Di Desmond Tutu
È passato già un quarto di secolo da quando andavo di paese in paese nelle zone rurali degli Usa esortando gli statunitensi, specialmente gli studenti, ad esercitare pressioni a favore del boicottaggio in Sudafrica. Oggi, purtroppo, è il momento di intraprendere un’azione simile per obbligare Israele a porre fine alla sua lunga occupazione del territorio palestinese e ad estendere l’uguaglianza di diritti ai cittadini palestinesi vittime di circa 35 leggi discriminatorie.
Sono arrivato a questa conclusione in maniera lenta e penosa. Sono consapevole del fatto che molti nostri fratelli e sorelle ebrei, il cui contributo è stato tanto decisivo nella lotta contro l’apartheid sudafricano, non sono ancora disposti a guardare in faccia il regime di apartheid stabilito da Israele e dal suo attuale governo. Sono enormemente preoccupato che il fatto di porre tale questione possa creare malessere ad alcuni rappresentanti della comunità ebraica con cui ho lavorato strettamente ed efficacemente per decenni. Ma non posso ignorare la sofferenza palestinese a cui ho assistito, né le voci dei coraggiosi ebrei preoccupati dalla deriva discriminatoria di Israele.
Negli ultimi giorni, circa 1.200 rabbini statunitensi hanno firmato una lettera – programmata in maniera che coincidesse con le risoluzioni della Chiesa Metodista Unita e della Chiesa Presbiteriana (Usa) – per chiedere ai cristiani di non «unirsi alla campagna di disinvestimenti selettivi nei confronti di certe compagnie i cui prodotti sono utilizzati da Israele». Sostengono che una «prospettiva unilaterale» relativa al disinvestimento, anche quello selettivo di compagnie che si avvantaggiano dell’occupazione, come nella risoluzione di metodisti e presbiteriani, «pregiudichi la relazione tra ebrei e cristiani costruita lungo decenni».
Per quanto siano senza dubbio benintenzionati, credo che i rabbini e altre persone che si oppongono al disinvestimento commettano purtroppo un errore. La mia voce si alzerà sempre in appoggio dei legami tra cristiani ed ebrei e contro l’antisemitismo, detestato e temuto da ogni persona sensibile. Ma questa non può essere una scusa per non fare nulla e restarsene ai margini mentre i governi israeliani che si succedono continuano a colonizzare la Cisgiordania e a promuovere leggi razziste.
Ricordo bene le parole del reverendo Martin Luther King Jr. nella sua Lettera dal carcere di Birmingham, nella quale confessa ai suoi «fratelli cristiani ed ebrei» di sentirsi «profondamente defraudato dai bianchi moderati… che rispettano molto più l’ordine che la giustizia; che preferiscono la pace negativa che presuppone assenza di tensioni alla pace positiva che implica la presenza della giustizia; che dicono costantemente “sono d’accordo con te riguardo agli obiettivi che persegui ma non posso trovarmi d’accordo con i tuoi metodi di azione diretta”; che credono, in maniera paternalista, di poter stabilire il calendario per la libertà umana degli altri…».
Le parole di King descrivono con precisione la ristrettezza di vedute di 1.200 rabbini che non si stanno unendo ai coraggiosi palestinesi, ebrei e internazionalisti nelle comunità isolate della Cisgiordania per protestare pacificamente contro il furto della terra palestinese operato da Israele al fine di costruire insediamenti illegali e il muro di separazione. Non possiamo permetterci di nascondere la testa sotto la sabbia mentre un’incessante attività colonialista annulla la possibilità della soluzione dei due Stati.
Se non riusciamo a realizzare questo in un futuro prossimo, arriverà il giorno in cui i palestinesi smetteranno di lottare per la creazione di uno Stato proprio separato e rivendicheranno il loro diritto a votare per il governo in Israele, in un unico Stato che garantisca la democrazia. Israele ritiene inaccettabile tale opzione e, tuttavia, sta facendo di tutto perché si realizzi.
Molti sudafricani neri si sono recati nella Cisgiordania occupata e hanno provato orrore di fronte alle strade costruite solo per i coloni ebrei e su cui i palestinesi non possono mettere piede e di fronte alle colonie per ebrei edificate sulla terra palestinese in violazione del diritto internazionale.
Molti sudafricani neri e altre persone di tutto il mondo hanno letto il rapporto 2010 di Human Rights Watch che «descrive il sistema di leggi, norme e servizi di “due pesi e due misure” con cui opera Israele per le due popolazioni in zone della Cisgiordania sotto il suo esclusivo controllo, offrendo servizi preferenziali, sviluppo e benefici per i coloni ebrei e imponendo invece le più dure condizioni ai palestinesi». Questo, secondo la mia opinione, si chiama apartheid. Ed è indifendibile. E abbiamo un bisogno disperato che altri si uniscano ai coraggiosi rabbini di Jewish Voice for Peace per parlare in maniera chiara della dominazione di Israele sui palestinesi in corso ormai da tanti decenni.
Queste sono le parole più dure che abbia mai scritto. Ma rivestono un’importanza vitale. Israele non solo sta danneggiando i palestinesi, ma si sta anche facendo del male. Può essere che a questi 1.200 rabbini non piaccia sentire quello che ho da dire, cioè che è arrivata l’ora che si tolgano la benda dagli occhi e prendano chiaramente coscienza del fatto che Israele sta diventando uno Stato di apartheid, come lo era il Sudafrica, negando l’uguaglianza di diritti ai palestinesi, e che non si tratta di un pericolo futuro, come hanno indicato i tre ex primi ministri Ehud Barak, Ehud Olmert e David Ben Gurion, ma di una realtà di oggi. Questa dura realtà sofferta da milioni di palestinesi richiede persone e organizzazioni di coscienza che boicottino compagnie – come, per esempio, Caterpillar, Motorola Solutions e Hewlett Packard – che traggono vantaggio dall’occupazione e dalla sottomissione dei palestinesi.
Tale azione porta con sé un’enorme differenza rispetto all’apartheid sudafricano, perché può creare un futuro di giustizia e di uguaglianza tanto per i palestinesi quanto per gli ebrei in Terra Santa.
Tratto da http://www.adistaonline.it/
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