di Fulvio Ferrario, docente di teologia sistematica alla Facoltà valdese di teologia
Sembra stia diventando un chiodo fisso: il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, torna sul tema della Riforma o, più precisamente, della “divisione” che essa avrebbe determinato nel XVI secolo: "il teologo ed ecumenista Wolfhart Pannenberg afferma che la Riforma ha fallito e il risultato di questo fallimento sono state le sanguinose guerre di religione nel XVI e XVII secolo". Lutero aveva buone intenzioni, ma volerle unire alle "conseguenze terribili della Riforma nella stessa celebrazione festosa, mi sembra molto difficile". Responsabili del fallimento, tuttavia, sarebbero "entrambe le parti"; si potrebbe, dunque, commemorare insieme il Cinquecentenario della Riforma nel 2017 con una "celebrazione penitenziale comune nella quale riconosciamo insieme le nostre colpe". Mi permetto di dirlo con franchezza: un valdese italiano, che apprende da un esponente della curia romana che, ad esempio, la "soluzione finale" del problema protestante in Italia, tentata appunto tra XVI e XVII secolo, sarebbe una "conseguenza terribile della Riforma", ha qualche difficoltà a esprimere un commento sereno.
Dopo aver tirato un profondo respiro, tuttavia, si può forse provare a ragionare pacatamente. Da qualche decennio, Lutero è diventato "buono". Che però esista, in Occidente, un altro modo di essere chiesa, questo no; e se c’è, non è tale "in senso proprio". Sentirselo dire, può non far piacere. In fondo però, che la chiesa della Controriforma la pensi così, non dovrebbe stupire; e che poi in questo contesto sia possibile citare un teologo luterano come Pannenberg, dispiace ancora di più, ma nemmeno questo meraviglia del tutto. Ma vediamo di entrare nel merito.
In un certo senso, anzi, in più di uno, si può certo affermare che la Riforma abbia fallito. Ha fallito in quanto non è riuscita a rinnovare l’intera chiesa, a causa della reazione papale; ha fallito, soprattutto, come fallisce ogni impresa umana, anche la più santa e benedetta, in quanto comunque segnata dal peccato; la Riforma non ha riformato abbastanza e non ha sempre riformato bene; e la chiesa riformata secondo la Parola di Dio può riconoscere tali fallimenti, perché non soffre del delirio dell’infallibilità. Da questo punto di vista, la dimensione penitenziale non deve certo mancare nemmeno nel 2017: ogni trionfalismo sarebbe fuori luogo.
Il contrario del trionfalismo, in questo caso, è un’immensa, infinita gratitudine. Gratitudine a Dio per il dono della Riforma: per il dono di una fede vissuta, per quanto indegnamente, nel segno della libertà; per il dono della Scrittura letta in una comunità di sorelle e di fratelli; per il dono dell’annuncio di un Dio sconsideratamente misericordioso, talmente misericordioso da voler trarre anche me dalla mia fogna di peccato; per il dono di una chiesa rinnovata, dove non ci si interroga sul "ruolo dei laici", ma nella quale i "laici" (e le laiche) sono la chiesa; per il dono di poter vivere l’etica nella responsabilità, sapendo di poter sbagliare, ma tentando appassionatamente di non farlo e rischiando vie nuove, anche a costo di scandalizzare i benpensanti (esistono precedenti autorevoli); per il dono di una teologia che può pensare e parlare con franchezza, senza l’incubo di un’occhiuta sorveglianza di polizia spirituale, che si arroga il monopolio di ciò che essa chiama "servizio alla verità"; per il dono di un ministero che anche le mie sorelle condividono, aiutandomi nel tentativo di uscire dalle pastoie di una mentalità maschilista che soffoca anche i maschi. E’ probabilmente vero che il protestantesimo di questo inizio del XXI secolo attraversa una fase di grave difficoltà: la libertà dell’evangelo gli consente di riconoscerlo senza nascondersi in un gergo chiesastico e falsamente pio e anche di lasciarselo dire dalle gerarchie romane, lasciando tranquillamente aperta la questione se esse abbiamo o meno i titoli per farlo. Ma che oggi ancora esista una chiesa della Riforma, anzi, molte chiese diverse e in comunione (una realtà, questa, che il card. Koch e altri con lui faticano a comprendere e che per questo rimuovono), questo è un dono grande, che si può ricevere solo con commozione e passione di fede, e che cambia la vita, riempiendola di gioia.
Per questo io spero che le chiese protestanti di tutto il mondo sappiano ricordare il quinto centenario della Riforma della chiesa secondo la parola di Dio, nel 2017. Mi si dice che molti ambienti evangelici tengono parecchio a che ciò accada insieme alla chiesa di Roma. Sarebbe bello, io credo, se si potesse, insieme, rendere grazie dal profondo dell’anima al Dio che ha riformato la chiesa aprendole un futuro che milioni di donne e uomini hanno vissuto e possono vivere con passione grande. Non sono sicuro, leggendo le reiterate affermazioni del card. Koch, che lo spirito delle gerarchie romane sia esattamente questo. In tal caso, la gratitudine per la Riforma potrà essere solo la nostra. Senza polemica, senza astio, senza rivendicare, contro altri, alcuna "pienezza" protestante "dei mezzi di grazia". Ricorderemo la Riforma senza celebrarla: essa, infatti, voleva celebrare Cristo soltanto.
(nev-notizie evangeliche 47/12)
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