In Italia l’evasione fiscale è sì un reato ma alla fine è condonabile e anche premiata con il pacco dono della depenalizzazione del falso in bilancio: peggio di così!
Giovanni Arcidiacono
Giovanni Arcidiacono
«Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva… Il sistema tributario è informato a criteri di progressività» (art. 53 Costituzione Italiana). Questo principio costituzionale ha formato e informato la coscienza di generazioni di docenti e professionisti che hanno operato e ancora oggi operano nei settori economici più disparati e che hanno creduto, soprattutto dopo la riforma fiscale del 1972, alla possibilità
di una significativa e duratura inversione di tendenza nel rapporto fiduciario tra cittadini e lo Stato, convinti che si potesse restituire alle generazioni future il principio della responsabilità del cittadino contribuente di fronte allo Stato nell’ambito del rapporto costi-benefici: la partita del Dare rappresentata dalle imposte prelevate dallo Stato in ragione della capacità contributiva di ciascuno e la partita dell’Avere, rappresentata dalla quantità e qualità di servizi erogati dallo Stato per il benessere della collettività.
Si è trattato di una lunga e lenta azione pedagogica e professionale orientata al superamento di una cultura fiscale che, formatasi nei secoli passati, ed essenzialmente fondata sul rapporto di sottomissione del subditus nei confronti dello Stato, aveva favorito il diffondersi di un agire illegale noto come «evasione fiscale», aggravando il bilancio dello Stato con evidenti squilibri sociali sul piano della equità fiscale e della distribuzione dei redditi.
Il primo atto di clemenza tributaria fu avviato proprio all’indomani della riforma tributaria dall’allora ministro Colombo, che avvertì la necessità di introdurre nella legislazione fiscale il concetto di «condono» nella convinzione che fosse il primo e l’ultimo, in quanto in costanza del nuovo regime tributario le entrate dello Stato sarebbero state accertate con maggior rigore al fine di garantire, migliorandolo, lo stato sociale per la collettività. Così non fu: negli anni successivi si sono susseguiti condoni e «scudi fiscali» che hanno nei fatti ostacolato significativamente l’azione di chi testardamente ha difeso, nelle varie sedi professionali, l’esigenza di una giustizia sociale equitativa.
In particolare, l’istituto dello Scudo fiscale reca in sé non solo una cultura premiante chi ha esportato capitali all’estero e/o nei cosiddetti paradisi fiscali, proteggendo patrimoni e ricchezze di provenienza spesso illegale e criminale dalla scure del fisco, ma anche una percezione culturale secondo cui l’evasione fiscale è sì un reato, ma alla fine condonabile, e, sul piano etico soprattutto, è un furto.
È difficile oggi convincere gli imprenditori, nel rapporto fiduciario professionale, che l’evasione fiscale è riconducibile a tutti gli effetti alla fattispecie del «furto», perché si concretizza la «sottrazione» di risorse allo Stato, creando una sperequazione tra le categorie sociali di sempre più vaste dimensioni, in particolare tra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi: i primi tassati alla fonte e i secondi solo su quanto dichiarato, salvo accertamenti.
Con la recente introduzione dello Scudo fiscale ter non solo si prevede l’istituzione di una minima imposta straordinaria sulle attività finanziarie e patrimoniali (5%), ma anche l’anonimato, l’assoluta certezza che nessun accertamento sarà applicato da parte dello Stato e un pacchetto «dono» composto da varie depenalizzazioni a partire dal reato di falso in bilancio. Con lo Scudo fiscale ter prende corpo e sostanza la dichiarazione dell’attuale presidente del Consiglio fatta nel 2004 secondo cui «L’evasione fiscale per chi paga il 50% di tasse è un diritto naturale che è nel cuore degli uomini e non ti fa sentire moralmente colpevole» (Berlusconi).
Oggi non è il tempo della lotta all’evasione fiscale, ma è il tempo in cui si riducono la quantità e la qualità dei servizi sociali, a partire dalla scuola: le ragioni del Dare (entrate) prevalgono sulle ragioni dell’Avere (servizi). La partita doppia di questa contabilità presenta un saldo negativo pesantissimo da sopportare per le giovani generazioni. L’abbassamento del livello complessivo del sistema scuola in Italia grida vendetta e il richiamo, per citare lo scomparso Ralf Dahrendorf, recentemente fatto dal presidente della Repubblica Napolitano è più che opportuno: «La principale ragione per istruire i cittadini non è il fatto che ciò comporta evidenti vantaggi economici per il paese, ma il principio secondo cui “ogni essere umano, dovunque sia nato e di chiunque sia figlio, deve avere l’opportunità di sviluppare i propri talenti”». È quello che dice d’altronde l’articolo 2 della nostra Costituzione, quella «legge delle leggi» che è oggetto di specifico insegnamento nelle scuole: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana», dice la nostra Carta. E tra questi ostacoli il maggiore è forse proprio quello di un insufficiente livello di istruzione».
In qualità di commissario agli esami di Stato, ho toccato con mano la gravità dell’insufficienza del sistema scolastico che premia studenti di scuole private che non studiano, non frequentano le lezioni, ma pagano profumatamente il loro «diritto all’istruzione». E allora v’è da sottolineare una saldatura tra l’evasione fiscale e l’evasione scolastica dalla scuola pubblica a favore della scuola privata: si può rubare anche il titolo di Ragioniere!
E le chiese in tutto questo processo di disgregazione sociale che ruolo hanno in Italia? Quale parola possono annunciare? E qual è la parola che non annunciano? A mio giudizio va preso sul serio il comandamento «Non rubare». Ci si deve chiedere se si può continuare a servire le istituzioni, a esempio quelle finanziarie, che sempre più sono implicate in processi di globalizzazione crescente e che partecipano a sistemi di scambio sempre più violenti e immorali. Non rubare significa anche impegnarsi nella lotta contro l’evasione fiscale perché attiene nelle democrazie avanzate alla lotta contro la povertà e alla realizzazione di una giusta distribuzione della ricchezza. Scudo fiscale e «Scudo Istruzione» sono i segni della prevalenza del criterio del rubare.
Che fare? Ci rimane quanto ci suggerisce Eric Fuchs: «la possibilità di trasgredire la falsa sacralità del denaro attraverso la rivendicazione perseverante all’onestà e alla generosità»
* docente di Economia aziendale e dottore commercialista a Bari
Si è trattato di una lunga e lenta azione pedagogica e professionale orientata al superamento di una cultura fiscale che, formatasi nei secoli passati, ed essenzialmente fondata sul rapporto di sottomissione del subditus nei confronti dello Stato, aveva favorito il diffondersi di un agire illegale noto come «evasione fiscale», aggravando il bilancio dello Stato con evidenti squilibri sociali sul piano della equità fiscale e della distribuzione dei redditi.
Il primo atto di clemenza tributaria fu avviato proprio all’indomani della riforma tributaria dall’allora ministro Colombo, che avvertì la necessità di introdurre nella legislazione fiscale il concetto di «condono» nella convinzione che fosse il primo e l’ultimo, in quanto in costanza del nuovo regime tributario le entrate dello Stato sarebbero state accertate con maggior rigore al fine di garantire, migliorandolo, lo stato sociale per la collettività. Così non fu: negli anni successivi si sono susseguiti condoni e «scudi fiscali» che hanno nei fatti ostacolato significativamente l’azione di chi testardamente ha difeso, nelle varie sedi professionali, l’esigenza di una giustizia sociale equitativa.
In particolare, l’istituto dello Scudo fiscale reca in sé non solo una cultura premiante chi ha esportato capitali all’estero e/o nei cosiddetti paradisi fiscali, proteggendo patrimoni e ricchezze di provenienza spesso illegale e criminale dalla scure del fisco, ma anche una percezione culturale secondo cui l’evasione fiscale è sì un reato, ma alla fine condonabile, e, sul piano etico soprattutto, è un furto.
È difficile oggi convincere gli imprenditori, nel rapporto fiduciario professionale, che l’evasione fiscale è riconducibile a tutti gli effetti alla fattispecie del «furto», perché si concretizza la «sottrazione» di risorse allo Stato, creando una sperequazione tra le categorie sociali di sempre più vaste dimensioni, in particolare tra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi: i primi tassati alla fonte e i secondi solo su quanto dichiarato, salvo accertamenti.
Con la recente introduzione dello Scudo fiscale ter non solo si prevede l’istituzione di una minima imposta straordinaria sulle attività finanziarie e patrimoniali (5%), ma anche l’anonimato, l’assoluta certezza che nessun accertamento sarà applicato da parte dello Stato e un pacchetto «dono» composto da varie depenalizzazioni a partire dal reato di falso in bilancio. Con lo Scudo fiscale ter prende corpo e sostanza la dichiarazione dell’attuale presidente del Consiglio fatta nel 2004 secondo cui «L’evasione fiscale per chi paga il 50% di tasse è un diritto naturale che è nel cuore degli uomini e non ti fa sentire moralmente colpevole» (Berlusconi).
Oggi non è il tempo della lotta all’evasione fiscale, ma è il tempo in cui si riducono la quantità e la qualità dei servizi sociali, a partire dalla scuola: le ragioni del Dare (entrate) prevalgono sulle ragioni dell’Avere (servizi). La partita doppia di questa contabilità presenta un saldo negativo pesantissimo da sopportare per le giovani generazioni. L’abbassamento del livello complessivo del sistema scuola in Italia grida vendetta e il richiamo, per citare lo scomparso Ralf Dahrendorf, recentemente fatto dal presidente della Repubblica Napolitano è più che opportuno: «La principale ragione per istruire i cittadini non è il fatto che ciò comporta evidenti vantaggi economici per il paese, ma il principio secondo cui “ogni essere umano, dovunque sia nato e di chiunque sia figlio, deve avere l’opportunità di sviluppare i propri talenti”». È quello che dice d’altronde l’articolo 2 della nostra Costituzione, quella «legge delle leggi» che è oggetto di specifico insegnamento nelle scuole: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana», dice la nostra Carta. E tra questi ostacoli il maggiore è forse proprio quello di un insufficiente livello di istruzione».
In qualità di commissario agli esami di Stato, ho toccato con mano la gravità dell’insufficienza del sistema scolastico che premia studenti di scuole private che non studiano, non frequentano le lezioni, ma pagano profumatamente il loro «diritto all’istruzione». E allora v’è da sottolineare una saldatura tra l’evasione fiscale e l’evasione scolastica dalla scuola pubblica a favore della scuola privata: si può rubare anche il titolo di Ragioniere!
E le chiese in tutto questo processo di disgregazione sociale che ruolo hanno in Italia? Quale parola possono annunciare? E qual è la parola che non annunciano? A mio giudizio va preso sul serio il comandamento «Non rubare». Ci si deve chiedere se si può continuare a servire le istituzioni, a esempio quelle finanziarie, che sempre più sono implicate in processi di globalizzazione crescente e che partecipano a sistemi di scambio sempre più violenti e immorali. Non rubare significa anche impegnarsi nella lotta contro l’evasione fiscale perché attiene nelle democrazie avanzate alla lotta contro la povertà e alla realizzazione di una giusta distribuzione della ricchezza. Scudo fiscale e «Scudo Istruzione» sono i segni della prevalenza del criterio del rubare.
Che fare? Ci rimane quanto ci suggerisce Eric Fuchs: «la possibilità di trasgredire la falsa sacralità del denaro attraverso la rivendicazione perseverante all’onestà e alla generosità»
* docente di Economia aziendale e dottore commercialista a Bari
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