                                                                AMEN

24/03/2018

Sermone tenuto Domenica 4 Marzo ad Omegna dal Pastore Alessandro Esposito



Sapete, fratelli miei amati: sia ciascuno pronto ad ascoltare, lento a parlare e lento all'ira: l'ira dell'uomo, infatti, non realizza la giustizia di Dio (GIACOMO 1:19-20)

Essere comunità, si sa, è vocazione tutt'altro che facile: si tratta, infatti, di un compito impegnativo perché quotidiano. Comunità non lo si è mai pienamente, perché, ogni giorno di nuovo, è necessario ridiventarlo. Si tratta dello stesso processo che riguarda la fede di ciascuno e di ciascuna di noi: un cammino costante, inevitabilmente esposto a difficoltà, ostacoli, incomprensioni. Essere comunità significa cercare ogni giorno di divenirlo, vivendo concretamente la nostra fede attraverso le relazioni ed i gesti che le alimentano o le incrinano. Tutto nella vita, quindi anche nella vita comunitaria, è cura delle relazioni: cura che spesso trascuriamo di avere a causa di atteggiamenti che ci infastidiscono o di parole che ci amareggiano o ci feriscono. Così finiamo per rispondere a tono, alimentando, in tal modo, una spirale che porta soltanto all'inasprimento del rapporto. E, alla fine, ci lamentiamo per atteggiamenti che, in realtà, mettiamo in atto anche noi, utilizzando come giustificazione il fatto di esserci limitati a rispondere a chi, riteniamo, ci abbia aggrediti. Tutto ciò non può che lacerare i rapporti e ferire ambedue le persone coinvolte.

Mi sembra giusto dire, come prima cosa, che tutto questo è assolutamente normale: non desiderabile o lodevole, ma certamente del tutto normale. Succede, e succede dovunque.
Le comunità cristiane non ne sono in alcun modo esenti in virtù della fede che professano. Sarebbe ingenuo pensarlo e credo che sia del tutto fuori luogo manifestare meraviglia o persino indignazione. Certo, ogni contrasto addolora, e non soltanto le persone direttamente coinvolte: ma non credo che il dolore debba tramutarsi in rimprovero. Nessuno di noi, infatti, è estraneo a situazioni conflittuali: il conflitto abita l'intimità di ciascuna e di ciascuno e, per questo, poi, si manifesta nelle relazioni che viviamo. Anche in quelle comunitarie. Allora, per incominciare, il conflitto è meglio riconoscerlo che non nasconderlo o camuffarlo: poi, però, è necessario affrontarlo e fare tutto il necessario per non alimentarlo.

È piuttosto diffusa una sorta di “mitologia”, secondo cui le prime comunità cristiane vengono presentate come luoghi di perfetta pace e fratellanza, che ignoravano ogni contrasto ed ogni dissidio interno. Ogni mitologia crea danni e provoca frustrazioni, prendendo come riferimento un modello chiaramente irrealizzabile e proprio per questo improponibile. I conflitti comunitari in seno al cristianesimo ci sono sempre stati e, possiamo azzardare, ci saranno sempre: l'epistola di Giacomo, semmai ce ne fosse bisogno, sta a testimoniarlo. Si tratta di non fingere di scandalizzarsi e di vedere che cosa fare, concretamente, per evitare che una situazione di tensione prenda il sopravvento, sino a divenire quella predominante in seno ad una comunità. Giacomo tutto questo lo sa bene e ci regala parole che, a leggerle con attenzione, si rivelano estremamente attuali.

Si tratta di parole che amo particolarmente in ragione di una loro caratteristica: non sono, per l'appunto, parole di inutile ed ipocrita indignazione, né di saccente e fastidioso rimprovero: sono, invece, parole che rinviano alla responsabilità di ciascuna sorella e di ciascun fratello che partecipano alla vita comunitaria. E, in virtù di questo, sono parole sagge.

La prima raccomandazione è l'unica dalla quale abbia senso partire se si vuole davvero affrontare una qualsiasi difficoltà che, solitamente, scaturisce da un'incomprensione. Quindi, onde evitare fraintendimenti, l'invito di Giacomo appare sensato ed opportuno: ciascuno sia pronto ad ascoltare. Si tratta di un appello singolare, poiché invita alla prontezza in un atteggiamento, quello dell'ascolto, che, solitamente, viene considerato “passivo”. Ma soltanto da un ascolto attento, in realtà, ha inizio ogni dialogo ed ogni confronto: se si ascolta male, inevitabilmente, si risponde peggio. Non è un atto semplice, quello del mettersi all'ascolto: spesso sentiamo cose che, in realtà, non sono state dette e dimostriamo di essere, nell'ascoltare, disattenti e approssimativi. Questo perché, non di rado, siamo troppo concentrati sulla risposta che intendiamo dare a chi ci parla. Invece l'ascolto è un invito a partire dall'altro, dall'altra, a dargli, a darle la “precedenza”, come si fa in macchina quando si attraversa una strada principale provenendo da una secondaria. Noi siamo figlie e figli di una cultura marcatamente individualista, dove l'io occupa ostinatamente il centro di tutto: anche (anzi, forse, soprattutto) nelle relazioni. Quindi, di conseguenza, dei dialoghi e delle discussioni. Insomma: in un modo o nell'altro, si parte sempre da sé. Cosicché, spesso, non si ascolta.
La lingua ebraica, a questo proposito, presenta una curiosità che trovo estremamente significativa. Quando in ebraico si coniuga un verbo, non lo si fa come nella maggior parte delle lingue occidentali moderne, che incominciano tutte, immancabilmente, con la prima persona singolare. Quando si coniuga un verbo in ebraico, si incomincia con la terza persona. Perché l'ebreo sa che tutto, in verità, incomincia dall'altro, non da sé: e questo per il fatto che tutto ciò che facciamo o si diciamo ha come primo destinatario l'altro, l'altra. Non noi stessi. Quando dico o faccio qualsiasi cosa, la dico e la faccio prestando attenzione all'altro, alle sue possibili reazioni, alla sua sensibilità, necessariamente diversa dalla mia. Per cui sono attento ai toni che utilizzo, alla delicatezza dei miei gesti.
Noi figli dell'occidente, invece, siamo attentissimi agli accenti ed alle disattenzioni altrui, assai meno alle nostre. È quasi sempre l'altra, l'altro, a rivelarsi insensibile e siamo quasi sempre noi le vittime di un'assurda incomprensione. Partiamo dall'altro soltanto se si tratta di evidenziarne i torti, veri o presunti, in realtà, poco importa. Per tutto ciò che riguarda la comprensività, invece, quella ci è quasi sempre esclusivamente dovuta: ci lamentiamo del fatto che ne riceviamo poca e dimentichiamo puntualmente di darne. Il centro, immancabilmente, siamo noi, la nostra sensibilità offesa: ma, in tal modo, non può nascere alcuna comunità di nessun tipo. Crescere come comunità, infatti, significa imparare il decentramento: fino a quando al centro di tutto ci sono io, non c'è spazio per la vita comunitaria, che mette invece al centro la relazione. Quella relazione che, senza l'altro, senza l'altra, non può nascere.
Una relazione che agisce nell'ascolto e, agendo, ci trasforma: come un ruscello che alla fine riesce a vincere la resistenza della roccia, scavandovi un letto che porta movimento, freschezza e vitalità.

Il secondo monito di Giacomo è una diretta conseguenza del primo: chiunque sia pronto ad ascoltare, non può che essere lento nel parlare. Abbiamo lingue spesso più veloci del nostro stesso pensiero, per lo meno di quello meditato, riflettuto. Tenere a freno la lingua è uno degli atteggiamenti più difficili da assumere, e nessuno, forse, lo sa bene quanto me. Spesso amiamo giustificare tanta prontezza vantandoci della sincerità che la anima: ma le cose si può anche imparare a dirle, senza che ciò significhi essere ipocriti o vigliacchi. Utilizzare i toni opportuni significa, ancora una volta, non dimenticare mai che le cose che diciamo le diciamo ad altri, ad altre, che hanno alle proprie spalle percorsi, esperienze, vissuti estremamente diversi dai nostri e spesso a noi del tutto ignoti. Dobbiamo apprendere la lentezza nel rivolgerci agli altri, perché non conosciamo mai del tutto l'effetto che le nostre parole possono provocare nei loro cuori. Perché le parole sono fatti. Una volta ancora, ce lo insegna la sapienza ebraica, che indica con un solo termine, davar, sia le parole che i fatti, i gesti, le azioni. Chi parla, in realtà, agisce; e a seconda di come ha parlato, chi gli sta di fronte re-agisce. Sembra semplice, detto così: ma in verità non pensiamo quasi mai al fatto che le reazioni degli altri sono spesso soltanto la conseguenza delle parole che abbiamo loro rivolte con scarsa attenzione e poca delicatezza.

L'ultimo appello di Giacomo è rivolto alla sua comunità affinché chi viene a costituirla contribuisca, con il proprio atteggiamento, a realizzare la giustizia di Dio. Giustizia che, in tutto l'evangelo, rappresenta la caratteristica principale del Regno. Un Regno che, certo non per caso, Gesù amava dipingere attraverso immagini di piccole cose. Un granello di senape, un pizzico di lievito: cose minime, come minimi, del resto, sono i destinatari dell'evangelo e gli eredi del Regno che esso annuncia. Non è una realtà eclatante, quella della volontà di Dio come volontà di giustizia: è appena uno sguardo attento alle piccole cose, quello stesso sguardo che, così spesso, ci capita di smarrire. La comunità è lo spazio entro il quale, predicando e praticando l'evangelo, questo sguardo si può tornare ad imparare. Impariamolo, allora: sarà la testimonianza migliore, perché muta, di un amore dal volto concreto. Quell'amore che ci insegna a tenere a freno la nostra irascibilità per non ferire e per non ferirci. Quell'amore attraverso il quale, come sperava Gesù, ci riconosceranno e ci riconosceremo, poiché ci renderà attenti, prima di tutto, all'altro, come termine ultimo e imprescindibile di ogni nostro dire e di ogni nostro agire.

(OMEGNA, Assemblea Straordinaria del 4 marzo 2018)


Alessandro Esposito