di Gianni Genre, pastore della Chiesa valdese di Pinerolo
Diciamolo subito: non avevamo alcun dubbio sul fatto che il disegno di legge Calabrò sarebbe stato approvato anche alla Camera. Anche questa è una sorta di vendetta “politica” dell’attuale maggioranza nei confronti della Magistratura e di tutti coloro che, sostenendo la battaglia di Beppino Englaro e Mina Welby, si sono battuti e si battono per garantire un minimo margine di libertà e di dignità nel momento in cui ciò che rimane di un’esistenza umana chiede di superare la soglia dell’eternità.
Ecco perché in molte nostre chiese, ovunque nel nostro Paese, c’è stata, c’è e ci sarà una mobilitazione delle coscienze: battaglia che, peraltro, portiamo avanti con persone che hanno altre appartenenze confessionali o non desiderano averne alcuna.
Tanto per essere chiari: nessuno nega il fatto che le delicate questioni che attengono alla fine della vita siano fonte di convincimenti che possono apparire del tutto controversi se non addirittura contrapposti. Ma il rispetto delle altrui posizioni non può venire calpestato da una legge frutto di un atteggiamento di protervia politica cui ci siamo purtroppo abituati nell’Italia di questi ultimi anni. Coloro che, come molte sorelle e molti fratelli nelle nostre chiese, depositano o raccolgono i “testamenti biologici” contenenti le “dichiarazioni anticipate di trattamento”, utilizzabili soltanto in circostanze estreme, dove la persona sia priva della capacità di intendere e di volere, non hanno mai pensato di imporre ad altri la loro scelta, ma di garantirla a sé stessi o ai loro cari.
Un’ultima scelta di libertà, quella di potere morire, quando la vita non è più possibile e viene spacciata per sopravvivenza.
La complessità del problema, infatti, che viene negata da questa pessima legge appena approvata, nasce dalla difficoltà di definire che cosa sia la vita e che cosa sia la morte.
Nella prospettiva biblica – lo abbiamo ripetuto per anni - la vita non è anzitutto un dato biologico ma biografico: è data cioè dall’insieme delle relazioni che riusciamo ad intessere con chi ci circonda ed eventualmente con Dio. Nella più conosciuta delle parabole, quella cosiddetta del “figliol prodigo”, Gesù afferma che il padre della parabola giustifica la grande festa che ha preparato per il ritorno del figlio perché “questo mio figlio era morto ed è tornato in vita”. La morte avviene, dunque, quando dobbiamo registrare l’assenza di relazioni che dà contenuto e spessore alla nostra giornata terrena. La sopravvivenza, garantita da ventilazione, alimentazione e idratazione forzata, se contrarie alla volontà liberamente espressa dalla persona, si configurano invece, a mio avviso, come una sorta di atteggiamento idolatrico nei confronti della vita. Idolatria che viene spesso mascherata da dichiarazioni spesso ipocrite sulla sacralità della vita, esattamente come avviene nella legge approvata ieri alla Camera. In che cosa, infatti, si attenterebbe alla sovranità di Dio, permettendo ad una persona che lo ha richiesto di spegnersi in modo “naturale”, cioè senza accanimento sul proprio corpo?
A questo proposito, vale la pena leggere la legge nella sua interezza, dove si afferma che “alimentazione ed idratazione sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze e non possono formare oggetto di Dichiarazione Anticipata di Trattamento”.
Insomma, nessuna reale libertà di scelta, una sopravvivenza imposta che impedisce la pur minima autodeterminazione terapeutica e contraddice le sentenze della Corte di Cassazione che affermano invece il contrario. Il tutto ben sapendo che molti farmaci letali sono utilizzati, in molti casi, senza domanda esplicita al paziente (che spesso non può rispondere).
E senza volere riconoscere che persino la richiesta ad un aiuto “attivo” a morire (che va ben oltre al testamento biologico), nei Paesi dove questo sia reso possibile dalle locali leggi vigenti, è assolutamente minimo, inferiore ai quattro casi ogni mille decessi.
Questa battaglia non mi ha mai entusiasmato, anzi mi sono sempre sentito sorpreso (e un po’ umiliato) nel doverla condurre perché in un Paese che si dice libero e democratico abbiamo sperato e creduto che una legge moderna, che coniugasse il rispetto dell’esercizio della libertà dell’individuo con la tutela della dignità dell’essere umano e con quella dell’inviolabilità della vita, potesse al fine vedere la luce.
Il nostro impegno dovrà invece essere ancora più grande, semplicemente perché viviamo in Italia, il Paese delle troppe anomalie. Soltanto qui, ad esempio, la Chiesa Cattolica mantiene una posizione di chiusura del tutto incompatibile con quella della Conferenza episcopale tedesca che – fin dal 1999, attraverso un documento sottoscritto e già rivisto due volte con il Consiglio della Chiesa Evangelica – permette e considera eticamente ammissibile l’eutanasia passiva volta ad un dignitoso lasciare morire, non proseguendo né iniziando un trattamento volto al prolungamento della vita (es. l’alimentazione o la respirazione artificiale, la dialisi, la somministrazione di antibiotici o altro nel caso di malati terminali o inguaribili…).
Questa legge oscurantista, liberticida, nasce male, anche perché è ancora una volta segno di un’ulteriore prova di “captatio benevolentiae” nei confronti del Vaticano da parte di una compagine politica e del suo leader che – come dimostra anche l’attuale crisi di credibilità prima ancora che economica in cui è scivolato il nostro Paese – cerca disperatamente appigli cui aggrapparsi mentre sta affondando, trascinando a fondo tutti noi.
Delle questioni relative alla fine della vita, insomma, non si è voluto e non si vuole discutere serenamente, come molti italiani ci chiedono di fare. Tra gli altri ce lo ha chiesto un grande giornalista ”di frontiera” scomparso alcuni anni fa, Enzo Aprea. Aggredito e letteralmente “fatto a pezzi” dal morbo di Burger che lo ha costretto ad una serie terribile di amputazioni agli arti superiori e inferiori, in una poesia dedicata al suo ultimo, imprevisto, amore in quegli anni di sofferenza atroce, scriveva: “Amore è aspettarsi il domani/ amore è accettare un addio/ amore è lasciarsi andare./ Amore è aiutarmi a morire”. (nev-notizie evangeliche 28/11)
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