Culti

Verbania - C.so Mameli 19
Domenica 21 aprile, Tempio di Intra, dalle h.10 momenti di preghiera e canti, Culto alle h. 11

Omegna - Via F.lli Di Dio 64
Domenica 21 aprile, Tempio di Omegna, Culto alle h. 9 con relativa Cena del Signore

30/12/2019

Pensiero di Natale dal Vangelo di Luca capitolo 2, versetti da 33 a 35


“E il padre e la madre di Gesù erano meravigliati per le cose che si dicevano di lui. E Simeone li benedisse e disse a Maria, la madre di Gesù: «Ecco, questo [tuo figlio] è posto per la caduta ed il rialzarsi di molti in Israele e come segno di contraddizione (e una spada, poi, trapasserà la tua stessa anima) di modo che vengano rivelati pensieri da molti cuori»” (Luca 2,33-35) 

Ci troviamo all’inizio del vangelo secondo Luca, in mezzo a quelle pagine che narrano dell’infanzia di Gesù. L’episodio inizia facendo riferimento alla meraviglia di Maria e di Giuseppe, sorpresi dalle parole che hanno ascoltate da Simeone, attraverso le quali il loro figlioletto appena nato era stato definito «luce che illumina le genti e gloria del Tuo popolo Israele». Ma chi è Simeone? Quando lo presenta, Luca lo descrive semplicemente ma significativamente come «un uomo giusto»: vive in Gerusalemme e, da uomo retto qual è, si tratta della persona più indicata per riconoscere Gesù come colui nel quale e attraverso il quale questa giustizia si compie.  
L’elemento più sorprendente e più dirompente però, in questa confessione, è un altro e consiste nel fatto che chi pronuncia queste parole è un laico, ovverosia, letteralmente parlando, un «uomo del popolo». Non si tratta, infatti, di un sacerdote, di un uomo che, per così dire, “per mestiere” si occupa di amministrare il sacro: Luca, con buona pace di quanti, allora come oggi, rimangono perplessi e scandalizzati da questa scelta, pone sin dall’inizio la vicenda umana e divina di Gesù sotto il segno della laicità. Simeone, uomo retto e laico, viene però incontro a Gesù e ai suoi genitori proprio dentro il tempio, per annunciare che, in verità, con quel tempio e con il suo sacerdozio la predicazione e la vita di quel bimbo, un giorno non lontano, entreranno inevitabilmente in contrasto. Profeta di questa notizia è, come quasi sempre sono i profeti biblici, un uomo del popolo, che agli occhi di Dio è affidabile più di qualsiasi uomo religioso per il semplice fatto che si tratta di un uomo giusto. E persino lo stesso nome che porta non è figlio del caso: Simeone, infatti, vuol dire, letteralmente, «colui che dà ascolto»; ed è questa stessa capacità, il suo saper volgere l’orecchio così come il cuore a Dio, ciò che lo rende, in ultima istanza, un uomo giusto. 
Ma le sorprese legate a quest’uomo semplice ed integro non sono ancora finite, al contrario, hanno appena avuto inizio. Simeone, infatti, contro ogni consuetudine propria del suo tempo e della sua cultura, sceglie di rivolgere le sue parole non al padre del bambino, ma alla madre. Nella religiosità sacerdotale, ieri come oggi, la donna non è considerata come possibile interlocutrice: la parola circola da maschio a maschio, perché i maschi custodiscono e circoscrivono lo spazio inviolabile del sacro. Il Dio delle istituzioni religiose parla ai soli maschi, i quali poi, sovente, si elevano al rango di depositari del vero. I vangeli, al contrario, sono storia di una rivelazione che, in modo assai significativo, si apre e si chiude al femminile. 
Ed è con un riferimento all’intimità che Simeone si rivolge, con una confidenza commovente e sorprendente, a Maria. Le dice, infatti: «Una spada, poi, trapasserà la tua stessa anima».  Simeone annuncia a Maria il suo dolore di madre, la ferita da cui dovrà imparare a germogliare la sua fede di donna: il suo Gesù infatti, e lei lo sa, appartiene a Dio, e lei dovrà riscoprirsi madre nel lasciarlo andare, nel rinunciare alla spontaneità del sentimento che tende a trattenere l’amato. Quel figlio suo e non suo, dono dell’amore come lo è ogni figlio, ogni figlia, sarà trafitto a morte e straziato, e con lui il suo cuore di madre. Ma in questo squarcio che verrà a dilaniarle il petto Dio, per bocca di Simeone, promette di gettare un seme: e da quel dolore muto e inconsolabile qual è il dolore della madre che veda morire il figlio, da quel solco che le si scaverà nell’anima e nei sensi, gli ultimi di questa terra riceveranno speranza e nuova vita.     

[NATALE 2019 – Pastore Alessandro Esposito]


28/12/2019

Filippesi 2, 6-11. Testo biblico e predicazione tenuta durante il culto di Natale



                          Filippesi 2 , 6 – 11


Cristo Gesù, il quale era in condizione di Dio, non considerò un possesso per sé l’essere uguale a Dio,

ma annientò se stesso prendendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini.

Facendosi incontrare davvero come un uomo, umiliò se stesso, essendo divenuto obbediente sino alla morte,

e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha fatto grazia del nome

che è al disopra di ogni nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e negli abissi,

e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre.



IPaolo noi leggiamo alcuni testi che non sono suoi. Sono degli inni delle comunità che riprende ed inserisce nelle sue lettere. E dal momento che le lettere di Paolo sono i più antichi scritti cristiani in nostro possesso, quegli inni, che sono addirittura più antichi delle lettere, rappresentano allora la primissima voce dei credenti arrivata fino a noi, una voce che risale anche a quasi solo venti anni di distanza dalla morte e risurrezione del Signore.


Il più famoso di quegli inni “primordiali” è quello che abbiamo ascoltato dall’epistola ai Filippesi.

É bello ed è prezioso, dare voce oggi a quest’antichissima voce, perché questa superba confessione di fede della primissima cristianità ci ricorda che l’evento Gesù è così grande che ogni banalizzazione, anche coi più sinceri buoni sentimenti, di ciò che lo riguarda, è qualcosa di grave, è quasi una bestemmia.


I.

Cristo Gesù, il quale era in condizione di Dio, non considerò un possesso per sé l’essere uguale a Dio, ma annientò se stesso prendendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini”.

Era “uguale a Dio” e “annientò se stesso”. I credenti delle prime comunità vedevano nel bambino nato a Bethleem né più né meno che l’annientamento di Dio! Questo è la verità di quell’evento di duemila anni fa che oggi ricordiamo. E allora è l’impensabile! Colui che “era nel principio, e era presso Dio, e era Dio… la Parola, il Verbo di Dio, per mezzo del quale tutte le cose son ostate fatte, e senza la quale assolutamente nulla è stato fatto”, s’è fatto una creatura, un batuffolo di carne e di sangue. Siamo davanti al “mistero dei misteri”… siamo alle prese con la vertigine…


Di più. Questa è la “bestemmia” che le altre grandi religioni monoteiste rimproverano al Cristianesimo: Dio, l’Altissimo il Santo, del quale dobbiamo stare attenti anche soltanto a pronunciare il nome, perché lo si può solamente mormorare in alcuni momenti “con timore e tremore”, si fa “servo”!

Davvero, quest’annuncio è insopportabile! È un insulto alla maestà dell’Eterno, alla sua immutabilità e alla sua onnipotenza.


Così gli altri credenti nel Dio unico hanno reagito ed ancora reagiscono all’Evangelo dell’Incarnazione. E così dimostrano di aver colto l’abisso che quell’evangelo ci spalanca sotto i piedi, molto più di tanti cristiani e cristiane che vivono con tutta tranquillità la nascita di Gesù come la “bella poesia” del presepe…

In realtà, qui è tutto un mondo che si capovolge, e quando il mondo si capovolge, nessuno più riesce a stare in piedi. Ognuno deve capovolgersi anche lui…

Oggi” – così hanno detto ai pastori gli angeli dell’annuncio del Natale – “oggi è nato per voi un Salvatore, che è il Cristo, il Signore” (Luca 2,11). E nulla è più, e nulla può più essere, come prima. Il mondo, la vita, la morte, il senso delle cose… tutto cambia! E anche noi dobbiamo cambiare. Se tu intuisci anche vagamente che in quel bambino che nasce, “Dio si annienta”, questo non può non sconvolgerti la vita: o provi orrore, o il cuore ti si gonfia di stupore.


Quello stupore, e la riconoscenza… l’entusiasmo che ricolma quest’inno che Paolo ci ha trasmesso: “Cristo Gesù, il quale era in condizione di Dio… annientò se stesso…divenendo simile agli uomini”.

C’è qui davvero tanta meraviglia. C’è la sorpresa di chi è alle prese con l’impossibile, e pensa di sognare e poi si rende conto che… no… non sta sognando e invece sta contemplando la realtà. E si rende anche conto che tutto questo è accaduto ed accade per lui, che se Dio in Gesù “ha annientato se stesso”, l’ha fatto per me! Perché mi ama. Ama me, proprio me!

Ma allora, se mi sento insignificante, ora so che non è così. Perché so che per lui, per il mio Dio, io sono importante; so che lui tiene a me al punto che s’è svuotato di se stesso per farsi come me, per dare senso, redenzione, gioia alla mia vita! Allora, se mi sento povero e miserabile, so che non è così. Io adesso sono ricco, sono un vero nababbo, perché Dio adesso è mio… adesso mi appartiene come io appartengo a lui. E se mi sento solo e abbandonato, so che in quel bambino Dio mi si è fatto vicino, s’è fatto mio fratello, il mio compagno di strada che non mi lascia più, qualsiasi cosa accada…


E lo stupore a questo punto si fa gioia, si fa entusiasmo ed inno…

Perché poi, non soltanto nel bambino di Bethleem, Dio s’è fatto “simile agli uomini”, ha cioè condiviso la nostra condizione, ma ha poi portato questa condivisione fino al suo compimento. E così la parabola della storia dell’uomo Gesù di Nazareth, iniziata sul legno della mangiatoia si chiuderà su un legno ben diverso: “Umiliò se stesso, essendo divenuto obbediente sino alla morte, e alla morte di croce”.

Gesù è nato per morire, come tutti noi. E morirà su un patibolo, della morte dei malfattori. Ma proprio perché in lui è Dio che s’è reso presente in mezzo a noi, la morte non ha potuto trattenerlo nelle sue grinfie. Gesù è stato strappato via da quegli artigli, e la potenza della divinità ha annientato colei che lo annientava. E con lei ha sconfitto, una volta per tutte, il male ed il peccato.

E alla vittoria fa seguito il trionfo: “Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha fatto grazia del nome che è al disopra di ogni nome”, e adesso davanti a lui è necessario e giusto che “si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e negli abissi, e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre”.


C’è qui davvero come un santo entusiasmo, una gioia esplosiva.

Quei poveri, sparuti primissimi cristiani, sovente emarginati, a volte perseguitati, confessano Gesù come l’unico “Signore” (lui, e non il Cesare di Roma!) davanti al quale ci si deve inchinare, e chiamano l’universo a unirsi a loro. Ogni realtà che ha vita deve adesso prostrarsi e celebrare colui che “essendo uguale a Dio”, è nato, è morto, è risorto per tutti.

Davvero questo è l’inno della gioia cristiana. La gioia dirompente di chi ha scoperto in Gesù la grande offerta di vivere finalmente da uomo e donna liberi.


II.

Ma liberi da chi?… o da che cosa?…

C’è un particolare in questa confessione di fede, che ci può forse aiutare a capire perché quegli uomini e quelle donne erano così gioiosi della libertà ricevuta in dono dal Signore. È là dove la confessione afferma: “nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e negli abissi…”.

Il mondo in cui il cristianesimo è nato, nonostante la pax romana imposta a tutti, era in preda a una grande insicurezza, perché aveva un principe in terra, ma non aveva più dèi in cielo. Le divinità tradizionali della Grecia e di Roma erano ormai invecchiate, irrimediabilmente. Non avevano più credibilità. Si continuava, certo, ad andare ai loro templi, a offrire loro doni e sacrifici, lunghi cortei e splendide cerimonie, ma quasi nessuno credeva più alla loro reale esistenza. Erano figure simboliche, splendide personificazioni della sapienza umana e dei poteri che conducono la storia, dei sogni degli umani e delle realtà e dei fenomeni naturali, come il cielo, il mare, le sorgenti, i fiumi, i boschi, la pioggia. Ed era bello, era doveroso, era “da cittadini dell’Impero” rendere loro pubblicamente omaggio. Ma nessuno avrebbe più seriamente affidato la sua vita e le sue speranze a “Giove Ottimo Massimo” e ai suoi fratelli e sorelle.


I vecchi numi dell’Olimpo, insomma, si stavano sgretolando, e non ce ne erano nuovi all’orizzonte. Ma se mancano gli dèi, il cielo allora è vuoto!

E poiché gli esseri umani hanno sempre avuto il terrore del vuoto, ecco che, per riempirlo, arrivano gli spiriti. Ogni cosa si popola di un brulichio di esseri misteriosi, di origine e di fattezze incerte, benigni o maligni, o benigni e maligni al tempo stesso, potenti oppure deboli, seri e burloni. Una turba invisibile, eppure ben presente, che ricolma ogni spazio, ogni recesso, e si agita e si muove senza posa attorno all’uomo ed alle sue dimore, e nelle profondità stesse della terra; appunto: “nei cieli, sulla terra e negli abissi”…

E è una presenza ti mette a disagio. Ti senti nudo, impotente ed inerme davanti al male, ed anche al bene che potrebbero farti; senti di dipendere dai loro capricci, dal loro buono o cattivo umore…


E non soltanto questo. Se mancano gli dèi, se il cielo resta vuoto, non soltanto gli spiriti, anche le potenze terrene aumentano di forza, si fanno più incombenti, minacciose.

È proprio così. Se non ci sono i signori del cielo che li frenano, i signori della terra, i re e i grandi del mondo, non hanno più alcun limite alle loro pretese di dominio. Abbiamo già accennato ai Cesari, agli imperatori di Roma: non a caso rivendicheranno per sé quel posto vuoto in cielo e il titolo di “Dominus et Deus”, “Signore e Dio”, e in questo modo vorranno impossessarsi non soltanto dei corpi e dei denari, ma anche delle coscienze di chiunque sia sottoposto alla loro signoria.


In questa situazione, è difficile, è quasi impossibile non essere inquieti, non sentirsi in pericolo, e sotto un giogo sempre più pesante. E allora cerchi aiuto, cerchi una via di scampo dalla dipendenza dagli spiriti “dell’aria, della terra e degli abissi”, e anche una via di scampo dall’oppressione dei potenti che vogliono impossessarsi del tuo animo. Non a caso, l’epoca della nascita di Cristo è stata l’epoca d’oro dei maghi, dei fattucchieri, degli astrologi, dei ciarlatani di ogni origine e tipo, dei riti più bizzarri, di chiunque affermava di avere “la risposta”, di conoscere la via e i mezzi per poterti salvare, per vincere l’angoscia che devastava tanti…


Ma ecco un “lieto annuncio” diverso da ogni altro comincia a circolare e a scuotere e a stupire tutto il mondo romano. È l’“evangelo” di Gesù Cristo, che si rivolge a tutti, ma soprattutto agli umili, ai poveri, agli schiavi e alle schiave, a chi non può permettersi nemmeno il più scalcinato dei maghi, e proclama che “è nato un Salvatore, che è il Cristo, il Signore”; e questo “Salvatore”, nato “povero tra i poveri”, da povero è vissuto e da povero è morto, della più miserabile delle morti.

Ma era davvero “il Signore”. È stato ed è il “Dio con noi”, che ha nel cielo il suo trono da cui nulla e nessuno potrà mai spodestarlo, e che pure ha lasciato di sua volontà, per farsi gratuitamente, per amore!, uno di noi.

E prima in pochi, e poi sempre più numerosi e consapevoli, e con sempre più gioia, tanti sudditi e le suddite dell’impero si sono aperti a questo incredibile, sconvolgente, bellissimo “lieto annuncio”. E si sono scoperti felici. Hanno scoperto di non avere più paura: nessuno spirito più o meno capriccioso, nessun potente assetato di dominio potrà più fare loro veramente del male, perché l’unico vero Dio Signore del cielo e della terra, adesso è il loro Dio.


Cristo è nato per vincere, ed ha vinto! “Ha annientato se stesso”, perché ha avuto pietà del nostro smarrimento e, con la sua umiliazione e la sua morte, ha trionfato sul potere bizzarro degli spiriti e su quello terribilmente “normale” dei principi del mondo. Dio lo ha risuscitato, e gli ha restituito “la gloria” che era sua “prima che il mondo fosse” (cfr Giovanni 17,5).

Adesso, tutto è finito. La minaccia degli spiriti maliziosi che infestano ogni luogo, ogni realtà, il giogo blindato dei potenti, anche il potere implacabile del fato, la forza del destino scandito dalle stelle che con il loro corso tenevano nel pugno le sorti degli umani, ora tutto è sconfitto! Adesso, chi appartiene a Gesù Cristo è libero per sempre, perché lui è veramente, come cantano gli angeli del Natale: la “pace sulla terra agli uomini che Dio ama”. Sì, Gesù è il vincitore! Del male, della morte, di ogni cosa.


Ecco allora chi era Gesù per quei nostri primi fratelli e sorelle nella fede.

Ecco cosa voleva dire per loro la sua nascita (il suo benedetto “annientamento”): Dio che irrompe nel mondo e si fa mondo, per sottoporre a sé le potenze dell’aria, della terra, degli abissi del mondo. Per questo, quegli uomini e quelle donne non potevano non essere colmi di quell’entusiasmo la cui eco è arrivata, integra e contagiosa, fino a noi.

Sì, “contagiosa”. Dall’apostolo Paolo noi sappiamo che le prime comunità cristiane erano cosi ricche di fede e di gioia, che capitava che se qualcuno si trovasse ad assistere per la prima volta a una loro assemblea, ad un loro culto, spesso si alzasse in piedi ed esclamasse: “Davvero Dio è presente in mezzo a voi!” (cfr 1 Corinzi 14,25).


III.

Ci siamo riportati al primo secolo, a quel tempo di spiriti fluttuanti, di potenze dell’aria e della terra, di vecchi dèi malati. Un tempo apparentemente agli antipodi del nostro tempo, della nostra cultura e mentalità tecnico-scientifica di uomini e donne del ventunesimo secolo. Eppure sono convinto che proprio oggi noi ci troviamo a vivere l’epoca che forse più di ogni altra di questi duemila anni, è vicina a quel remoto primo secolo.

Allora – abbiamo detto – gli dèi tradizionali erano moribondi e non ce ne era di nuovi all’orizzonte. Oggi, tutto un modo antichissimo di concepire e vivere la religione è entrato in crisi. Siamo nell’epoca del “post”: siamo postmoderni e anche postcristiani. E sentiamo l’orrore del vuoto, e siamo alla ricerca spesso affannosa di un nuovo modo di vivere il nostro rapporto col trascendente, con quella che alcuni chiamano “energia cosmica”, che possa dare un senso all’universo.

Allora, il cielo vuoto aveva favorito tutto un proliferare di spiriti, demoni, forze occulte, e di maghi, stregoni, ciarlatani. Oggi, basta guardarsi attorno. Quanti dei nostri contemporanei abituati a viaggiare in turbo jet e ad essere un tutt’uno col computer, l’iPad, il cellulare, affidano le loro angosce e le loro speranze a nuove forme più o meno strane e esotiche di spiritualità, religiosità, magia, confidano in credenze misteriose, si lasciano guidare dal guru o dall’oroscopo…

Allora, sempre quel cielo vuoto, rendeva più oppressivo il dominio dei potenti, oggi il nostro “cielo vuoto” apre sempre nuovi spazi di conquista ai poteri finanziari ed economici, al terreno e terreste “dio mercato” ed ai suoi sacerdoti; e c’è poi ancora il potere dei politici, e dei media, e delle mode; e c’è il senso di una crisi profondissima che è economica, e non è solo economica, ma è una crisi di sistema, ed è crisi morale, culturale, antropologica, crisi di prospettive…

Davvero, non siamo per niente lontani da quel lontano primo secolo…


Come per quegli antichi uomini e donne la cui fede è arrivata sino a noi nell’inno di Filippesi 2, si tratta anche per noi di riscoprire, nell’evangelo del Dio che si fa uomo, il lieto annuncio della nostra libertà. Di dare anche noi ascolto al canto di Bethleem: “Oggi è nato per voi un Salvatore, che è il Cristo, il Signore”, come alla proclamazione gioiosa dell’avvento del “Grande Vincitore” su tutto quello che ci rende schiavi.

Quell’evangelo ha sconvolto, stupito, innamorato, ricolmato di gioia tanti uomini e donne di duemila anni fa, ed il loro entusiasmo è ancora oggi risuonato per noi. Sia questo l’evangelo di questo ennesimo Natale di crisi, e ci contagi con il suo entusiasmo.


Io ho un sogno di Natale. Colui che è nato per essere “confessato” come “il Signore a gloria di Dio Padre”, ci conceda, in un giorno che speriamo non lontano, che qualcuno che si trovi per la prima volta ad assistere ad un nostro culto, resti così colpito dalla nostra fede, e dalla luce dei nostri occhi e dei nostri sorrisi, da alzarsi e dire: “Davvero Dio è presente in mezzo a voi!”.


                                                               Ruggero Marchetti