Culti

Verbania - C.so Mameli 19
Domenica 21 aprile, Tempio di Intra, dalle h.10 momenti di preghiera e canti, Culto alle h. 11

Omegna - Via F.lli Di Dio 64
Domenica 21 aprile, Tempio di Omegna, Culto alle h. 9 con relativa Cena del Signore

20/10/2022

Predicazione di domenica 9 ottobre su Isaia 49,1-6 a cura di Marco Gisola

 1 Isole, ascoltatemi! Popoli lontani, state attenti! Il SIGNORE mi ha chiamato fin dal seno materno, ha pronunciato il mio nome fin dal grembo di mia madre. 2 Egli ha reso la mia bocca come una spada tagliente, mi ha nascosto nell’ombra della sua mano; ha fatto di me una freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra 3 e mi ha detto: «Tu sei il mio servo, Israele, per mezzo di te io manifesterò la mia gloria». 4 Ma io dicevo: «Invano ho faticato; inutilmente e per nulla ho consumato la mia forza; ma certo, il mio diritto è presso il SIGNORE, la mia ricompensa è presso il mio Dio». 5 Ora parla il SIGNORE che mi ha formato fin dal grembo materno per essere suo servo, per ricondurgli Giacobbe, per raccogliere intorno a lui Israele; io sono onorato agli occhi del SIGNORE, il mio Dio è la mia forza. 6 Egli dice: «È troppo poco che tu sia mio servo per rialzare le tribù di Giacobbe e per ricondurre gli scampati d’Israele; voglio fare di te la luce delle nazioni, lo strumento della mia salvezza fino alle estremità della terra».

 

“Ascoltatemi”, dice il servo del Signore. Ascoltatemi, vuol dire ascoltate Dio, ascoltate quello che Dio ha da dirvi.

Perché il servo del Signore è il servo della Parola del Signore, ciò che egli dice non è la sua parola, la sua volontà, la sua opinione, ma la parola e la volontà di Dio.

Chi è il servo del Signore, questo personaggio di cui parlano alcuni brani del profeta Isaia? Non è chiaro chi sia: è una persona singola, forse Isaia stesso? È il popolo di Israele? È il messia, atteso da Israele?

Lasciamo un attimo da parte questa domanda e concentriamoci sul compito del servo, più che sulla sua identità.

Egli parla e la sua parola è rivolta al popolo ebraico in esilio in Babilonia. Un popolo deportato, spogliato di tutto, della sua terra, del suo tempio, della sua unità: parte del popolo deportato, parte rimasto in patria, in una patria distrutta dai babilonesi.

Un popolo che ha perso speranza, rassegnato, che ha toccato il fondo. Che si chiede se Dio lo abbia abbandonato. A questo popolo Dio manda Isaia a dire parole di consolazione: “consolate, consolate il mio popolo”: inizia con queste parole il discorso del profeta al cap 40, poco prima di introdurre il personaggio del servo del Signore, inviato da Dio per ricondurre Israele a casa.

Il servo del Signore è stato scelto da Dio: fin dal seno materno, ha pronunciato il mio nome fin dal grembo di mia madre”.

È stato scelto, eletto, Dio lo rende suo servo, che non ha un significato negativo, ma esprime il fatto che il servo dice e fa la volontà di Dio, non la sua, come un servo non fa quello che vuole, ma fa quello che vuole il suo padrone.

Solo che quando qualcuno è servo di un altro essere umano ciò significa schiavitù, cioè annullamento della persona e sfruttamento, essere servo di Dio invece vuol dire libertà, il servo di Dio è il più libero degli esseri umani, perché deve rendere conto solo a Dio.

La vita del servo si identifica con il progetto di Dio. Il progetto di Dio diventa la sua vita. Dio sceglie e manda il suo servo al suo popolo esiliato, per annunciargli la liberazione.

Il servo ha il compito di parlare, per questo invita all’ascolto: ascoltate! Non ha altro compito che quello di parlare, di annunciare: Egli ha reso la mia bocca come una spada tagliente, mi ha nascosto nell’ombra della sua mano; ha fatto di me una freccia appuntita...

Si menzionano armi, ma non confondiamoci: il servo di Dio non è un combattente, non è un soldato, è un annunciatore, la cui unica arma è la Parola di Dio, ovvero la parola che Dio gli dà da dire, da annunciare.

La bocca è come una spada, come dice la lettera agli Ebrei (4,12): “la parola di Dio è vivente ed efficace, più affilata di qualunque spada a doppio taglio, e penetrante fino a dividere l’anima dallo spirito, le giunture dalle midolla”.

La parola di Dio entra dentro, agisce, trasforma. Ma è anche una freccia, che va lontano. Spade e frecce erano le armi rispettivamente per i combattimenti da vicino, corpo a corpo, e da lontano. La Parola di Dio va lontano, non ha limiti.

Deve manifestare la gloria di Dio non solo al e nel popolo d’Israele ma a tutti i popoli. Per questo dice “isole, ascoltatemi, popoli lontani state attenti”.

E come sarà manifestata la gloria di Dio? Nel fatto che Dio libererà Israele, facendolo tornare alla sua terra, ma prima di tutto facendolo tornare a sé, donando al suo popolo un nuovo inizio.

Dio – tramite il suo servo - va dal popolo, perché il popolo torni a lui. Lo va a cercare nel dramma dell’esilio per ridargli futuro e speranza.

La spada e la freccia sono immagini della Parola di Dio: la Parola di Dio vincerà la battaglia contro l’oppressione babilonese e contro la rassegnazione degli Israeliti.

Questo brano inizia insomma con una dichiarazione solenne e una promessa: Israele tornerà al suo Dio e alla sua terra e la gloria di Dio sarà così manifestata.

Ci stupisce quindi che il servo di Dio reagisca così: Ma io dicevo: «Invano ho faticato; inutilmente e per nulla ho consumato la mia forza”.

“Invano”: la parola che spesso ci tormenta. Invano ho faticato. Non serve a nulla, tutto è inutile.

Persino il servo del Signore ha un momento di sconforto, proprio come noi ne abbiamo, anche e proprio nell’impegno che mettiamo nella vita delle nostre chiese e nella società.

Invano: la tentazione di mollare, di pensare che non serva a nulla, che le cose non potranno che andare di male in peggio. Ma – grazie a Dio – c’è un ma: ma certo, il mio diritto è presso il SIGNORE, la mia ricompensa è presso il mio Dio».

Come se si fosse dimenticato per un attimo che c’è Dio dietro al suo compito, come se ricordasse di nuovo che non è il suo progetto che sta portando avanti, ma il progetto di Dio.

Il mio diritto e la mia ricompensa, potremmo dire il senso e lo scopo di ciò che sto facendo, sono presso Dio, sono in lui, non in me.

Si riprende dallo sconforto perché Ora parla il SIGNORE che mi ha formato fin dal grembo materno per essere suo servo, per ricondurgli Giacobbe, per raccogliere intorno a lui Israele;

Dio parla, o forse il servo lo ascolta di nuovo, perché Dio non ha smesso di parlare.

Come capita a noi, che pensiamo che Dio non parli, mentre siamo noi che abbiamo smesso di ascoltarlo. Dio parla e il servo ritrova senso e speranza: io sono onorato agli occhi del SIGNORE, il mio Dio è la mia forza.

Ridiventa consapevole che Dio è la sua forza, che non è la sua forza che conta, ma è la sua debolezza nelle mani di Dio che diventa forza.

Persino il servo del Signore ha un momento di sconforto, cade nella trappola dell’ “invano” e del “tutto è inutile”, ma poi ascolta di nuovo, perché Dio parla e ritrova la sua vocazione, ritorna alla fonte della sua vocazione e ritrova il progetto di Dio.

Dio parla e che cosa dice? Dio rilancia: Egli dice: «È troppo poco che tu sia mio servo per rialzare le tribù di Giacobbe e per ricondurre gli scampati d’Israele;

È troppo poco: ecco un’altra perla della parola profetica, della Parola di Dio: è troppo poco. Troppo poco ricondurre gli scampati di Israele, troppo poco riportare gli esiliati nella loro terra, ridare libertà agli schiavi, donare al suo popolo una nuova vita nella libertà.

Tutto ciò è troppo poco: voglio fare di te la luce delle nazioni, lo strumento della mia salvezza fino alle estremità della terra».

All’estremità della terra: forse vi ricorda il racconto dell’ascensione, quando Gesù manda i discepoli ad essergli testimoni fino all’estremità della terra.

Il servo – o forse Israele come popolo, sono possibili tutte e due le letture – deve diventare luce delle nazioni, strumento nelle mani di Dio per portare la salvezza fino all’estremità della terra.

Ma noi come cristiani non possiamo non vedere nella figura del servo del Signore la persona di Gesù, non possiamo cioè non leggere questo brano in senso messianico.

Per noi è lui il servo, chiamato fin dal grembo di sua madre, eletto prima della sua nascita per essere luce delle nazioni, salvatore dell’umanità.

Luce delle nazioni, non solo del suo popolo Israele, e non solo dei cristiani, ma dell’umanità intera.

La buona notizia infatti non è mai solo per te che l’ascolti, non è mai solo per noi che l’ascoltiamo. È anche per chi non l’ascolta, per chi non l’ha mai ascoltata e per chi non la vuole o non la può più ascoltare.

Il Signore annuncia a noi che siamo qui il suo perdono, ci dona consolazione e speranza per la nostra esistenza individuale e comunione per la nostra vita comunitaria, ci dona momenti di condivisione e di gioia.

Ma questo è troppo poco. Tutto ciò è troppo poco, l’orizzonte di Dio è più largo, Dio guarda sempre un po’ più in là di dove arriva il nostro sguardo.

È troppo poco che tu, chiesa metodista di Intra o di Omegna, ti occupi di annunciare la Parola a te stessa, che tu cerchi la tua consolazione, la tua speranza e la tua gioia nell’evangelo. È troppo poco! Perché la luce dell’evangelo non è solo per te, è per l’umanità.

Per questo il servo del Signore Gesù di Nazaret ha inviato i suoi discepoli ad essergli testimoni fino all’estremità della terra.

Per questo anche noi siamo chiamati ad annunciare l’evangelo, se non fino all’estremità della terra, almeno in ogni luogo dove egli ci pone.

Ma prima di tutto anche a noi il Signore dice: ascoltatemi!

Perché Dio parla e nella sua parola è la nostra forza, nella sua parola è la nostra consolazione quando cadiamo nel vortice dell’ “invano” e del tutto è inutile.

Ma non solo: nella sua parola è il riscatto, la speranza e la gioia per tutta l’umanità.

Meno di questo, per il Dio di Isaia, che ha mandato il suo figlio Gesù Cristo per essere strumento della sua salvezza fino alle estremità della terra, sarebbe troppo poco.

E dunque: ascoltiamolo! La nostra fede, la nostra gioia e il nostro amore per l’umano e per l’umanità possono solo nascere da questo ascolto.



Predicazione di domenica 16 ottobre 2022 su Efesini 5,15-21 a cura di Marco Gisola

 

15 Guardate dunque con diligenza a come vi comportate; non da stolti, ma da saggi; 16 ricuperando il tempo perché i giorni sono malvagi. 17 Perciò non agite con leggerezza, ma cercate di ben capire quale sia la volontà del Signore. 18 Non ubriacatevi! Il vino porta alla dissolutezza. Ma siate ricolmi di Spirito, 19 parlandovi con salmi, inni e cantici spirituali, cantando e salmeggiando con il vostro cuore al Signore; 20 ringraziando continuamente per ogni cosa Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo; 21 sottomettendovi gli uni agli altri nel timore di Cristo.

 

Recuperate il tempo, ci dice l’apostolo, perché i giorni sono malvagi. Un’espressione un po’ inconsueta “recuperare il tempo”, che può significare: usare bene il tempo, cogliere le occasioni, non lasciarsi scappare le opportunità.

Perché i giorni sono malvagi, aggiunge Paolo, e lo dice ai cristiani di Efeso, luogo dove lui stesso è probabilmente stato in prigione e dunque dove i cristiani non avevano vita facile, visto che mettevano in discussione gli idoli pagani.

Inoltre, il tempo è poco, perché i primi cristiani cedevano che il ritorno di Gesù fosse imminente, e quindi questo poco tempo è anche un tempo speciale, unico.

E a noi, che ci siamo invece abituati all’idea che il regno di Dio tardi e chissà quando verrà, fa bene ascoltare questa indicazione dell’apostolo che ci dice che il tempo che viviamo non è (solo) quello dei giorni e dei mesi che passano, ma il tempo che sta tra la prima venuta di Gesù nel mondo e il suo ritorno, è il tempo dell’attesa del Regno, di cui siamo chiamati a vivere frammenti qui ed ora.

E dunque in questo tempo unico e speciale: comportatevi non da stolti, ma da saggi.

Non come persone che vivono il loro tempo come un banale ripetersi di giorni, di settimane e di anni, ma come il tempo di Dio, un tempo speciale, che Dio ci dona per …

Per che cosa? L’apostolo da almeno tre indicazioni per vivere saggiamente questo tempo che ci è dato da Dio: la prima è “cercare di capire quale sia la volontà del Signore”; la seconda è la gratitudine; la terza è la sottomissione reciproca. Un programmino niente male...!

1. Cercare di capire quale sia la volontà di Dio è il primo lavoro di ogni cristiano, un lavoro che impegna tutta la vita, perché non è mai finito.

Questa è la saggezza secondo l’autore della lettera agli Efesini, la saggezza che si impara alla scuola di Gesù, cioè alla scuola della Parola.

“Cercate di capire” dice l’apostolo. E dove si cerca? Si cerca dove si è stati trovati. Il cristiano cerca perché è stato trovato, da Dio attraverso Gesù Cristo. Se non fossimo stati trovati da Dio non potremmo cercare la sua volontà.

E se Dio ci ha trovato attraverso suo figlio Gesù Cristo, possiamo soltanto cercare in Gesù Cristo.

Non cercare Gesù Cristo, Gesù non dobbiamo cercarlo perché è lui che ci ha trovati, ma cercare in Gesù la volontà di Dio, cercarla cioè nella sua Parola, dunque nella Bibbia.

Non dobbiamo cercare Gesù o Dio in noi stessi, dobbiamo piuttosto cercare noi stessi in lui. In lui troviamo, come in uno specchio, noi stessi, e ci vediamo come colpevoli che sono stati graziati, giudicati che sono stati perdonati, schiavi che sono stati liberati.

E ogni giorno dobbiamo ri-cercarci in lui, ogni giorno dobbiamo ri-cercare la volontà di Dio, perché la nostra piccolezza e la nostra fragilità ci portano a perdere ciò che troviamo.

Dobbiamo cercare anche per evitare di cadere nell’illusione di aver trovato una volta per tutte, di aver imparato già tutto. Il cristiano è discepolo non solo nel senso che segue Gesù, ma anche nel significato letterale di colui o colei che impara da Gesù.

Essere cristiani significa essere alla scuola di Gesù e della sua parola per tutta la vita.

Però, attenzione: non è che si continua a cercare perché non si trova mai. Al contrario, si continua a cercare perché si trova sempre!

Perché nella Parola di Dio si trova sempre la grazia di Dio che è antica e sempre nuova, e si trova sempre qualcosa di nuovo e di prezioso per imparare a vivere il proprio discepolato.

Ogni giorno si trova qualcosa, e ogni giorno si cerca qualcosa di nuovo, perché il tesoro non è mai scoperto del tutto. E soprattutto ogni giorno ci si accorge di essere stati di nuovo trovati dal Signore, con la sua parola di grazia e speranza.

Alla ricerca di questa saggezza appartiene anche l’esortazione a non ubriacarsi. La ragione è che il vino porta alla dissolutezza.

Io credo che questa esortazione non abbia soltanto un valore morale, ma che voglia dirci che il cristiano non deve perdere il controllo di sé e della realtà. Se ti ubriachi perdi il controllo e non sei più tu che guidi le tue scelte.

Ed è curioso che dopo il discorso sul vino venga il discorso sullo Spirito. Quasi a dire che la vita del cristiano deve essere condotta dallo Spirito e non dal vino, o meglio solo dallo Spirito e da nient’altro.

L’ubriacatura ti toglie lucidità e qui si potrebbe aprire il discorso sulle dipendenze di ogni genere, dall’alcol, al fumo alle droghe, che ti tolgono lucidità e tu non sei più padrone di te stesso, ti consegni e diventi schiavo di un padrone che poi fa ti di te quello che vuole.

Non fatelo, dice l’apostolo, consegnatevi soltanto allo Spirito per rimanere liberi e farvi guidare verso la saggezza di Cristo, e non al vino o ad altre sostanze per farvi guidare fuori dalla realtà.

Lo spirito di Dio invece non ti allontana dalla realtà, ma ti aiuta a continuare a cercare la volontà di Dio, anche quando i “giorni sono malvagi”, come dice l’apostolo.

Per opporsi al male che ci circonda, è necessario essere sobri e poter ascoltare la voce dello Spirito.

2. Lasciamo per ultimo il tema della gratitudine e vediamo questa esortazione: “Sottomettetevi gli uni agli altri”.

Calvino commentando questo versetto scriveva che “...non c’è nulla di più contrario allo spirito umano che il sottomettersi agli altri...”.

E in effetti non è un invito allettante quello che ci viene rivolto qui. Noi vorremmo, al contrario, essere padroni di noi stessi, altroché essere sottomessi agli altri!

Eppure proprio qui sta la rivoluzione portata dal cristianesimo, rivoluzione ancora largamente inattuata, perché largamente rifiutata, dai cristiani stessi.

L’evangelo scardina la logica del predominio e propone quella della sottomissione reciproca: “gli uni agli altri”. E proprio il fatto che la sottomissione è reciproca, esclude il predominio.

“Sottomettetevi gli uni agli altri nel timore di Cristo”, ovvero nella sottomissione di tutti a Cristo e alla sua volontà.

Se al di sopra di tutti c’è Cristo, al di sotto di lui non c’è nessun predominio. Dove Cristo è Signore, non ci sono altri signori e dunque si può essere liberamente servi gli uni degli altri.

Siamo chiamati a sotto-metterci, ovvero a metterci sotto, considerare l’altro al di sopra di noi; quando siamo davanti al prossimo dobbiamo mettere tra parentesi noi stessi, metterci sotto di lui, perché nel prossimo è Cristo stesso che ci viene incontro.

Tutt’altro che facile, ma è questo – e niente meno di questo - che ci chiede il Signore.

3. E infine la gratitudine. La gratitudine per il perdono che Dio ci offre in Cristo da cui nasce la vita nuova fatta di fiducia e di speranza, di libertà e di servizio, di amore e riconciliazione.

La gratitudine a Dio perché ci ha offerto la possibilità di vivere questa vita nuova piena di senso e di gioia.

Gratitudine non perché va tutto bene, ma perché anche quando va male, c’è una parola a cui aggrapparsi e che ci aiuta a guardare avanti e a guardare oltre ciò che non va nella nostra vita.

Tutti noi conosciamo persone che non hanno molti motivi per essere grati, e persone che hanno invece molti motivi per essere tristi o arrabbiati, o addirittura disperati.

Noi non possiamo restituire la salute a chi sta male o dare un lavoro a chi lo ha perso, ma possiamo condividere la parola che dona speranza e che crea comunione.

È ben diverso vivere un lutto o una malattia senza speranza e senza comunione, oppure con speranza e circondati dalla comunione delle sorelle e dei fratelli.

Questo è il senso delle parole: parlandovi con salmi, inni e cantici spirituali, cantando e salmeggiando con il vostro cuore al Signore.

La comunione che il Signore ci dona da vivere si esprime nel canto e nella preghiera gli uni per gli altri e gli uni con gli altri.

Comunione che non termina certo quando finisce il culto, ma anzi nel culto nasce e cresce.

Per tutto questo possiamo essere grati al Signore e dunque cercare di comportarci con saggezza, tornare sempre alla scuola della sua parola per cercare di capire quale sia la sua volontà del Signore, imparare a sottometterci - metterci sotto - gli uni agli altri, nell’amore e nella condivisione, e dunque vivere il grande dono della comunione e della speranza.

Questo è il tempo di Dio, l’occasione che il Signore ci dà, di vivere guidati dal suo Spirito e dalla sua parola. Siamo saggi, e non lasciamocelo sfuggire.

06/10/2022

Predicazione di domenica 2 ottobre 2022 su Deuteronomio 8,7-18 a cura di Marco Gisola

 

7 ... il SIGNORE, il tuo Dio, sta per farti entrare in un buon paese: paese di corsi d’acqua, di laghi e di sorgenti che nascono nelle valli e nei monti; 8 paese di frumento, d’orzo, di vigne, di fichi e di melagrane; paese di ulivi e di miele; 9 paese dove mangerai del pane a volontà, dove non ti mancherà nulla; paese dove le pietre sono ferro e dai cui monti scaverai il rame. 10 Mangerai dunque e ti sazierai e benedirai il SIGNORE, il tuo Dio, a motivo del buon paese che ti avrà dato. 11 Guàrdati dal dimenticare il SIGNORE, il tuo Dio, al punto da non osservare i suoi comandamenti, le sue prescrizioni e le sue leggi che oggi ti do; 12 affinché non avvenga, dopo che avrai mangiato a sazietà e avrai costruito e abitato delle belle case, 13 dopo che avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento, il tuo oro e abbondare ogni tua cosa, 14 che il tuo cuore si insuperbisca e tu dimentichi il SIGNORE, il tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù; 15 che ti ha condotto attraverso questo grande e terribile deserto, pieno di serpenti velenosi e di scorpioni, terra arida, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te acqua dalla roccia durissima; 16 che nel deserto ti ha nutrito di manna che i tuoi padri non avevano mai conosciuta, per umiliarti e per provarti, per farti, alla fine, del bene. 17 Guàrdati dunque dal dire in cuor tuo: La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno procurato queste ricchezze. 18 Ricòrdati del SIGNORE tuo Dio, poiché egli ti dà la forza per procurarti ricchezze, per confermare, come fa oggi, il patto che giurò ai tuoi padri.

 

Ringraziare oppure dimenticare. Due modi di vivere opposti, due alternative davanti a cui è posto Israele e noi con lui.

Il popolo d’Israele sta per entrare nella terra promessa, descritta come “un buon paese: paese di corsi d’acqua, di laghi e di sorgenti che nascono nelle valli e nei monti; paese di frumento, d’orzo, di vigne, di fichi e di melagrane; paese di ulivi e di miele; paese dove mangerai del pane a volontà, dove non ti mancherà nulla; […] Mangerai dunque e ti sazierai e benedirai il SIGNORE, il tuo Dio, a motivo del buon paese che ti avrà dato”.

Mangerai, ti sazierai e benedirai il Signore. Questa è la volontà di Dio, il progetto di Dio per Israele: mangiare, saziarsi e benedire il Signore, cioè ringraziarlo, vivere nella gratitudine.

Israele sarà capace di farlo? Sarà capace di benedire il Signore, cioè ringraziarlo per tutti i suoi doni, quando avrà la pancia piena?

Oppure dimenticherà chi è che gli ha dato tutto questo – e qui possiamo dirlo, letteralmente – ben di Dio? Dimenticherà che è Dio che gli ha dato questa terra e questi frutti? Dio conosce il suo popolo e sa che il rischio che esso lo dimentichi è molto alto.

E infatti lo ammonisce: “Guàrdati dunque dal dire in cuor tuo: La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno procurato queste ricchezze”. Dimenticare Dio significa che Israele potrebbe affermare, e dunque pensare, questo, che è lui stesso l’artefice di tutto ciò che ha.

Dimenticare Dio vuol dire che a Dio si sostituisce “io”. Non più Dio: “Dio mi ha donato”, ma io: “io mi sono guadagnato /conquistato/ meritato”.

Dunque: ringraziare Dio, oppure dimenticare Dio e quindi inorgoglirsi, eliminare Dio dalla propria vita e sostituirlo con l’ “io”.

Queste sono le alternative davanti alle quali si trova Israele e davanti alla quale ci troviamo tutti noi: ringraziare o dimenticare, Dio o io.

Oggi nel calendario liturgico che segue il lezionario tedesco, seguito da “Un giorno una parola”, è la festa del ringraziamento per il raccolto (solo che purtroppo Un giorno Una parola non lo scrive…).

Una domenica in cui ci si dovrebbe fermare a ringraziare il Signore per tutti i doni che ci dà attraverso la terra, cioè tutti i frutti della terra, ed è dunque un riconoscimento che ciò che mangiamo e che viene ovviamente anche dal lavoro dell’essere umano, è originariamente dono di Dio, che ha creato tutto ciò.

E questo è anche il tempo chiamato “tempo per il creato” una iniziativa ecumenica che viene portata avanti ormai da diversi anni, da quando le chiese – forse un po’ in ritardo - hanno iniziato proprio a riconsiderare il fatto che il mondo è stato creato da Dio e dunque è suo e non è nostro, perché a noi lo ha affidato per coltivarlo e custodirlo e non consumarlo o distruggerlo.

Le chiese ortodosse celebrano il 1° settembre la festa della creazione, la chiesa cattolica il 4 ottobre ricorda Francesco di Assisi – che per loro è un santo, mentre per noi è un credente che è stato particolarmente sensibile alle creature come dono di Dio.

E in mezzo a queste due giornate in genere cade la festa del ringraziamento per il raccolto che è tipicamente protestante.

Solo che nella società dove molti – io per primo – non sanno fare l’orto e dove si comprano tutto l’anno verdure che sono fuori stagione e che vengono magari dall’altra parte del mondo con enormi costi ambientali per il trasporto, abbiamo perso un po’ questa sensibilità e dunque questa riconoscenza a Dio per i frutti della terra che sono un suo dono.

Il nostro brano di oggi del Deuteronomio ci richiama a questa gratitudine. Ma non lo fa per motivi ecologici (a quei tempi avevano tanti problemi ma non quello ambientale, come abbiamo noi oggi), ma per motivi teo-logici: non riconoscere che i frutti della terra sono dono di Dio, prima che frutto del proprio lavoro, porta a inorgoglirsi e a dimenticare Dio.

E se si dimentica Dio rimane solo l’ “io”, l’essere umano al centro dell’universo. Un errore, anzi un peccato di cui oggi tocchiamo con mano le conseguenze pratiche proprio anche sul piano ambientale.

C’è un altro aspetto di questo brano su cui vorrei fermarmi un momento.

In questo brano Dio promette a Israele non solo il necessario, ma promette abbondanza: mangerai a sazietà, avrai pane in abbondanza, parla del bestiame che si moltiplica e persino di oro e argento.

Ci potremmo chiedere: ma dov’è la sobrietà evangelica in questo brano? In effetti non c’è sobrietà, qui si parla piuttosto di abbondanza.

Da brani come questi è nata anche una teologia che viene chiamata “teologia della prosperità” e che in poche parole dice: più Dio mi benedice, più ho beni in abbondanza.

In pratica la ricchezza come segno della benedizione di Dio. E dunque se sono povero è perché non sono benedetto.

Una teologia pericolosa, perché rischia di giustificare le differenze tra ricchi e poveri e anzi di dare ai poveri la colpa della loro povertà. Mentre sappiamo che la colpa della estrema povertà dei poveri è della abnorme ricchezza dei ricchi.

Su questo direi due cose:

1. Dio vuole il nostro bene, vuole la nostra serenità, la nostra gioia e vuole anche il nostro bene dal punto di vista materiale.

Non dimentichiamoci che chi ascolta queste parole è un popolo che sta vagando nel deserto da quasi quarant’anni, un popolo che sta per entrare nella terra promessa ma che prima era schiavo.

Prima Israele era schiavo, e dunque non possedeva nulla e soprattutto non aveva la libertà. La terra promessa da Dio con tutti i suoi frutti e il benessere che Dio promette è segno e frutto di questa libertà. Uno schiavo non ha nulla;

Le persone libere invece hanno non solo la libertà, ma nell’ottica di Dio, hanno anche tutto ciò che serve loro per vivere bene, a partire dalla terra che possono lavorare.

Dio vuole, vorrebbe, che noi non solo viviamo ma viviamo bene. Dio non vuole che qualcuno viva di stenti. Dio vuole che il suo popolo sia libero e che - mentre prima gli mancava tutto – ora non gli manchi più nulla e dunque viva nella gioia.

Questo è il senso della promessa dell’abbondanza.

2. Ma c’è un secondo aspetto fondamentale: questo Dio lo promette a tutti i membri del popolo d’Israele. Non soltanto a qualcuno.

Tutti devono godere dei frutti della terra e della abbondanza dei frutti. Tutti devono stare bene. Possiamo anche dire che queste promesse rispecchiano un ideale, ma è l’ideale di Dio:

Tutti hanno la libertà, tutti hanno un pezzo di terra da lavorare e – se non dimenticano Dio – da questa terra avranno abbondanza.

Questa è la promessa di Dio per tutti. Non solo per qualcuno a scapito di altri.

Questa è la volontà di Dio per il suo popolo, per tutti i membri del suo popolo.

Questa volontà – basta leggere i libri dei profeti per constatarlo – il popolo non l’ha mai realizzata.

L’uguaglianza tra tutti i membri del popolo è rimasto un ideale, la volontà di Dio è rimasta inattuata, perché qualcuno – anche nell’antico Israele, come in tutti i popoli e in tutte le società – ha preso ciò che non gli spettava e lo ha tolto ad altri.

I profeti si scagliano molto duramente contro chi sfrutta i poveri, chi opprime, chi si arricchisce a scapito degli altri.

Accade nell’antico Israele esattamente quello che accade oggi - anzi che accade da sempre – a livello mondiale: ci sarebbe abbondanza per tutti, le risorse basterebbero perché tutta la popolazione mondiale, persino ora che siamo oltre sette miliardi, vivesse bene.

Ma qualcuno, una minoranza, si accaparra i beni della maggioranza. È così da sempre ed è così ancora oggi, quando una piccola parte della popolazione mondiale ha più ricchezza di tutto il resto degli abitanti del mondo.

Dio vuole il bene dei suoi figli e delle sue figlie, ma di tutti i suoi figli e di tutte le sue figlie. Non vuole il benessere di qualcuno e il malessere, anzi la miseria, di qualcun altro. La prosperità di qualcuno e la miseria di qualcun altro non è la volontà Dio ma anzi è il suo contrario.

Dio ci riempie di doni, il suo creato è meraviglioso e ricchissimo di meraviglie e di risorse. Dio invita il suo popolo, come fece con Adamo ed Eva, a godere dei frutti della terra, a trarne non solo nutrimento, ma anche gioia.

Ma “guardati – ci dice - dal dimenticare Dio al punto da trascurare i suoi comandamenti”, cioè la sua volontà. Guardati dal pensare: questo è mio, questo mi è dovuto, questo l’ho fatto io.

Nel rapporto col creato, nei rapporti economici, nel rapporto col prossimo in generale abbiamo due strade davanti a noi: ringraziare Dio o dimenticare Dio.

Dimenticare Dio vuol dire vivere come se ci fossi solo io, solo noi, solo le persone che mi stanno a cuore e porta allo sfruttamento sia del creato, sia del prossimo.

Essere grati, essere riconoscenti, significa invece riconoscere che la terra è per noi, ma non è nostra; che i doni di Dio sono anche per noi, ma non solo per noi, perché sono per tutti e che il bene degli uni non può significare privazione per altri.

Anche noi come l’antico Israele siamo stati liberati da Dio, che ci ha riempito di doni e ci invita a goderne nella gioia e nella gratitudine, ricordandoci che lui il creatore e il donatore, e che il suo dono è per tutti.

Il Signore ci aiuti a non dimenticarlo e a ringraziarlo ogni giorno che egli ci dà da vivere.