di Paolo Naso, coordinatore Commissione studi Federazione delle
chiese evangeliche in Italia
Oggi siamo dalla parte di Caino. A pochi giorni dalla strage a
poche miglia dalle coste libiche che ha ucciso centinaia di persone – in queste
ore si parla di circa 900 uomini, donne e bambini –, qualcuno ci chiede dove
siano i nostri fratelli, dove siano le nostre sorelle. E noi, come Caino,
rispondiamo che non lo sappiamo, che non siamo noi responsabili della loro vita
e della loro morte. Non lo siamo, perché “la colpa è dei trafficanti che hanno
caricato oltre ogni logica misura un barcone affollato di disperati”. Non lo
sappiamo perché “la colpa è dell’Europa che non si fa carico di questa
problema”. C’è perfino chi dice che non lo sappiamo perché gli unici veri
colpevoli della morte di Abele sono “coloro che aiutano ed accolgono i profughi”
e che sarebbe meglio istituire un “blocco navale”.
Ognuno ha la sua da dire per giustificare la sua innocenza e
scaricarsi da ogni colpa. Ma i corpi di Abele sono lì di fronte ai nostri occhi,
e sono tanti, ricorrenti, perfino prevedibili. E allora, chi lo ha ucciso?
La domanda risuona anche a Lampedusa e a Scicli (RG) dove opera
Mediterranean Hope (MH), il progetto promosso ormai da un anno dalla Federazione
delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Ed è una domanda lacerante e
dolorosa, anche per chi in queste ore sta facendo tutto quello che può per
accogliere, sostenere, curare persone ferite e provate. E tra queste persone ci
siamo anche noi che da qualche mese, con una newsletter, proviamo a raccontare
la nostra esperienza di MH.
Non ci rassegniamo ad esser dalla parte di Caino, noi che ci
identifichiamo con Abele e con le vittime. Ma intanto, al di là della nostra
intenzione e della nostra volontà, siamo parte di quel mondo che non vuole
trovare una soluzione a questo problema drammatico. Non vuole. Da mesi, come MH,
avanziamo una proposta e siamo pronti a dare il nostro contributo attivo e
diretto: l’idea - accolta da ampi settori del mondo delle associazioni, delle
comunità di fede e di alcuni settori politici - è quella di aprire dei corridoi
che consentano ai profughi di ottenere una protezione umanitaria presso le
ambasciate europee e quindi di viaggiare in condizioni di sicurezza. Se
condivisa a livello europeo, sarebbe un’operazione assai meno onerosa di Mare
Nostrum o di Triton; ripartendo i profughi tra vari paesi europei, i numeri
sarebbero assolutamente sostenibili e gestibili. Parliamo infatti di decine di
migliaia di persone per ogni paese, niente di più. Infine, si sottrarrebbero
risorse finanziare ai trafficanti e alle centrali politiche o affaristiche che
li controllano.
Tutto questo è tanto più sostenibile quanto più sarà l’Europa a
farsi carico di una nuova fase dell’azione umanitaria di soccorso dei profughi.
Da sola l’Italia non può farcela, come non ce la possono fare i paesi più
esposti agli approdi fortunosi dei profughi.
Ce la può fare quell’Unione che deve ritrovare la sua coscienza e
la sua anima più profonda che non è solo stabilità finanziaria e
burocratizzazione legislativa. L’Europa è nata nel sogno della pace e della
libertà. Ma questi valori non finiscono a Lampedusa.
Mare Nostrum ha molti partner, in Europa e negli USA. Ci
rivolgiamo a loro per lavorare insieme per liberarci dall’ombra di Caino della
nostra impotenza.
Serve una parola d’ordine comune e condivisa. La nostra è
“corridoi umanitari”. (Mediterranean Hope/nev-notizie evangeliche
17/2015)
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