di Franca Di Lecce, direttore del Servizio rifugiati e migranti della FCEI
La situazione in Libia precipita ogni giorno di più. La rivolta libica è diversa e certamente più complessa, ma strettamente collegata alle rivolte degli altri paesi in Nord Africa.
La sostanziale inerzia e ambiguità del governo italiano sin dall'inizio della rivolta in Libia, ha rimesso al centro la questione dei rapporti con una dittatura che è stata sostenuta a diversi livelli dall'Italia e dalla comunità internazionale.
Difficilmente una guerra porta pace e soluzioni durature e l'Italia, che tanto ha sbandierato i rapporti privilegiati con Gheddafi, ha mostrato ancora una volta la sua ambiguità e incapacità di intraprendere tempestivamente un'iniziativa politica di mediazione e di farsi portavoce di un negoziato diplomatico, proprio in ragione di quella relazione solida e duratura con la Libia.
Sapevamo tutto, o quasi tutto della situazione in Libia, abbiamo letto i numerosi rapporti sulla violazioni dei diritti umani, abbiamo ascoltato le testimonianze dirette sulle torture subite da parte di persone che sono riuscite a fuggire e a raggiungere l'Europa, si sono levate alcune voci critiche - troppo poche o solo inascoltate? - sul trattato di amicizia e cooperazione con la Libia. Sapevamo chi era Gheddafi e in nome di quell'accordo sono stati respinti migranti e i richiedenti asilo che cercavano di raggiungere l'Italia e l'Europa. Ma questa consapevolezza non è bastata, o semplicemente la questione dei diritti umani è subordinata agli interessi economici dei paesi coinvolti.
Ora, siamo di fronte ad un'altra guerra. Ogni guerra è assurda e disumana e non può essere chiamata umanitaria, il governo italiano e la comunità internazionale non hanno avuto la capacità e la volontà politica di trovare risposte adeguate. La strategia del terrore messa in campo dalla Libia era prevedibile e come sempre, accade in ogni guerra, a pagarne il prezzo sono i civili, i profughi, le persone in condizioni di vulnerabilità.
Intanto Lampedusa è di nuovo sotto i riflettori, come avviene a intermittenza da diversi anni, la splendida isola è la tragica metafora del fallimento delle politiche di immigrazione e asilo messe in campo dal governo italiano.
Gli abitanti dell'isola sono esasperati e hanno le loro ragioni, non accettano una politica di scaricamento delle responsabilità del governo centrale e non devono essere lasciati soli. Attualmente sono presenti sull'isola circa 5mila migranti, in maggioranza tunisini, e il centro di accoglienza ne ospita circa 2mila, a fronte di una capienza di 850 posti. Molti migranti dormono all'addiaccio in condizioni igieniche inaccettabili, oltre 200 sono minori, la tensione è alle stelle. Si rischia, come avviene da sempre in Italia, di scaricare la incapacità del Governo di gestire la situazione sulla popolazione e di manipolare quel disagio legittimo e inascoltato.
Ancora una volta le risposte che arrivano sono in chiave emergenziale, e il sistema asilo, già così fragile in Italia, rischia in questa situazione di essere ulteriormente compromesso dalle decisioni del Governo.
Di fronte ai nuovi flussi provenienti dalle aree di crisi del Nord Africa, il Ministro dell'Interno ha proposto soluzioni miopi e irresponsabili, come il trasferimento di richiedenti asilo presenti sul territorio italiano nel centro di Mineo (Catania), ex villaggio dei militari USA e che, per l'occasione, è stato ribattezzato “Villaggio della solidarietà”.
Lo scorso 11 marzo insieme ad alcune organizzazioni del Tavolo Nazionale Asilo, abbiamo chiesto un incontro urgente al prefetto Giuseppe Caruso, Commissario straordinario per l'emergenza immigrati, esprimendo la nostra preoccupazione e il nostro dissenso per il trasferimento annunciato - che già sta avvenendo in questi giorni - dei richiedenti asilo verso il nuovo centro di Mineo. Abbiamo chiesto un confronto sulla gestione complessiva della situazione nuova che si sta creando nel nostro Paese. Finora, nonostante i ripetuti solleciti, non abbiamo ricevuto alcuna risposta, mentre i trasferimenti, vere e proprie deportazioni, di persone già accolte nei vari CARA (centri di accoglienza per richiedenti asilo) sono iniziati, vanificando quei percorsi di accoglienza territoriale già avviati anche in collaborazione con i servizi socio-sanitari e compromettendo le procedure di asilo avviate. Una tale soluzione che, tra l'altro comporta costi enormi, rischia di smantellare e minare profondamente il diritto di asilo in Italia.
Come chiese e enti di tutela dei diritti dei rifugiati e dei migranti continueremo a lavorare perché sia data un'accoglienza dignitosa alle persone in fuga e continueremo, allo stesso tempo, a chiedere l'apertura di un corridoio umanitario che permetta ai profughi di avere una via di fuga.
Il 10 marzo, infatti, abbiamo rivolto un appello all'Unione Europea perché si assumesse l’impegno di un’evacuazione umanitaria immediata di migliaia di persone provenienti dal Corno d'Africa e che sono ancora intrappolati in Libia completamente privi di alcuna protezione e vittime della violenza esercitata sia da parte delle milizie di Gheddafi che da una parte degli insorti.
L'adozione di strumenti adeguati di protezione e l'accoglienza dignitosa delle persone in fuga è una responsabilità inderogabile dell'Unione Europea che sulla questione dei diritti umani troppo spesso balbetta e si nasconde (NEV-notizie evangeliche 12/11).
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